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Autore: Adeia Di Elferas    06/08/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Nel campo dei fiorentini si respirava un'aria d'attesa che a Ottaviano Riario piaceva molto poco.

Corradini e Colombini, i due Capitani che sua madre gli aveva messo alle costole per far sì che lo controllassero, erano molto più distesi di lui, ma il giovane era convinto che fossero nel torto.

Pisa sembrava ormai saldamente nelle mani di Paolo Vitelli, ma quest'ultimo si stava facendo ogni giorno più inquieto ed era chiaro che qualcosa lo angustiasse.

“Se è questione di soldi – aveva minimizzato la sera prima Corradini, quando Ottaviano aveva sollevato le sue perplessità mentre mangiavano attorno al fuoco – vedrete che si sistemerà tutto quanto. Firenze, se vuole, ha tutti i soldi del mondo, e Lorenzo Medici ne ha ancora di più.”

“Infatti – aveva concordato Colombini, come a voler chiudere in fretta il discorso – figuriamoci se si lascerà sfuggire l'occasione di pagare di tasca propria l'esercito, al fine di essere ritenuto un padre della patria, salvatore della Repubblica...”

I due Capitani si erano messi a ridere, pregni dell'ironia dei soldati, quel genere di amaro e costante buon umore che il Riario non riusciva in alcun modo a capire.

Non apprezzava nulla, della vita dell'armigero, tanto meno le consuetudini degli uomini che lo circondavano. Le battute volgari, dopo un po', lo annoiavano, le chiacchiere ricche di sottintesi e velati insulti a questo o quel signore erano a volte per lui troppo sottili per essere capite, e lo sporco, la mancanza di comodità e la precarietà della vita andavano a completare un quadro che detestava ogni giorno di più.

Tuttavia era lì, mandato da sua madre e ben intenzionato, quella volta, a non fare ritorno se non su suo preciso ordine.

Quando era arrivato a Pisa, aveva trovato la battaglia già conclusa e l'esercito fiorentino vittorioso e per lui era stato un sollievo incredibile capire che non avrebbe dovuto combattere di nuovo. Per lo meno, non a breve.

Quando aveva dovuto imbracciare le armi la volta precedente – con Giovanni Medici al suo fianco a infondergli coraggio e dargli sicurezza – era stato orribile e qualcosa in lui era cambiato per sempre. La violenza, che a volte dispensava ancora alle donne di strada con cui si intratteneva di quando in quando, sul campo di battaglia gli si era mostrata con una crudezza che nulla aveva a che vedere con quello che aveva visto e fatto fino a quel giorno. Non si era più trattato di imporsi su un altro essere vivente, sfogandovi addosso la propria rabbia. Si era trattato di prevaricare il prossimo al solo e unico scopo di non essere ucciso.

Ancora assorto nei suoi pensieri, quella mattina, mentre aspettava nel suo padiglione che succedesse qualcosa, il Riario ricevette un paio di lettere.

La prima era del suo amico Ottaviano Manfredi. Lo avvisava che si stava recando nel forlivese per provare a stringere un'alleanza con sua madre, così come Giovanni Medici aveva suggerito appena una manciata di settimane addietro.

La seconda, invece, era di uno degli uomini che Ottaviano aveva sguinzagliato a Imola per tenere d'occhio la ragazza che aspettava un figlio suo. Gli diceva che il bambino – in realtà una bambina, rosea e in salute – era nata e che la madre l'aveva chiamata Cornelia.

Il Riario, dopo aver letto le due missive, entrambe per lui pesanti come un pugno nello stomaco, si afflosciò sullo sgabello da campo e, guardandosi attorno spaesato, trovò la caraffa di vino che si era fatto portare la sera prima, e, senza tante cerimonie, decise di bersela fino all'ultima goccia.

 

“Sì, avrebbe compiuto quattordici anni.” annuì Bianca, rispondendo alla domanda di una delle balie.

Caterina, seduta in poltrona con Giovannino che dormiva pacifico coricato addosso a lei, nella stessa posizione si era spesso assopito sul petto del padre, si ridestò un momento dai suoi pensieri, attirata da quella costatazione.

Fino a quel momento non aveva seguito i discorsi di sua figlia e della balia, credendo che stessero ancora discutendo del clima o di ricamo. Prima, quando era arrivata nella camera di Giovannino, le aveva trovate intente a parlare degli abbellimenti che Bianca aveva approntato su una delle copertine del fratello e il discorso a riguardo era proseguito per oltre mezz'ora, inducendo la Sforza a pensare ad altro, lasciandole libere di proseguire per la loro strada.

Si era messa a pensare al suo passato, come le capitava anche troppo spesso in quei giorni, e alle inquietudini del presente. Tornando da uno dei suoi giri di ronda, era passata davanti al Paradiso e vedere così chiuso e negletto quello che per anni era stato il suo rifugio dal mondo le aveva messo addosso una tristezza infinita.

“Certo che è triste, pensare che sia morto ancora tanto piccolo...” commentò la balia, mesta.

“Era bello festeggiare il compleanno lo stesso giorno, anche se eravamo di anni diversi.” soffiò Bianca, continuando a rassettare gli abitini del fratello.

Finalmente la Contessa capì di chi si stava parlando. Era Livio, il soggetto di quei commenti.

Anche se la cosa a volte spaventava lei per prima, la donna doveva ammettere di aver fatto del suo meglio, dalla morte di quel suo quarto figlio, per non pensargli troppo. Ogni volta che le capitava di tornare ai concitati momenti dell'epidemia e della sua morte, il dolore che provava sembrava sempre più forte e quindi, per un istinti di conservazione, aveva fatto di tutto per dimenticare.

“Mi manca molto, Livio.” concluse Bianca, sistemando l'ultima cuffietta nella cassapanca e andando a mettersi sulla sedia accanto alla poltrona dove stavano la madre e Giovannino.

La balia, che era ancora alle prese con le lenzuola fresche di bucato della culla del piccolo, guardò verso la Contessa, trovandola con lo sguardo fisso e una mano aperta sullo schienino del figlio, come se volesse proteggerlo da qualcosa.

Cercando di apparire gentile, visto che il compianto Livio era pur sempre un figlio della Tigre, le chiese, con un filo di voce: “Manca molto anche a voi, vero?”

Caterina sentì solo la metà delle parole che le erano state rivolte. E non si accorse nemmeno di come Bianca, al suo fianco, si fosse irrigidita, nel sentire la domanda della serva.

Era tornata di colpo indietro di anni. Sentiva addosso il senso di inquietudine e paura che l'aveva attanagliata nei giorni delle febbri e ricordò il panico provato, nello stringere al petto il povero Livio che, dopo un'agonia che gli aveva permesso benissimo di capire a cosa stesse andando incontro, si era spento mentre lei lo stringeva ancora al seno.

Il silenzio che aveva seguito il quesito della balia cominciava a farsi sentire e anche la Contessa se ne accorse. Sbattendo lentamente le ciglia, prese Giovannino, che si svegliò, interrogativo, e lo passò a Bianca.

Schiuse un po' le labbra, come se volesse provare a rispondere, ma poi rinunciò e andò in fretta verso la porta, liquidando la figlia e la domestica con uno sbrigativo: “Perdonatemi.”

Appena la Leonessa si fu richiusa la porta alle spalle, Bianca, che cercava di calmare Giovannino, già disperato per l'allontanarsi della madre – a cui ogni giorno si stava dimostrando più legato – si rivolse alla balia e spiegò: “Per lei è ancora una ferita aperta.”

A quel punto la donna non chiese più nulla riguardo a Livio, ma anzi cercò di suonare allegra, nel cambiare discorso: “Dunque farete davvero una festa nei locali della servitù?”

“Se mia madre me lo permetterà.” precisò la Riario che, pur non sentendosi troppo in vena di festeggiare, aveva ceduto alle richieste delle sue amiche delle cucine.

Le mancava solo il permesso della Tigre, ma era certa che sua madre non glielo avrebbe negato. In fondo, stando nei locali bassi, in quelli alti non se ne sarebbe nemmeno accorto nessuno.

 

Bartolomeo d'Alviano osservava con occhio truce il castello di Bibbiena. Era caduto in mano sua a una velocità disarmante.

Non gli piaceva, vincere con i sotterfugi, ma quella volta era stato necessario. Voleva preservare le truppe per scontri davvero importanti, dunque per quello era stato ben disposto a sfruttare il caso.

Quel castello nel mezzo del casentino si sarebbe rivelato cruciale, per l'avanzata veneziana e tutti lo sapevano. Appena la notizia della sua disfatta fosse arrivata a Firenze e a Venezia, si sarebbe pianto da una parte e gioito dall'altra.

“Mio signore, il vostro messaggio è partito per Villafranca con la staffetta più rapida che avevamo.” annunciò uno degli attendenti dell'Alviano.

Questi fece un cenno con il capo. Da tutto il giorno, si rese conto in quel momento, non aveva detto più che cinque parole. E tutte rivolte all'uomo che aveva permesso loro di appropriarsi di quel castello tanto in fretta.

Si era trattato di un cancelliere del Fatuo che, essendo originario di Bibbiena, aveva ancora moltissime conoscenze in zona, alcune delle quali particolarmente influenti.

Benché i fiorentini avessero messo dei soldati a difesa di quell'avamposto tanto importante, era bastato che suddetto cancelliere facesse pesare i suoi legami e in breve il popolo si era schierato con i veneziani, cacciando gli uomini della Signoria senza che questi provassero nemmeno a difendersi.

Probabilmente Firenze non si era aspettata un attacco così nel cuore del casentino. Sarebbe stato più difficile attaccarne i confini, mentre arrivare fino lì per una strada poco praticata era stato un gioco da ragazzi.

Carlo Orsini arrivò alle spalle dello zio e si mise a rimirare assieme a lui il panorama. Erano su uno dei bastioni del castello e tutt'attorno a loro si stendeva una campagna coperta di neve e in parte nascosta dalla nebbia che saliva a ondate dalla terra umida.

“Così volete far arrivare tutti gli uomini che sono a Villafranca qui.” disse l'Orsini, con tono neutro, come se stesse parlando del più e del meno.

“Qui, a Civitella e Galeata.” precisò l'Alviano, la voce un po' arrochita dal lungo silenzio.

Carlo si morse il labbro e poi, battendosi una mano guantata di ferra sul cosciale metallico, commentò: “Un bell'azzardo, Bartolomeo.”

L'altro lo osservò da sopra la spalla, come a chiedergli il perché di una simile frase.

L'Orsini parve a disagio, ma si chiarì: “Ricordatevi che la Sforza guida il Fracassa. