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Autore: Adeia Di Elferas    31/07/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Forse la si sarebbe potuta considerare una condotta azzardata, ma, una volta sistemato un consistente numero di guardie sui camminamenti e sulle torri d'osservazione, Caterina aveva proclamato una sera di festa per la città.

Il fatto che non si fosse arrivati a un vero e proprio scontro e che, soprattutto, i veneziani se ne fossero tornati sui loro passi senza lasciarsi alle spalle cadaveri se non quelli dei loro stessi uomini, era una vittoria che andava celebrata con tutti i crismi.

Malgrado le dispense cittadine non fossero al massimo, la Contessa ordinò che quella notte venissero offerti cibo e vino in ogni angolo della città e che tutti i soldati – eccetto quelli di turno, che avrebbero dovuto attendere il cambio di guardia – mangiassero e bevessero a volontà.

La stessa rocca fremeva di vita, le torce tutte accese e motti spontanei e cori che si sollevavano in ogni angolo.

Benché la Tigre avesse avuto soprattutto una grande fortuna, tutti quanti vedevano in quella miracolosa vittoria il suo merito. Secondo i suoi soldati, la Sforza era riuscita a non perdere la testa e anche a ideare un trucco che aveva ingannato i veneziani alla perfezione.

Dal canto suo, Caterina, dopo un lungo momento di incredulità – perché a lei per prima sembrava assurdo di essere riuscita a scacciare i veneziani con tanta facilità – aveva riabbracciato tutti i suoi figli e non si era separata da Giovannino nemmeno per un attimo, durante il banchetto improvvisato che aveva fatto allestire a Ravaldino, per i suoi comandanti e alcuni soldati.

Alla sua destra sedeva Galeazzo, che, gonfio di orgoglio tanto verso sua madre quanto verso se stesso, se ne stava ritto come un fuso, bevendo di tanto in tanto un po' di vino e mangiando poco, lo stomaco ancora chiuso per le emozioni di quella lunga giornata.

Alla sinistra della Tigre c'era Bianca, con accanto Sforzino che, passato il pericolo, si era visto ritornare il sorriso e l'appetito.

La Contessa teneva Giovannino sulle gambe e il bambino, che pur non amava troppo la confusione, pareva apprezzare la vorticosa festa che si era animata attorno a lui.

Qualche musico improvvisato aveva anche cominciato a suonare strumenti recuperati all'ultimo minuto e più di un soldato, dopo essersi riempito di cibo e vino, era sceso in pista, tra i tavoloni della sala, e aveva cominciato a far danzare qualche serva.

“Vai a ballare anche tu, se vuoi...” fece Caterina, guardando di sottecchi Bianca.

La ragazzina aveva le gote un po' arrossate – anche lei, passato lo spavento, si era lasciata contagiare dal giubilo di Forlì e aveva bevuto un paio di calici in più del solito – e fissava con aria strana quelli che stavano danzando.

“Sto bene qui.” disse alla fine la Riario, tenendo le mani in grembo e sorridendo pacata alla madre.

La Leonessa non insistette e vuotò l'ennesimo bicchiere che le era stato riempito. Aveva perso del tutto il conto di quanto stesse bevendo. Non le importava. Era felice come non le capitava da tempo, si sentiva potente e fiera, però l'assenza di suo marito Giovanni la pungolava come un coltello affilato e il vino sembrava l'unica cosa capace di lasciarle l'euforia e toglierle la tristezza.

“Mia signora – Fracassa era arrivato alle sue spalle e si era chinato verso di lei, per riuscire a farsi sentire anche attraverso la confusione – forse sarebbe il caso di discutere il posizionamento delle truppe per i prossimi giorni...”

La donna avvertì il suo alito pesante e il lezzo dei suoi vestiti sudati. Vide il suo volto sgraziato e la sua espressione che aveva sempre quel velo di stupidità che, anche quando smentito dalle sue note capacità militari, dava ai suoi occhi una patina opaca.

Non le era mai stato molto simpatico, e aveva sempre cercato di farselo andar bene comunque, per amor degli affari di Stato, ma quella sera non aveva alcuna voglia di stare a dar filo a un simile mostriciattolo.

“Ascoltatemi, Sanseverino – gli disse lei, fissandolo con aria fredda, il volto che cambiava repentinamente espressione, trasformandosi in una maschera inespressiva e inquietante – i veneziani sono convinti che il mio esercito conti almeno diecimila uomini, altrimenti non sarebbero scappati a quel modo. Magari ci scateneranno contro l'inferno, non lo sappiamo, ma di certo non lo faranno domani mattina. Quindi, per stanotte, vedete di distrarvi un po' anche voi. Trovatevi una donna, o quello che volete, e smettetela di rompermi l'anima.”

Gaspare aveva sempre pensato di avere poco intendimento con la milanese, ma quel tono arrogante lo indispose comunque più di quanto non volesse.

“Come preferite.” disse solo e, dedicando appena un cenno con il capo a Bianca, che lo osservava silenziosa, si allontanò dal tavolo d'onore.

Galeazzo si era unito come altri alle danze e la madre aveva notato come le ragazze più giovani della servitù stessero facendo a gara per averlo come cavaliere, benché non avesse ancora tredici anni.

'Di questo passo – pensò tra sé, con un vago sorriso sulle labbra – sarà bene che si cominci a cercargli una sposa'.

Il vino continuava a scorrere e la festa si faceva man mano più caotica. Bianca, alla fine, aveva ceduto e si era messa a ballare. Sforzino, invece, continuava a mangiare pezzi di torta e di formaggio, come se dovesse supplire il piccolo digiuno tenuto quel giorno.

Caterina non si era chiesta nemmeno una volta dove fosse Cesare. Fu una domanda del castellano a farglielo tornare in mente.

“Probabilmente sarà in Duomo a battersi il petto e fare penitenza.” aveva risposto la Contessa, sollevando un sopracciglio quasi divertita.

Quando Giovannino cominciò a dare segni di irrequietezza, forse per il troppo rumore o più probabilmente per il sonno, la Tigre cercò Bianca con lo sguardo e quando la vide tra le braccia di un giovane soldato, ebbe la delicatezza di aspettare che il ballo finisse, prima di chiamarla a sé con un gesto.

La ragazza aveva accettato quel ballerino per tre danze di fila e fu felice di vedere il cenno della madre.

Il vino e l'euforia le stavano facendo desiderare quel giovane più di quanto sapesse fosse lecito. Era stata attenta per molto tempo e aveva anche rischiato di scottarsi più di una volta.

Ora quel giovane, con i suoi caldi occhi scuri, la stava mettendo in seria difficoltà. La Riario sentiva il sangue ribollire nelle vene e ogni volta che lui l'aveva stretta un po' di più – teoricamente per eseguire meglio i passi delle danze, anche se in realtà nessuno stava più seguendo schemi precisi nel muoversi – Bianca aveva trovato difficile riallontanarsi dal suo corpo.

Lo salutò con una mezza riverenza e un sorriso, lasciandolo visibilmente deluso per quell'improvviso congedo, e corse dalla Tigre.

“Credo che Giovannino andrebbe portato a dormire...” spiegò Caterina, mostrando il bambino che, accigliato, pareva quasi sul punto di scoppiare a piangere.

La ragazza convenne con la madre e si offrì: “Lo porto io dalle balie.”

“Grazie.” sussurrò la madre, alzandosi, per passare il piccolo alla figlia.

Una volta che Bianca si fu allontanata con il fratellino tra le braccia, la Leonessa si abbandonò contro lo schienale della sedia. Iniziava a sentirsi pesante e la confusione cominciava a infastidire pure lei.

Voleva restare un po' più a lungo alla festa, per farsi vedere. Aveva capito, quel giorno come non mai, che la sua presenza era importante, per il suo esercito.

“Non danzate?” chiese Giovanni da Casale, avvicinandosi al tavolo.

Sembrava del tutto sobrio e la Sforza trovò fuori luogo quel dettaglio. Pirovano aveva la patino dell'uomo serio a tutti i costi, e in quel frangente non era la serietà, quello che stava cercando.

“Ritenevi libero, questa sera.” gli disse, agitando una mano, senza badare troppo alla possibilità di suonare sgarbata: “Se avrò voglia di passare un'altra notte con voi, sarò io a cercarvi.”

Il comandante parve rimanere di sale, tuttavia, stringendo appena il morso, ribatté, rigido: “Come preferite.”

La Tigre rimase allora in silenzio e quando Giovanni si fu allontanato – mettendosi in un angolo della sala, finalmente afferrando un calice per bere un sorso di vino – si guardò attorno con attenzione.

