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Autore: Adeia Di Elferas    04/08/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Simone teneva la mano appoggiata al davanzale della finestra, la pietra fredda contro la sua pelle calda gli dava una strana sensazione. Guardava fuori, verso la pioggia che stava impercettibilmente versando a neve.

Stava già facendo buio e quel finale d'ottobre pareva voler essere già un inizio deciso d'inverno. Si era passati da mesi di siccità e caldo torrido a temperature molto basse senza che quasi ce se ne potesse accorgere.

Lucrezia, alle sue spalle, stava ancora leggendo il dispaccio appena arrivato da Forlì. Non era scritto dal pugno della Tigre, ma da quello del suo cancelliere.

Il Governatore di Imola, benché il messaggio fosse quanto di più formale e distaccato vi fosse, leggeva in quella scelta un preciso ammonimento. La Contessa, probabilmente, non aveva ancora deciso se punirlo o forse, visti i tempi difficili, aveva semplicemente preferito rimandare a un secondo momento i suoi provvedimenti.

Simone avrebbe voluto chiedere a suo cognato Tommaso se avesse un'idea di cosa le parole scritte dal cancelliere Cardella potessero significare, per lui, ma in quei giorni il povero Feo aveva già abbastanza da fare per conto suo. Si era offerto di aiutarlo e, anche se avrebbe dovuto badare di più agli affari del Bosco, passava le sue giornate a controllare le truppe e sistemare meglio la difesa.

E di certo le notizie arrivate da Forlì non lo avrebbero indotto a cambiare i suoi piani.

Lucrezia ripiegò in silenzio la lettera, sospirando. Fissò la schiena ampia e dritta del marito e i suoi capelli tendenti al rosso che cadevano sul collo.

La descrizione dell'attacco dei veneziani e della loro fuga, ottenuta senza dover nemmeno sforzarsi troppo, era molto stringata e la parte importante arrivava solo sul finale. La Sforza voleva che anche il Governatore di Imola si preparasse a una possibile incursione, per quanto poco probabile, e schierasse tutti i suoi uomini sui camminamenti, in caso di bisogno.

Nel frattempo, poi, avrebbe dovuto chiudere le porte, aprendole solo per poche ore al giorno, per non paralizzare i commerci. Anche i mercanti passaggio avrebbero dovuto subire un controllo serrato, per evitare spie che entrassero in città per poi fare da ponte con l'esterno.

In tutto questo, oltre a non menzionare un possibile richiamo per Simone, la Leonessa si era anche ben guardata dal fare altre aggiunte personali, cosa curiosa, dato che di norma quasi tutte le sue missive avevano anche una parte più privata.

“Sembrerebbe che non ti voglia punire, in fondo...” sussurrò Lucrezia, lasciando la lettera sull'ottomana e arrivando alle spalle del marito.

L'uomo accolse con un respiro fondo le sue braccia, che andavano a cingerlo, e quando sentì la donna appoggiare il viso alla sua schiena, le sue mani che si aprivano sul suo petto, sia come protezione, sia come ennesimo reclamo di possesso, disse: “A sentire tuo fratello, la Tigre non dimentica i torti subiti.”

“Ma alla fine a Marradi avete vinto.” gli ricordò la Feo, senza allentare minimante la presa.

Ridolfi diede un'ultima occhiata oltre la finestra, verso un'Imola spenta e preda del nevischio, e si voltò verso la moglie, senza scivolare via dal suo abbraccio: “Abbiamo vinto, sì, ma non è andata comunque come voleva lei. Adesso quelle terre sono solo fiorentine. E comunque io non avrei dovuto partire come ho fatto. Avrà pensato che non mi fidavo del suo giudizio. Agendo così d'impulso, avrà creduto che...”

Lucrezia lo mise a tacere, posandogli una mano sulle labbra. Era stanca di vederlo tormentarsi per quello che la Contessa poteva pensare o fare. Da uomo capace di ridere per un nonnulla, sempre con un sottofondo di allegria e ardimento, Simone si stava trasformando sempre di più in un uomo ombroso, pensieroso, taciturno. E tutto per colpa della preoccupazione.

