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Autore: Adeia Di Elferas    03/08/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina uscì dalla rocca a passo spedito. Aggirò la statua di Giacomo senza sollevare lo sguardo e tagliò dritto verso la strada più rapida per andare al palazzo.

Non sapeva che aspettarsi di preciso, dall'incontro con Manfredi. Si sentiva ancora appesantita e provata dalla notte brava che si era appena lasciata alle spalle e forse, pensava, un colloquio tanto importante avrebbe meritato un diverso stato d'animo.

Aveva combattuto contro l'esule faentino, qualche tempo addietro, quando, per convenienza, aveva dovuto appoggiare in modo chiaro Astorre. A pensarci, le sembrava passata una vita intera.

Non aveva mai incontrato quell'uomo di persona e temeva di trovarsi davanti qualcuno di incompatibile. Anche se nella politica e negli affari le simpatie e le antipatie non dovrebbero rientrare nei giochi, la Sforza si era resa conto molto bene e più di una volta che per lei erano spesso un ostacolo.

La bastava vedere anche solo di recente gli attriti con i Sanseverino. Se fossero stati uomini diversi, probabilmente la loro alleanza sarebbe stata molto più salda e proficua.

Aveva appena imboccato la via che dava sulla piazza, già in vista della torre campanaria del Duomo, quando in un nugolo di ragazzini riconobbe suo figlio, Bernardino.

Avrebbe fatto finta di nulla, se non fosse stato che proprio mentre si avvicinava, il bambino si era scagliato con furia verso un altro, più o meno suo coetaneo, afferrandolo per il colletto e gridandogli contro qualcosa.

Siccome nessuno dei passanti pareva dar peso alla mezza rissa che stava scoppiando tra quei ragazzini, la Tigre decise di intervenire.

“Stai fermo!” ordinò, facendosi largo tra i litiganti e agguantando suo figlio per la collottola.

Bernardino si divincolò per qualche istante, fino a che non riconobbe la madre e a quel punto smise di ribellarsi.

Gli altri bambini, nel vedere la Leonessa di Romagna – una donna che tutti conoscevano e che tutti, in varia misura, temevano – si dileguarono veloci come fulmini e anche i pochi passanti fecero del loro meglio per togliersi di torno, come se temessero che la Contessa se la prendesse anche con loro.

Senza mollare del tutto la presa sul giaccotto del figlio, la Sforza fissò Bernardino e gli chiese: “Ma si può sapere che stavi combinando?”

Il bambino si fece scuro in volto e poi disse, senza troppi giri di parole: “Quel vile ha parlato male di mio padre e io volevo punirlo.”

“Ti ho già detto che non è così che si risolvono queste cose.” lo redarguì la madre, strattonandolo un po'.

Il bambino la guardò di sottecchi. Se quando era più piccolo le era sembrato molto simile anche a Tommaso Feo, adesso che aveva quasi otto anni doveva ammettere con sé stessa che i lineamenti erano quelli di Giacomo, in tutto e per tutto, ma che lo sguardo carico di rabbia era lo stesso che poteva vedere tutti i giorni quando si osservava allo specchio.

“Quello ha anche detto che voi...” cominciò Bernardino, mordendosi subito la lingua.

Caterina poteva immaginare, dall'imbarazzo che era calato sul figlio, cosa potesse aver detto il suo rivale su di lei. Perciò evitò di approfondire la questione e cercò di indurlo a guardarla.

Quando il piccolo sollevò gli occhi verso di lei, la Contessa sospirò e poi disse: “Qualsiasi cosa ti dicano, tu ricordati che sei figlio mio. Nelle tue vene c'è il sangue degli Sforza e nessuno di quei ragazzi di strada potrà mai far nulla per battere questa evidenza.”

Bernardino rimase in silenzio e riabbassò lo sguardo. Era chiaro che per lui il discorso fosse chiuso lì.

In effetti il bambino era avvezzo a vedere la madre interessarsi a lui solo per qualche sporadico sprazzo – di solito per rimproverarlo o più di rado per insegnargli qualcosa – e poi guardarla mentre tornava a immergersi nelle sue occupazioni.

Era anche certo che la sera prima, nel corso della festa, la Leonessa non si fosse nemmeno accorta che lui non era nella sala dei banchetti. Aveva passato quasi tutto il tempo negli alloggi della servitù a giocare, e lo aveva fatto solo nella speranza che sua madre, a un certo punto, sarebbe arrivata a cercarlo.

La Tigre – che in effetti la sera prima non si era preoccupata di cercarlo, convintissima che fosse assieme ai figli della servitù, come faceva spesso – quella volta aveva intuito l'insofferenza del figlio, perciò, benché ritenesse la sua scelta quanto più sbagliato potesse fare, per la ragion di Stato, gli propose: “Sto andando a palazzo a incontrare una persona molto importante. Se ti dai una sistemata e mi prometti di non attaccar più briga con nessuno almeno per oggi, ti porto con me.”

Gli occhi del piccolo si spalancarono, increduli. Come se sua madre avesse detto una formula magica, Bernardino si trasformò nell'arco di pochi istanti in un bambino docile e ubbidiente. Si mise a posto il giubbetto e si passò una mano tra i capelli castani per metterli in ordine e poi restò in attesa.

Caterina lo squadrò. Anche se i suoi abiti erano costosi, pieni di polvere e così maltrattati sembravano degni di un carrettiere. Di certo da Giacomo non aveva preso il gusto per le cose raffinate.

“Va bene – gli concesse, sorridendogli un po' – vieni con me.”

 

Bartolomeo d'Alviano, quando aveva visto tornare i fanti veneziani con la coda tra le gambe, aveva trattenuto a stento un iniziale moto di rabbia.

Quelli, a detta di tutti, erano tra i mercenari migliori al mondo, pagati dal Doge quasi tanto ora quanto pesavano, eppure si erano lasciati spaventare come bambini da un paio di soldatucoli strappati alle campagne.

“Se dicono che la Sforza ha tutti quei soldati...” aveva detto la sera prima Carlo Orsini, dopo aver osservato impotente come tutti i loro alleati rientrare in modo disordinato al campo di Villafranca.

“La Sforza non può avere così tanti soldati.” l'aveva zittito subito Guidobaldo da Montefeltro: “Si è trattato di certo di un inganno.”

Bartolomeo li aveva ascoltati battibeccare per quasi un'ora e poi, quando si era fatto un'idea più precisa della situazione, aveva preso la sua decisione.

Taciturno e scontroso come mai era stato in vita sua finché aveva avuto per moglie Bartolomea Orsini, l'uomo li aveva zittiti con un cenno della mano e aveva annunciato: “Domattina all'alba parto alla volta di Bibbiena con tutti i miei soldati. Se e quando vorrete seguirmi...”

Gli altri due non avevano detto nulla e così l'Alviano era uscito dal padiglione, diretto alla zona del campo occupata dai suoi uomini, per informarli della partenza.

Aveva capito il gioco della Tigre e in parte l'ammirava per il coraggio che aveva avuto. Pochi uomini avrebbero rischiato come aveva fatto lei. E ancor meno donne. Anzi, pensava Bartolomeo, con il cuore che sanguinava nel rivedere nel ricordo il viso della sua prima amatissima moglie, nessun'altra donna avrebbe osato tanto, a parte la sua Bartolomea.

Così, dopo una notte quasi insonne a pensare ai dettagli, era partito subito dal campo di Villafranca, seguito dalla colonna dei suoi migliori soldati.

Se i veneziani erano pronti a farsi fermare da una donna, ci avrebbe pensato lui, a far ripartire la guerra. Già a Pisa stavano subendo una batosta dopo l'altra, ci sarebbe mancato solo di arrendersi anche sul lato appennino.

Non aveva intenzione di attaccare la Tigre di Forlì. Non riteneva saggio farlo, dato che nessuno sapeva di preciso che le stesse alle spalle. Se i mercenari austriaci e tedeschi avrebbero potuto sfruttare l'effetto sorpresa per spazzarla via, adesso, dopo essere sopravvissuta egregiamente alla prima minaccia, sicuramente la Sforza aveva già avvisato chi di dovere e allora sì che sarebbe stato molto difficile aver ragione di lei.

Bibbiena, invece, nel mezzo del Casentino, era discretamente facile da raggiungere e un importante punto di snodo. Bartolomeo avrebbe sorpreso tutti attaccando lì in modo tanto massiccio e avrebbe rimesso in marcia l'intero esercito veneziano.

'La guerra la vince l'esercito – pensava, mentre cavalcava alla testa dei suoi – ma per vincere, ci vuole qualcuno che spari il primo colpo di cannone'.

 

Caterina, seguita da Bernardino, arrivò al palazzo dei Riario proprio mentre dal cielo cominciavano a cedere le prime gocce di una pioggia molto fitta e particolarmente fredda.

Decise di non farsi annunciare al suo ospite, come invece aveva pensato di fare in un primo momento.

Nel corso degli anni aveva capito una cosa: cogliendo uno sconosciuto di sorpresa, presentandosi al suo cospetto senza averne dato prima annuncio ufficiale, serviva a capire tante cose della persona in questione.

Perciò, mentre arrivava vicino alla porta della sala delle udienze, fece segno a Bernardino di non dire nulla, in modo che la sua voce non li tradisse. Il bambino era già in silenzio per conto suo, e non ci sarebbe stato davvero bisogno di fargli quella raccomandazione.

Era stato pochissime volte al palazzo Riario e quella era la prima in cui si permetteva di guardarlo meglio.

Quando era nato, sua madre viveva già alla rocca e da allora lui non aveva mai avuto un reale motivo per recarsi in quell'edificio.

Adesso che ne attraversava gli ambienti spaziosi e ancora riecheggianti un discreto lusso, Bernardino trovava, in confronto, che Ravaldino fosse davvero un posto più adatto a dei popolani che non alla signora di quelle terre.

Caterina fece un sospiro silenzioso e poi spalancò la porta, senza dire nulla. Al suo interno, assieme a Cardella, che era seduto alla scrivania e a un paio di Consiglieri, che stavano sui loro scranni, in veste di testimoni ed eventualmente di guardiani, c'era anche un altro uomo che, di certo, era Ottaviano Manfredi.

La Sforza, facendo un cenno a Bernardino affinché le restasse vicino, osservò con attenzione la figura del faentino e ci mise un po' a trovare le parole.

Manfredi, quando la Contessa era entrata, era di spalle, le mani allacciate dietro la schiena, ma si era voltato all'istante, appena aveva sentito la porta spalancarsi.

La Tigre squadrò i suoi capelli biondi, selvaggi e portati troppo lunghi, secondo lei, per un uomo d'armi. I suoi abiti erano modesti, anche se abbastanza in ordine. Era disarmato, come da accordi, ma nel momento stesso in cui l'aveva vista la sua mano era istintivamente corsa al fianco, come a cercare una spada.

Aveva lineamenti fini, naso aggraziato e piccolo, labbra non troppo pronunciate e occhietti azzurri e sfuggenti, sormontati dalla fronte spaziosa. Doveva essersi rasato poco prima di presentarsi a lei, perché pareva appena uscito dalla bottega di un barbiere, liscio come un ragazzino.

Di contrasto a quel dettaglio, però, ci stavano le spalle larghe e squadrate, l'incedere deciso e poi, quando il faentino allungò la mano verso la Sforza, la decisione della sua presa, che, tutti insieme, andavano a mostrarlo per quello che era: un uomo che aveva da poco passato i venticinque anni.

Mentre la Contessa stringeva energeticamente la mano di Manfredi, Cardella e gli altri guardarono la scena di sottecchi. Quel modo di salutarsi a tutti pareva più adatto a due mercanti o a due vecchi amici, non a un condottiero e una nobildonna.

“Finalmente ci conosciamo.” disse Ottaviano, senza staccare gli occhi chiari da quelli della sua interlocutrice.

La Leonessa si schiarì la voce, mentre ritraeva la mano appena lasciata dalla stretta del Manfredi, e poi convenne, sperando di non suonare troppo esitante: “Era buon tempo, in fondo.”

“Sì, lo era.” concordò l'uomo, abbozzando un sorriso che, Caterina fece quel confronto involontariamente, aveva un fondo di esperta malizia che era mancato del tutto tanto al suo Giacomo quanto al suo Giovanni.

Siccome Bernardino, accanto alla madre, era rimasto immobile per tutto il tempo e si era mosso sui due piedi, un po' in imbarazzo per il modo in cui la Contessa e il faentino si erano salutati, Manfredi si accorse di lui solo in quel momento.

Anche se aveva avuto molte donne, alcune delle quali veramente belle, Manfredi aveva sentito qualcosa di strano a livello dello stomaco, quando aveva incrociato lo sguardo della Sforza. Era come guardare negli occhi una belva feroce e notare uno spiraglio di cedimento. Era qualcosa di così strano e viscerale che, per la prima volta, forse, nella sua vita, si era trovato in difficoltà ad attaccar discorso con una signora.

“Avete portato con voi vostro figlio.” notò Ottaviano, cercando di prenderla alla larga, perché se avesse dovuto discutere subito di affari di certo avrebbe fatto solo confusione, distratto com'era.

“Sì, lui è Bernardino, ha otto anni.” spiegò Caterina, mentre il piccolo gonfiava un po' il petto, lusingato nel sentire la madre aggiungere qualche settimana alla sua reale età.

L'uomo fissò il ragazzino. Era veramente molto bello. Malgrado l'espressione guardinga e un po' sospettosa, si potevano notare i tratti eleganti, degni di un affresco, e, nell'insieme, un'armonia che probabilmente avrebbe fatto di quel bambino uno splendido giovane e un magnifico uomo.

Senza ragionarci sopra troppo, Manfredi, che aveva passato gran parte del tragitto verso Forlì a ripassare parentele e matrimoni della donna con cui voleva fare affari, chiese, impantanandosi nel conto dell'età della prole della Tigre: “Figlio vostro e di..?”

A quella richiesta, così impudente e in un certo senso così leggera, la Contessa dapprima avrebbe voluto rispondere con un secco 'non sono affari vostri'. Tuttavia non voleva incrinare prima del tempo quella che avrebbe potuto diventare un'alleanza per lei importante, se non addirittura vitale, e così ricacciò indietro la sua indisponenza e si sforzò di rispondere in modo gentile.

“Mio e del mio secondo marito, il Barone Feo.” spiegò, con voce piatta, mentre Bernardino non smetteva un momento di osservare perplesso il faentino, come se stesse cercando di studiarlo nei dettagli.

“Ah, sì, il barone Feo!” esclamò Manfredi, tornando a guardare con insistenza la donna: “Quello della statua.” soggiunse, ricordando di averne scorto uno stralcio in lontananza mentre si avvicinava al palazzo.

“Parlate molto liberamente, per arrogarvi il titolo di diplomatico.” fece presente la Contessa, rendendosi conto degli sguardi rapaci di Cardella e degli altri due.

“Perdonatemi. Sono un uomo d'armi, non un diplomatico.” si schermì Ottaviano, allargando appena le braccia.

“Potete lasciarci soli?” chiese all'improvviso la Sforza, rivolgendosi ai suoi uomini.

A quelle parole il cancelliere e i due Consiglieri si alzarono in silenzio, avvezzi a quel genere di ordini, e uscirono di buon ordine senza osare dire nulla.

Bernardino pareva combattuto, come se non sapesse se restare o meno. Siccome, però, la madre non si era rivolta a lui, il bambino decise di rimanere fermo al suo posto, mentre la Tigre e il Manfredi riprendevano il loro strano scambio di battute.

“Sarete anche solo un uomo d'armi – riprese Caterina, seria – ma finché resterete nella mia terra vi prego di stare attento a come parlate.”

“Scusatemi, davvero. Non era mia intenzione essere indelicato.” fece l'uomo, chinando un po' il capo, sperando bastasse a riappacificarsi con la Sforza.

“Direi che è il momento di parlare dei nostri affari.” tagliò corto la Contessa: “Mio figlio resterà con noi. È tempo che cominci a imparare come va il nostro mondo.” aggiunse, in risposta allo sguardo interrogativo che il faentino aveva riservato a Bernardino.

“Come preferite.” acconsentì l'uomo, guardandosi poi in giro, in cerca di una sedia su cui accomodarsi per intavolare la trattativa.

Caterina si rese conto della sua silenziosa ricerca, ma finse di non avvedersene e, con un sospiro, cominciò a fargli domande puntuali in merito alle sue intenzioni e ai favori che avrebbe potuto accordarle.

“Prima di tutto – disse Manfredi, dopo che la Leonessa gli ebbe reso noto che aveva deciso di incontrarlo solo perché suo marito Giovanni le aveva chiesto di dargli una possibilità – lasciate che vi faccia le condoglianze per la morte di messer Giovanni. L'ho potuto conoscere poco, ma era un uomo raro.”

La Contessa abbassò lo sguardo, mordendosi l'interno della guancia e anche Bernardino parve irrequieto, nel sentire nominare a quel modo il Medici.

Ottaviano aveva compreso, per quanto avesse avuto aufo

poco tempo per conoscerlo, quando quel fiorentino si fosse affezionato ai figli della moglie e aveva anche compreso che la Sforza doveva molto a quel suo terzo marito, sia economicamente sia umanamente.

“Mentre ero nel pisano – ricominciò Manfredi, sperando di stemperare un po' il clima – ho conosciuto anche vostro figlio Ottaviano.”

Citare il primogenito della Tigre ebbe un effetto repentino e, per il faentino, sorprendente. Gli occhi di Bernardino ebbero un guizzo, a metà strada tra la rabbia e la paura, mentre quelli di Caterina si tinsero direttamente di disprezzo.

“Davvero? Mi spiace per voi.” commentò, a denti stretti, con un sorriso amaro che le piegava appena le labbra.

“Lo odiate davvero, allora?” chiese Manfredi, non riuscendo, per la seconda volta nel giro di pochi minuti, a frenarsi prima di parlare.

La Sforza rimase in silenzio per un bel po', salvo poi stringere le braccia al petto e domandare, piccata: “Allora? Siete venuto qui a Forlì per discutere di affari o solo per fare due chiacchiere sulla mia famiglia?”

Ottaviano deglutì, capendo che così facendo rischiava di tirare troppo la corda. La Contessa non era una donna paziente, e nemmeno troppo tollerante, o almeno così dicevano. Forse sarebbe stato meglio evitare di urtarsi troppo con lei.

“Ho una lista di vostri sudditi che stanno brigando con Antonio Maria Ordelaffi per spianargli la strada di ritorno sul vostro scranno.” buttò lì, lasciando perdere altre strategie e pause teatrali: “E se volete, ho i mezzi e il modo di prenderli uno per uno e portarli da voi.”

Quella rivelazione catturò finalmente l'attenzione della Tigre. Già l'Oliva le aveva accennato la possibilità di qualche serpe in seno, qualche famiglia ancora disposta a favorire l'Ordelaffi, nel caso in cui quell'uomo fosse riuscito ad attaccare e avere ragione della Sforza.

Si fece allora spiegare il tutto nel dettaglio, con Bernardino che ascoltava perdendo spesso il filo e alla fine, quando si convinse che il faentino non parlava a vanvera e che molte informazioni combaciavano con quelle del capo delle sue spie, gli disse, con tono perentorio: “Prendeteli e uccideteli tutti.”

Manfredi non si era aspettato di vedersi comandare a bacchetta da quella donna, tanto meno aveva pensato di sentirla propendere per una punizione tanto dura e radicale, tuttavia ci fu qualcosa nella sua voce e nel suo sguardo che gli fece rispondere all'istante: “Come comandate, mia signora.”

Bernardino si era fatto pallido e quel cambiamento non era sfuggito alla madre che, con una durezza forse eccessiva, si voltò verso di lui e gli disse: “Non si deve avere pietà per i traditori. E anche se queste persone non hanno ancora fatto nulla di concreto contro di noi, sono un pericolo e quindi vanno eliminati, prima che diventino un problema.”

Il piccolo Feo occhieggiò verso la madre. In quel momento non poté fare a meno di pensare a come i suoi fratelli Ottaviano e Cesare fossero ritenuti da tutti i colpevoli della morte di suo padre. Dei 'traditori', li aveva sentiti chiamare proprio a quel modo. Dunque, se sua madre era tanto dura coi traditori, come mai loro due erano ancora liberi e potevano fare quello che volevano indisturbati?

“Quindi possiamo ritenerci alleati?” chiese dopo un po' Manfredi, che avrebbe tanto voluto far notare alla Sforza quanto Bernardino paresse confuso dalle sue parole di poco prima.

“Sì. I nemici di Astorre sono miei amici.” assicurò la donna, porgendo di nuovo la mano al faentino, come a suggellare il loro patto con una seconda stretta di mano.

Questa volta il contatto tra i due fu più duraturo e consapevole. In quella stretta stavano mettendo un impegno a lungo termine che entrambi volevano rispettare e dal quale entrambi si aspettavano molto.

“Se permettete, vado a dare ordine ai miei di catturare i congiurati presenti nella lista.” fece Ottaviano, forzandosi a lasciare la mano della Tigre.

La trovava liscia e dolce, ma allo stesso tempo tenace e volitiva. Nel modo in cui gli aveva stretto la sua, l'uomo aveva forse capito di quella donna più di quel che Caterina avrebbe voluto lasciar intravedere.

“Sì. Discuteremo nei dettagli la strategia appena sarete tornato.” concordò la Contessa, per poi chiedere: “Avete trovato alloggio in città?”

“Non ancora.” ammise il faentino, passandosi una mano tra i capelli biondi, le sopracciglia alzate, come a chiedere tacitamente un consiglio in merito a un bon alloggio.

“Alla rocca ho qualche stanza libera. Voi potreste sistemarvi lì.” concesse la Leonessa, chiedendosi tra sé se fosse una scelta giusta: “Per i vostri uomini troveremo una baracca al Quartiere Militare.”

“Siete troppo buona, mia signora.” sorrise Manfredi, felice di sentirla tanto disponibile nei suoi confronti.

Con un cenno del capo la Tigre gli fece capire che il loro colloquio poteva dirsi davvero finito e così i due – con Bernardino al seguito – uscirono dal palazzo, tornando in strada.

Siccome pioveva con forza, rimasero un istante in più sotto al portone, Manfredi cercando di ricordarsi la via che conduceva alla locanda in cui aveva lasciato il suo attendente con il suo cavallo, e Caterina chiedendosi se fosse il caso di tornare subito alla rocca e di fare una deviazione da Bernardi.

Mentre restavano in silenzio, Bernardino alle loro spalle che scrutava il cielo grigio pensieroso, un uomo passò per la via e salutò la Contessa con un cenno del capo, ringraziandola per il vino e per le feste di quella notte.

“Avete fatto baldoria, ieri sera?” chiese Manfredi, quasi divertito nel sentire un popolano rivolgersi a quel modo alla sua signora: “Venendo qui ho incontrato molti ubriachi e qualcuno di decisamente troppo allegro...”

Nel sentire citare la notte precedente, la donna ebbe qualche improvviso ricordo di quello che era successo prima alla festa e poi nella sua camera. Il vino e l'euforia le avevano fatto perdere di vista ogni forma di prudenza e ancora faceva fatica a ripensare a quello che aveva fatto senza agitarsi. Si era sentita potente, con due uomini pronti a fare tutto quello che lei chiedeva, ma tornata la luce del sole, aveva finito per sentirsi ancora più vuota di quando era spuntata la luna.

“Ieri abbiamo riportato una grande vittoria contro i veneziani – lo mise al corrente la milanese, senza guardarlo – hanno provato ad attaccarci e sono dovuti tornarsene al loro campo con la coda tra le gambe e qualche uomo in meno.”

Ottaviano si corrucciò, mentre un refolo di aria umida e gelata gli faceva orripilare la pelle del collo: “Allora quello che dicevano appena fuori Forlì era vero.”

“Sì.” annuì piano la Sforza.

“Vi chiamano Tigre e se sapete spaventare tanto i mercenari tedeschi, significa che il vostro nome lo meritate appieno.” commentò Manfredi, dedicandole un'occhiata ammirata.

Caterina non ribatté, stringendo i denti e poi dicendo a Bernardino che era libero di andare, se voleva.

Il bambino, reso un po' restio dallo scrosciare della pioggia, sembrava indeciso. Allora la madre gli consigliò di andare alla rocca a cercare Galeazzo.

“Fatti raccontare la battaglia di ieri. Anche lui ha combattuto.” gli disse: “Sarà felice di raccontarti quello che ha visto e quello che ha fatto.”

A quell'invito, il piccolo Feo non si fece pregare e, dopo aver salutato in modo un po' ruvido Ottaviano Manfredi, fece un breve sorriso alla madre e si gettò di corsa sotto la pioggia, diretto a Ravaldino.

“Vostro figlio Galeazzo ha combattuto?” chiese il faentino, corrucciandosi tanto da trasformare i sottili occhi azzurri in fessure: “Se non vado errato è molto giovane.”

“Molto giovane, sì. Ma è figlio mio. L'ho addestrato a combattere fin da bambino.” mise in chiaro Caterina: “È bravo con le armi e ha un carattere forte. Sa cavarsela e sono molto fiera di lui e di come si è comportato ieri.”

'Lo stesso non si può dire del povero Conte Riario' pensò Ottaviano, senza esprimere la sua impressione a parole: 'di lui e della sua inettitudine si vergognano tutti, temo'.

Appena la Contessa diede mostra di voler lasciare la sicurezza del portone, Manfredi cercò di trattenerla ancora qualche istante: “Sapete dove posso trovare una chiesa che sia tranquilla, qui in città? Vorrei pregare, questa sera, prima di ritirarmi per la notte.”

Caterina, a quella richiesta, lo fissò incuriosita. Aveva sentito dire tante cose su quel faentino esule, e tra queste c'era anche il fatto che fosse molto devoto, ma aveva creduto che quel dettaglio fosse stato inventato solo per ridargli un minimo di credibilità. Di lui si diceva che amasse la confusione, l'ebrezza dei liquori e le compagnie discutibili. Che avesse anche un saldo legame con la fede, pareva un dettaglio stonato.

“Credevo che passaste le vostre serata in altro modo.” fece la donna.

Manfredi si schiarì la voce e poi, rispolverando il sorrisetto furbo e malizioso che aveva mostrato appena si erano incontrati, ribatté: “Amo le risse, le donne e il vino. Ma sono anche molto legato a Dio. Non credo che queste cose debbano per forza escludersi a vicenda.”

La Sforza non volle soffermarsi oltre. L'interesse e la curiosità che cominciava a provare per quel giovane uomo la stavano confondendo.

Era una cosa diversa da quello che era successo con Giovanni da Casale. Con lui l'attenzione si era concentrata subito e quasi esclusivamente sul suo aspetto e sull'attrazione che sapeva esercitare su di lei.

Con Manfredi, invece, c'era qualcosa di più. Era un bell'uomo, certo, e il che non era da sottovalutare, tuttavia la Contessa avrebbe voluto saperne di più di lui come persona e non solo sfruttarne il corpo giovane e muscoloso.

“La chiesa di San Girolamo è poco frequentata.” disse alla fine la donna, facendosi seria e parendo quasi infastidita: “Lì non vi disturberà nessuno.” e prima che Ottaviano potesse anche solo ringraziarla, la Tigre si era già lanciata sotto la pioggia, diretta chissà dove, con un passo marziali che molti condottieri le avrebbero invidiato.

 
   
 
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