Dopo un po', tra quelli che ballavano, notò un giovane armigero, sui vent'anni, che saltava e rideva come un pazzo. Aveva le spalle larghe e un bel viso. Poco lontano da lui, intento a scambiare battute con un altro paio di soldati, ce ne stava un secondo, un pochino meno giovane, ma altrettanto interessante.

La Contessa si morse il labbro. Forse era davvero tempo di lasciare quella festa. Fracassa, malgrado tutto, aveva ragione. Nelle prossime ore si sarebbe dovuto decidere del futuro della difesa cittadina.

Caterina sospirò e pensò che prendersi ancora qualche ora di svago e incoscienza sarebbe comunque stato lecito.

Si fece versare un ultimo calice di vino nero e lo bevve tanto in fretta che, sul finale, sentì quasi montare la nausea. Si alzò, tenendosi al tavolo con entrambe le mani e, mettendo da parte qualsiasi pudore residuo, attraversò lentamente la sala, andando verso i due giovani che aveva notato poco prima.

 

“Lo sapete bene!” stava dicendo Bianca, guardando con durezza una delle balie, che fingeva di non capire: “Non vuole dormire da solo. Ha paura del buio. Quindi, per favore, restate con lui.”

“Ma...” tentò di protestare la donna – poco più vecchia della Riario – che avrebbe tanto voluto poter restare ancora un po' alla festa.

“Siete pagata, ricordatevelo. Mia madre vi ha dato un impiego e una casa quando nessuno vi voleva.” le fece presente la ragazza, che non avrebbe voluto scadere in quel genere di avvertimenti, ma che proprio non trovava altro modo di convincere la bambinaia a fare il suo dovere: “Vi ha strappata da una vita molto più misera di quella che conducete qui. Siete stata al banchetto finora, dunque potete anche ritirarvi senza troppi rimpianti.”

La balia, nel sentirsi rinfacciare la sua infima provenienza, rivisse i giorni concitati in cui la Sforza l'aveva comprata da uno dei peggiori postriboli della città. Era stata così felice, nel vedersi salvare da un destino che le era capitato tra capo e collo per fame...

“Avete ragione. Perdonatemi.” fece alla fine la donna, abbassando lo sguardo e apparentemente mettendo a tacere una volta per tutte le sue recriminazioni.

Bianca si sistemò una ciocca sottile di capelli biondi che le era sfuggita dalla treccia che le cadeva sulle spalle. Avrebbe voluto un'acconciatura più alla moda, alla spagnola, magari, ma da tempo ormai sia lei sia sua madre non avevano delle dame di compagnia capaci di fare certe pettinature e cos' si accontentava di quello che riusciva a fare la sua amica cuoca.

Dopo aver dato un ultimo bacio sulla fronte a Giovannino che, ancora rosso per il recente pianto disperato, pareva essersi calmato, nel vedere come almeno la balia fosse intenzionata a restare con lui per la notte, la Riario uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle.

Si sentiva benissimo la confusione che imperversava ancora per la rocca e anche il cortile d'addestramento, malgrado si stesse alzando la nebbia, era pieno di gente che inneggiava alla vittoria e beveva vino.

Anche lei si rendeva conto dell'importanza di essere scampati a quella battaglia, ma le sembrava quasi eccessiva, tutta quella gioia, calcolando che a parte qualche freccia, non erano nemmeno state imbracciate le armi.

Stava camminando veloce verso la sua stanza. Voleva darsi una sistemata, prima di tornare nella sala dei banchetti. Giovannino, nella speranza di convincerla a restare con lui, le si era aggrappato all'abito con tanta forza da sgualcirglielo tutto.

L'ala in cui si trovava la sua nuova camera – non lontana da quelle della madre – era molto più tranquilla del resto della rocca.

Il fracasso arrivava anche lì, ma se non altro il corridoio era deserto. Anzi, quasi deserto.

Bianca sentì ridere e vide delle ombre che arrivavano dalla rampa di scale opposta a quella da cui era arrivata lei. Malgrado le torce a muro fossero tutte accese, ci mise un po', prima di riconoscere la figura di sua madre, che, ridendo, stava andando verso la porta di una delle sue due stanze. Di quella che usava quando incontrava i suoi amanti.

Con lei c'erano due uomini che, seguendola senza tregua, ricambiavano le sue risate e allungavano le mani su di lei.

Prima di riuscire a sottrarsi a quella visione, la giovane Riario vide la madre baciare prima l'uno e poi l'altro e infine tirarli entrambi dentro la sua camera buia, prima di chiudere la porta.

Bianca rimase immobile per qualche istante, la fronte imperlata di sudore e uno strano nodo all'altezza dello stomaco.

Provava a pensare a quello che aveva appena visto e al suo significato, ma dopo poco rinunciò a trovarvi un senso.

Evitò di andare in camera sua per sistemarsi, come invece aveva pensato di fare prima, e tornò sui suoi passi. A metà scala, però, si dovette fermare, perché il blocco che le era salito allo stomaco le stava facendo accorciare anche il fiato.

Forse era in parte colpa del vino che aveva bevuto, forse, di sicuro, anzi, colpa della scena a cui aveva appena assistito. In ogni caso, la nausea che provava era tanto opprimente e viva che temette di vomitare la cena lì dove si trovava.

Respirò a fondo un paio di volte e si costrinse a riprendere la discesa delle scale. Appena giunta al piano terra, la confusione in cui si immerse le parve inappropriata. Voleva un po' di tranquillità. E non voleva tornare nella sua stanza, sapendo che a pochi metri di distanza sua madre si stava intrattenendo con due uomini.

Puntò con decisione verso le cucine, ma, appena prima di imboccare il corridoietto che portava all'ultima scala, sentì qualcuno frenarla, appoggiandole una mano sulla spalla.

Si voltò di scatto, quasi spaventata e si trovò davanti il ragazzo con cui aveva ballato per ultimo, quella sera.

“Vi ho cercata, nella sala, ma non vi ho vista più...” fece il giovane, con un sorriso pacato.

Bianca sentiva il contatto della sua mano – ancora abbastanza liscia, benché fosse un soldato – e la pelle nuda della sue spalla, lasciata scoperta dal colletto ampio del suo vestito.

Guardò il viso dai lineamenti regolari del giovane che le stava dinnanzi. Erano fin troppo fini, per un uomo d'armi. Lo avrebbe visto meglio a fare un lavoro d'ufficio, o il politico. Era sprecato, come soldato.

“Avevo una cosa da fare...” soffiò Bianca, non sapendo come gestire quello che le si agitava nel petto.

Il ragazzo le si avvicinò un po' di più, e, approfittando del momento di apparente calma e dell'assenza di testimoni, si chinò un po' su di lei e le sfiorò le labbra con le sue. Dapprima lo fece con gentilezza, quasi con timore, e poi con una convinzione maggiore, incoraggiato soprattutto dalla risposta vivace di Bianca.

Dopo pochi istanti, tuttavia, fu la Riario a farlo smettere. Con delicatezza, ma in modo risoluto, lo indusse a ritrarsi e lo tenne a distanza, appoggiandogli una mano sul petto.

Il ragazzo lesse questa ritrosia come un ultimo tentativo di mostrarsi pudica ai suoi occhi, ma nulla di più. Aveva avvertito un ardore inconfondibile, nei baci della giovane e quindi era sicuro di aver fatto centro.

Sollevando lentamente gli occhi scuri verso di lei, si esibì in un sorriso un po' timido e le sussurrò, appoggiando la sua mano su quella che lei gli aveva posto sul petto: “Siete bellissima. Anche più bella di vostra madre. Le assomigliate moltissimo.”

Quell'ultima constatazione fece un effetto strano sulla figlia della Tigre. I suoi occhi, di un blu tanto scuro che con quella luce avrebbero potuto sembrare neri, si fecero duri e severi.

“No, non assomiglio a mia madre.” ribatté, lapidaria, sottraendo la sua mano a quella del giovane soldato.

La ragazza ricordava la promessa fatta a Giovanni, di stare attenta e di agire sempre secondo coscienza e non solo per seguire il capriccio di un momento. E poi rivide davanti a sé sua madre che si portava in camera due uomini, ridendo, come se così facendo non stesse tradendo la memoria del suo ultimo marito, come se fosse una cosa senza peso, senza alcun significato.

Bianca non voleva essere così.

Il soldato la fissava senza capire a fondo il suo improvviso rifiuto, tuttavia la lasciò allontanarsi, senza nemmeno provare a seguirla, e così la Riario fu libera di andare in cucina, dove trovò alcune delle sue amiche più care e con loro, chiacchierando di cose che non le interessavano, tirò l'alba senza dover più pensare a sua madre e all'ombra che di continuo la sua ingombrante figura gettava su di lei e su tutti i suoi fratelli.

 

Qualche fascio di luce colpì il viso di Caterina, facendola risvegliare. I raggi del sole erano caldi, malgrado fosse già il 25 ottobre, e la Contessa dovette strizzare gli occhi un paio di volte, prima di mettere a fuoco la stanza, senza essere accecata dalla luce.

Non era presto, su quello non aveva dubbi. Il cerchio opprimente che le stringeva la testa come una morsa, poi, le ricordava di quanto vino avesse bevuto la sera prima. Si mosse un po', lo sguardo ancora rivolto al soffitto e in quel momento le fu chiaro del perché avesse così caldo, malgrado fosse coperta appena da un lenzuolo e il camino fosse spento.

Il suo corpo intorpidito ci aveva messo un p', prima di capire, ma ora che controllava anche con lo sguardo, si rese conto di essere coricata in mezzo a due uomini. I due che aveva scelto quella notte, quando aveva lasciato la sala dei banchetti.

Ricordò a spezzoni quello che era successo, dopo che erano arrivati in camera. Anche se in parte si vergognava della sua debolezza, dall'altra si ripeteva che non aveva fatto nulla di sbagliato. Nessuno di loro era stato costretto, nessuno di loro era legato a qualcuno. Erano liberi di fare quello che volevano.

Tuttavia, il desiderio di levarsi subito da quella situazione era abbastanza forte da indurla a muoversi subito. Non voleva che i due soldati si risvegliassero trovandosela tra le braccia. Sarebbe stata una situazione troppo imbarazzante.

Se la sera prima c'era stato il vino, a fare da scudo a tutti e tre, quella mattina la luce del sole sarebbe stata un giudice implacabile.

Con pochi movimenti fluidi, la donna riuscì a districarsi da quell'intrico di gambe e braccia e scivolò giù dal letto. Recuperò il suo abito, mescolato a quelli dei due giovani, in terra, e lo infilò.

Non le piaceva l'idea di lasciarli soli nella sua stanza, ma non vedeva alternative. Dando un'ultima occhiata ai due amanti che si erano cimentati con lei quella notte, e che ora, a mattina fatta, dormivano ancora come due sassi, Caterina sospirò pesantemente e andò alla porta.

Sperando di non averli svegliati con il rumore sordo dell'uscio che si chiudeva, la Tigre respirò a pieni polmoni l'aria fresca della mattina.

Siccome i postumi della festa le avevano lasciato lo stomaco sottosopra, andò nelle cucine per prendere il necessario per una delle sue pozioni contro quel genere di indisposizioni.

Anche le cuoche e le sguattere erano provate dalla lunga notte di baldoria. Un paio dormivano secche, sedute sui loro sgabelli, la schiena contro il muro. La cuoca più anziana – che fece un cenno reverenziale di saluto alla Contessa, quando la vide – rimestava il paiolo con la minestra che sarebbe stata servita a mezzogiorno. Un paio di sguattere stavano ripulendo calici e vassoi, in silenzio, gli occhi mezzi chiusi dal sonno.

E in un angolino tranquillo, sistemata sul pagliericcio assieme a una delle serve, la Sforza vide sua figlia che, probabilmente colta dal sonno mentre chiacchierava, aiutando la domestica con i lavori di cucito, dormiva profondamente, ancora con addosso gli abiti della sera prima e con un gomitolo di lana in mano.

La Leonessa pese quello che le serviva e tornò ai piani alti, andandosi a rintanare nella sua spelonca da strega. Preparò la sua pozione e ne ingerì una dose massiccia. Quando finalmente il cerchio alla testa e la nausea cominciavano a passare, lasciandole in corpo solo la stanchezza e uno strano senso di estraneità, Luffo Numai arrivò a cercarla.

“Immagino che non ne abbiate molta voglia – le disse, notando le occhiaie e l'espressione assonnata della sua signora – ma alle porte della città c'è messer Ottaviano Manfredi che chiede di potervi incontrare.”

A sentire quel nome, Caterina avvertì una scossa lungo la schiena. Dopo la vittoria coi veneziani, poteva farsi forte anche davanti al Manfredi e imporgli un'alleanza che fosse più vantaggiosa per lei che per lui.

Ringraziò Numai e ordinò: “Fatelo sistemare al palazzo. Sarò da lui nel giro di mezz'ora.”

Il Consigliere annuì e, dopo appena uno sguardo alle bottigliette e ai pestelli che la Contessa aveva ancora davanti a sé, chinò il capo: “Come la mia signora comanda.”

 
   
 
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