“Sai cosa facciamo adesso?” fece la donna, accarezzandogli la guancia coperta di barba spessa.

Il marito la guardò, gli occhi tristi e un po' spersi. Lucrezia fece scendere la mano dalla guancia fino al petto, passandola sopra la lana cotta del suo giubbone.

“Adesso andiamo in sala e mangiamo, beviamo il nostro vino e poi passiamo tutta la notte da soli, io e te, e fino a domani mattina ci dimentichiamo del mondo. Va bene?” propose lei, gli occhi scuri che indugiavano sulle labbra dell'uomo, nascoste in parte dalla peluria.

Quando finalmente le vide sollevarsi appena in un sorriso un po' stentato, si aggrappò a lui e lo baciò.

“Ti ricordi quando ci siamo sposati? Siamo rimasti in stanza per giorni...” proseguì la Feo, stringendosi a lui con forza.

“Era una vita fa.” commentò piano Ridolfi, ricordandosi di come se n'era vantato con Giovanni e di quanto perfino la Tigre era parsa felice di vederlo sistemato con una donna come Lucrezia: “Però, la tua proposta mi piace.” soggiunse, non volendo spegnere il tentativo della moglie.

La donna gli sorrise, incoraggiante, e poi, prendendolo per mano, lo trascinò lontano dalla finestra e dal suo tetro spettacolo: “Fa troppo freddo per guardare la neve che cade... Vieni, la cena deve essere quasi pronta...”

 

Manfredi aveva dato subito ordine ai suoi di fare quello che avevano già progettato il giorno addietro. Aveva solo aspettato il benestare della Sforza, nulla di più.

Precisi come una macchina, non appena lui aveva confermato l'autorizzazione ad agire, i soldati che restavano al suo seguito avevano stanato e catturato i possibili sostenitori di Antonio Maria Ordelaffi. Non erano molti, ma sarebbero bastati, secondo Ottaviano, per scatenare parte del popolino contro la Contessa, nel caso in cui Venezia fosse riuscita a far rientrare l'erede degli Ordelaffi nei suoi territori.

Aveva fatto sì che tutti i prigionieri venissero portati al suo cospetto, in aperta campagna. La pioggia era stata fitta e fredda per tutto il pomeriggio e mentre il cielo si scuriva, i visi dei congiurati – o presunti tali – parevano già quelli di tanti spettri.

Prima che la notte di brutto tempo impedisse di vedere quel che si faceva, il Manfredi diede ordine ai suoi di ucciderli tutti, passandoli al fil di spada.

I prigionieri, quasi tutti commercianti o piccoli possidenti, rimasero di sasso, davanti a una simile rapida decisione. Nel tragitto fino a quel campo si erano convinti a vicenda che sarebbero stati condotti in città e che lì la Sforza avrebbe fatto loro un processo. Magari sommario, ma sufficiente per poter almeno provare a perorare la propria causa e, se non altro, vivere ancora qualche giorno.

Invece, quando la prima lama trafisse la prima gola, e il sangue schizzò fuori dalla carne a fiotti, mescolandosi in terra con le pozzanghere, si scatenò subito il panico.

Da un'esecuzione rapida e ordinata, Ottaviano si trovò davanti una mattanza rumorosa e sanguinaria. Quando i suoi soldati ebbero finito di uccidere tutti – nessuno era riuscito a scappare, grazie alle corde che impedivano ai prigionieri i movimenti – le loro giubbe erano fradicie di rosso come se avessero appena sostenuto una battaglia.

“Mozzate a ciascuno le teste. Le faremo avere alla Contessa, come garanzia del nostro operato.” si risolse a dire Manfredi, mentre il vento si faceva più forte e alle gocce di pioggia cominciava a mescolarsi qualche timido fiocco di neve.

 

Caterina aveva appena finito di scrivere una lettera abbastanza concisa a suo zio Ludovico, ribadendogli come lei fosse ben disposta a patire 'ogni incomodo', ma che comunque si aspettasse l'aiuto che le era stato promesso.

Se Fracassa e Giovanni da Casale erano ancora ai suoi servizi, lo doveva solo ed esclusivamente alle decisioni personali dei due uomini. I soldati che il Duca aveva assicurato di mandarle, una volta che lei avesse raccolto almeno quattromila reclute per conto suo, dovevano essersi persi nella nebbia, nel tragitto tra Milano e Forlì...

La donna sbuffò tra sé. Era nella stanza che aveva condiviso con il suo ultimo marito. Era ancora presto per andare a cena e dal camino arrivava un piacevole tepore che le rendeva sgradita l'idea di tornare a vagare per la rocca.

Soprappensiero, passò una mano sulla costa di un libro che era appartenuto a Giovanni e poi guardò verso il letto. Era da qualche notte che non dormiva lì. Chiuse gli occhi e sospirò. Più cercava di non pensarci, più non ci riusciva. Avrebbe voluto saper essere più calma, concentrarsi solo sulla guerra e su quello che capitava in casa sua, ma era più forte di lei.

Finché c'era stato suo marito, era con lui che sfogava i suoi bisogni. Le dava stabilità e una parvenza di normalità. Rimasta di nuovo sola, aveva ripreso la sua vita da peregrina e non riusciva a trovare una soluzione a quel continuo vagare da un uomo all'altro.

Soffiando con forza, prese un nuovo foglio e intinse ancora la penna nell'inchiostro. Doveva ancora scrivere la sua lettera quotidiana al cognato Lorenzo. Non sapeva nemmeno lei se quello fosse un metodo giusto e forse stava solo peggiorando la sua situazione, assillandolo a quel modo, ma voleva fargli capire che lei c'era e che non avrebbe mollato la presa su quello che spettava di diritto a suo figlio.

Forte della vittoria appena strappata contro i veneziani, scrisse al Medici in modo molto chiaro che i pericoli erano tanti, ma che lei non si spaventava. In fondo, aveva avuto prova di poter intimorire un nemico come la Serenissima Repubblica di Venezia, quindi si sentiva come non mai una leonessa capace di imporsi su qualsiasi altra belva.

Indecisa, alla fine aggiunse anche le sue impressioni su come sarebbe andata avanti la guerra. A suo modo di vedere, la mossa più logica dei veneziani, a quel punto, sarebbe stata attaccare nel casentino e prendere Bibbiena.

Arrivata ai saluti, preferì firmarsi e basta.

Rilesse un paio di volte entrambe le lettere che aveva scritto e si chiese tra sé quando Manfredi le avrebbe fatto sapere l'esito della sua spedizione punitiva. Ci aveva tenuto che fosse lui con i suoi uomini a occuparsene e non le guardie cittadine solo per poter prendere le distanze, in caso di bisogno.

Tra i nomi in lista ce n'erano anche alcuni abbastanza noti in Forlì e dunque si trattava di un'azione ad alto rischio, più per l'aspetto della popolarità e del consenso, che non altro. Dunque il faentino poteva benissimo accollarsi quell'azzardo, mentre lei no.

Alzandosi, Caterina andò verso la finestra. Era difficile dirlo, con il riflesso delle candele e del camino sul vetro, ma pareva che stesse cominciando a nevischiare.

Stringendosi nelle spalle, chiedendosi se la città e le campagne avrebbero resistito a un inverno gelido come quello che gli astrologi vaticinavano, la donna andò a rintuzzare un po' le fiamme nel braciere e infine si sedette sul letto.

Voleva aspettare ancora un po', prima di andare a cena, nella speranza che Manfredi arrivasse alla rocca in tempo per incontrarla.

Come un'anima in pena, si rimise in piedi dopo pochi istanti e vagò per la camera. Finì per frugare nel baule in cui erano custoditi la maggior parte degli averi di Giovanni. Quando finalmente ripescò quel che cercava, tornò sul letto, coricandosi.

Aveva trovato le poesie del Magnifico che suo marito aveva trascritto di mano propria quando era ragazzo.

Si perse in fretta nella lettura, ma, più che cercare il significato delle parole e i volgari doppi sensi di alcuni versi, i suoi occhi si persero nel ripercorrere il tratto gentile, ma deciso della grafia di Giovanni. Quei segni sulla carta glielo facevano sembrare ancora vicino. Era una consolazione illusoria e transitoria, ma quella sera le pareva meglio di tante altre cose.

 

Dopo essere rientrato in città, Manfredi aveva lasciato il sacco con le teste in custodia ad alcuni suoi soldati, e aveva detto di aspettarlo nei pressi di Ravaldino. Prima, aveva bisogno di pregare.

Si era fatto indicare da un barbiere che si era presentato con il nome di Andrea Bernardi – e che a quell'ora aveva il negozio ancora aperto – la chiesa di San Girolamo. Pur non cogliendo il motivo dello sguardo severo del Novacula, nel sentire tale richiesta, l'aveva ringraziato e poi aveva attraversato le poche strade che lo dividevano dalla sua meta tenendo il mantello ben chiuso sulla gola e il passo svelto.

Con i capelli biondi che vorticavano nel vento assieme ai fiocchi di neve, Ottaviano arrivò al portone della chiesa e bussò un paio di volte.

“Che volete? Chi siete?” chiese un prete, guardandolo dallo spiraglio appena aperto.

“Ottaviano Manfredi di Faenza. La Contessa mi ha indicato questa chiesa per poter pregare in pace.” rispose l'uomo, i denti che battevano impercettibilmente per il freddo.

Gli abiti bagnati non lo stavano aiutando e la sera, man mano che si faceva notte, stava portando una nuova ondata di gelo.

Il prete lo lasciò entrare, ma, al Manfredi non sfuggì, non lo lasciò solo, rimanendo a debita distanza, nascosto da una colonna, ma sempre con gli occhi fissi su di lui, come a chiedersi se ci si potesse davvero fidare.

Il faentino non se ne lamentò, ma andò verso l'altare. Si gettò in ginocchio e, giunte le mani sul petto, cominciò a invocare silenziosamente Dio, chiedendogli perdono per quello che aveva fatto quel giorno.

Non pretendeva di ricevere davvero il perdono dell'Onnipotente, ma quando era costretto a uccidere o far uccidere molta gente, provare a esprimere il suo pentimento gli dava l'illusione di scaricarsi un po' l'anima.

Quando ebbe finito, si rimise in piedi a fatica. Era molto più stanco di quanto avesse creduto. Il suo respiro sollevava piccole nuvole di vapore e l'odore dell'incenso, un po' svanito, gli pizzicò il naso.

Prima di andarsene, volle guardare un momento le cappelle laterali. La luce era scarsa, ma bastava per mostrargli gli angoli più importanti di San Girolamo.

Quando si imbatté nella cappella Feo, rimase immobile a fissare la lapide più recente. Rispetto alle altre era molto più sontuosa e si vedeva che la pietra tombale era stata incisa da chi sapeva fare egregiamente il proprio lavoro. Inoltre la qualità dei materiali pareva ottima.

Guardò per qualche istante il nome 'Giacomo Feo' e poi lesse anche le sue date. Qualcosa gli smosse le viscere nello scoprire che il secondo marito della Tigre aveva un anno più di lui. Il Barone Feo era nato nel 1471, mentre Ottaviano nel 1472. Quel dettaglio glielo fece sentire stranamente vicino.

Senza pensarci, posò una mano sul suo nome e borbottò per lui un paio di rapide preghiere, per poi, avvertendo i brividi di freddo molto più nettamente di prima, decidersi a lasciare la chiesa, con gran sollievo del prete che non aveva smesso un solo istante di seguirlo con discrezione e apprensione.

 

Senza che se ne accorgesse, Bianca aveva fatto tardi nelle cucine. Una delle sue amiche le aveva voluto insegnare una ricetta molto complicata e così la ragazzina aveva finito per trattenersi ben oltre l'ora che aveva previsto.

Per tutto il giorno, mentre Forlì aveva pensato a riprendersi dai festeggiamenti per lo scampato pericolo, la giovane Riario aveva trottato come non mai, passando parte del suo tempo intenta nei suoi studi collaterali di cucito e cucina, e parte con il fratello Giovannino che quel giorno, un po' causa dell'assenza della madre – che lo aveva tenuto con sé solo per una mezz'oretta scarsa a metà giornata – un po' perché agitato dal clima che stava cambiando, aveva continuamente rifiutato le sue balie, preferendo la sorella.

La ragazza stava quasi correndo per andare nella sala dei banchetti e mangiare qualcosa, in modo da poter poi andare a dare la buonanotte al fratellino e andarsi a coricare in vista della giornata ventura, quando delle voci rallentarono la sua corsa.

“Sì, le loro teste sono in quel sacco – stava confermando un uomo dall'accento un po' strano, che Bianca non riconosceva – se vorrete controllare...”

“Lo farò subito.” rispose la voce della Tigre.

Appena sentì i passi della madre allontanarsi, Bianca riprese il suo cammino e, appena dalle scale della cucina sbucò nel corridoio, scorse l'interlocutore di sua madre che si dirigeva verso la sala per cenare.

Dapprima lo vide di spalle. Era alto e atletico. Portava i capelli un po' lunghi e, benché ancora bagnati di pioggia e neve, alla luce delle lanterne parevano biondi.

Forse sentendo avvicinarsi la giovane, l'uomo si voltò e la Riario poté vederlo anche in viso. I suoi tratti gentili e l'azzurro insinuante dei suoi occhi le fecero provare un vuoto allo stomaco. Doveva avere più o meno una decina d'anni più di lei, ma dal modo in cui la guardò, Bianca ebbe l'impressione che lui l'avesse presa per una bambina e non per una giovane donna che avrebbe presto compiuto diciassette anni.

“State andando nella sala dei banchetti?” provò a chiedere Bianca, raggiungendolo: “Non vi ho mai visto in questa rocca... Se volete vi accompagno.”

Ottaviano la osservò per qualche momento, colto di sorpresa dalla sua intraprendenza, ma poi, quando l'ebbe più vicina, non gli fu difficile capire chi fosse e così non si sentì più così stupito dai suoi modi.

“Siete la figlia della Contessa?” le chiese, osservandola con attenzione.

“Sì, la sono.” confermò Bianca, chinando appena il capo, ma senza osare chiedere all'uomo chi fosse lui.

Pareva una versione più giovane e meno selvaggia della madre. La sua bellezza era ancora un po' acerba e probabilmente non sarebbe mai stata pari a quella della Leonessa, ma anche la ragazza aveva i suoi punti forti. Oltre agli occhi, di un colore straordinario, si muoveva con grazia e aveva uno sguardo intelligente e molto meno sfrontato di quello della Sforza.

Il modo in cui parlava, poi, esprimeva una maggior dolcezza rispetto ai toni spigolosi della madre, tanto che Manfredi non ebbe problemi a sorriderle e accettare: “Prego, allora. Mostratemi pure la via. E permettetemi di presentarmi: sono Ottaviano Manfredi, e, se Dio vorrà, sarò quello che ammazzerà vostro marito Astorre prima che possa anche solo sfiorarvi con un dito.”

Quella rivelazione fece cambiare espressione a Bianca che, improvvisamente restia, si fermò sui due piedi.

“Ma prima ho bisogno di cenare.” le disse il faentino, rendendosi conto in quel momento di quanto la Riario e sua madre fossero diverse: “Avanti, ho fame... Se vorrete accompagnarmi...”

Bianca non se lo fece ripetere e, molto meno leggera di poco prima, lo scortò senza dire più una parola fino alla sala dei banchetti.

Lì, gli disse di sedersi dove preferiva e servirsi quel che voleva, come stavano già facendo alcuni soldati. Appena Ottaviano scelse un posto, Bianca ne occupò uno ben lontano e fu molto lieta di vedere arrivare, pochi minuti dopo, suo fratello Bernardino che, per quanto un po' riottoso, seguì il suo cenno che lo voleva seduto accanto a lei.

Sorprendendo il suo mezzo fratello, cominciò a parlargli fittamente, solo per trovare una scusa per impedire eventualmente al Manfredi di avvicinarsi e provare a mettersi a chiacchierare.

Trovava lei stessa il suo atteggiamento un po' stupido e il modo confuso in cui Bernardino la fissava – per nulla avvezzo a vedersi così considerato – le diede conferma che si stava comportando da sciocca. Tuttavia l'attrazione immediata che aveva provato per quell'uomo era stata tanto violenta che il saperlo poi il nuovo alleato di sua madre, le aveva messo addosso più ansia che desiderio.

In quella rocca la Tigre era solo una e dunque non doveva rischiare in nessuno modo di mettersi contro di lei. Quello era un territorio di caccia riservato solo ed esclusivamente a una cacciatrice, e a nessun altro.

La ragazza non aveva la minima idea di cosa sua madre pensasse di quel giovane uomo, ma il solo vederne il fisico slanciato e il viso dalla notevole bellezza, metteva Bianca sulla difensiva.

Difficilmente la Leonessa si sarebbe lasciata sfuggire una preda del genere e la Riario non voleva per nessun motivo al mondo frapporsi tra la belva e la sua caccia.

 

Caterina aveva attraversato il cortiletto esterno passandovi nel centro, senza preoccuparsi troppo della neve pesante che le bagnava i vestiti. Aveva raggiunto i due uomini che Manfredi le aveva indicato, appena fuori da Ravaldino e, mentre uno dei due teneva alta una torcia, aveva controllato e contato di persona le teste che erano state raccolte nel sacco.

Pareva non ne mancasse nemmeno una. Storcendo il naso all'odore della morte e rendendosi conto con un brivido di quanto vedere quelle teste non le avesse fatto poi troppo effetto, la Contessa congedò i due soldati, ordinando loro di far sparire tanto i corpi quanto le teste.

Appena i due si allontanarono portandosi appresso il loro tristo carico, la Sforza guardò verso l'alto, scrutando le nuvole spesse che coprivano la luna e le stelle.

L'odore di ghiaccio che si sarebbe di aspettare in una notte del genere non c'era e, mescolandosi a quello della neve che in terra si trasformava ancora in fango, poteva annusare ancora qualche nota dei pezzi di cadavere che le erano stati portati in visione.

Non voleva pensare troppo a quello che aveva ordinato di fare, né a quello che lei stessa aveva saputo fare in passato. La forza della vita era l'unica cosa che voleva quella sera.

Lo stomaco chiuso, un po' per l'agitazione e un po' perché, anche se con un certo ritardo, la vista delle teste mozzate aveva cominciato a darle un po' di nausea, Caterina aveva iniziato a vagare per la rocca, gli abiti che pian piano tornavano asciutti.

La neve si stava facendo più fitta e più secca. Forse, se fosse andata avanti a cadere fino alla sera dopo, si sarebbe anche fermata in terra.

Disertando il salone dei banchetti e decidendo senza troppi patemi di saltare la cena, andò nei baraccamenti e lì perse un po' di tempo commentato lo strano scontro del giorno prima coi veneziani, bevendo vino e giocando ai dadi.

Quando ormai l'ora si era fatta tarda, e anche tra i soldati qualcuno cominciava a sbadigliare, la Tigre si mise a guardarsi in giro con un interesse molto più personale di quanto non avesse fatto prima.

Finalmente vide un soldato che le piaceva, non giovanissimo, ma comunque appetibile, dalle gambe forti e dallo sguardo acuto.

Con discrezione, congedandosi da quelli con cui stava ancora chiacchierando, si avvicinò all'uomo che se ne stava accanto al muro. Forse era uno di quelli che avrebbe dovuto cominciare il turno di guardia a breve, perché si stava controllando le armi al fianco e ogni tanto occhieggiava un po' preoccupato verso la finestrella, come a controllare che la nevicata non fosse troppo violenta.

“Verreste nella mia camera, stanotte?” gli in un soffio Caterina, appena fu abbastanza vicina.

Il soldato sollevò gli occhi chiari e schiuse appena le labbra, un po' stordito da tanta franchezza.

Si schiarì la voce e disse: “Ecco... Tra non molto comincia il mio turno...”

“Vi farò dare la notte libera. Qui comando io, ricordatevelo.” gli disse allora la Sforza, osservando il rossore che stava salendo sul collo di lui.

“In tal caso...” fece lui, non riuscendo a staccarle gli occhi di dosso.

La Contessa non gli lasciò il tempo di avanzare altre perplessità e si fece seguire fin di sopra. Passò oltre la camera che era stata sua e di Giovanni, e lo condusse in quella che ormai considerava la sua tana.

Appena chiusa la porta, la donna gli si avvicinò e, nella penombra rischiarata solo dal camino e dalla luce diafana delle notte nevosa, allungò le mani su di lui, saggiandone la robustezza del petto e poi delle braccia.

“Aspettate...” sussurrò l'uomo, deglutendo e facendo mezzo passo indietro: “Aspettate, io non...”

“Che c'è che non va?” chiese la Tigre, che non aveva mai dovuto lottare contro la ritrosia di un possibile amante occasionale.

“Sono un uomo sposato. E amo molto mia moglie. Non la tradirei mai, nemmeno se mi costringessero a farlo. E sono padre da pochi mesi.” disse l'uomo, elencando ogni frase come se ognuna fosse un motivo bastante per impedirgli di concedere quello che la Contessa voleva da lui.

Quelle parole spensero subito la Leonessa. Le scappò un sorriso un po' triste e le sue mani lasciarono subito il corpo del soldato. In quel momento lo invidiava moltissimo. Era giovane, innamorato e felice.

“Sei un bravo ragazzo – gli disse, dandogli un buffetto sulla guancia – e un bravo marito. Tua moglie è fortunata.”

Il giovane restava muto, mentre la Sforza tornava alla porta, spalancandola: “Ti do due giornate libere, retribuite. A partire da adesso. Forza, corri. Vai dalla tua sposa e, mi raccomando, falla felice, stanotte.”

Il soldato uscì dalla camera e, una volta in corridoio, guardò la Contessa, che lo stava seguendo e le chiese: “Dite davvero?”

“Sì, dico davvero. E adesso sparisci, prima che cambi idea.” rispose la donna, sorridendo di nuovo.

L'uomo si allontano quasi saltando, esaltato per quel permesso che, in quei giorni frenetici, valeva come oro, per lui.

Caterina, ligia alla parola data, andò a cercare Mongardini e, dopo avergli fatto capire di che soldato stesse parlando, gli comunicò che era in permesso speciale e pagato per due giorni.

Il Capitano parve un po' perplesso, ma non osò metter becco nella decisione della Tigre, pensando che quel giovane doveva aver dato il meglio di sé, con lei, se gli veniva concesso un simile favore.

Mentre s'incamminava verso le sue stanze, l'invidia per il soldato che ancora non se ne andava e la mente che si tuffava nel passato, alle sere in cui, tornando in camera, trovava sempre Giacomo fuori dalla porta ad attenderla, la Tigre notò nel buio del corridoio un'ombra, poco lontano dalla sua stanza.

Avanzò, quasi guardinga, e quando riconobbe il profilo di Giovanni da Casale, pensò che quella volta fosse proprio andato a cercarla al momento giusto.

“Non vi ho incontrata, a cena, e così ho pensato di provare a vedere se vi incontravo qui... Solo per augurarvi un buon riposo e congratularmi ancora per la vittoria di ieri e...” cominciò a dire lui, fermandosi poi quando la Contessa gli arrivò accanto e gli prese con decisione la mano.

“Stai zitto.” gli ordinò la donna e, aperta la porta della sua tana, lo fece inghiottire dal buio come aveva fatto poco prima con il soldato.

Pirovano – che pure dopo il rifiuto della sera prima avrebbe voluto fare più il sostenuto – non resistette un momento ai baci e al tacito invito della Sforza e così, prima che potesse anche solo trovare le parole per provare a tirarsi indietro, si trovò steso sul letto, i vestiti che gli scivolavano di dosso uno a uno.

La Tigre, perentoria sopra Giovanni, non gli diede nemmeno tempo di fiatare, e lo usò per sfogare tutto quello che l'agitava e le stringeva il cuore, sperando a quel modo di tenere a freno un po' di più la belva feroce che albergava nell'angolo più profondo e buio della sua anima.

 

 
   
 
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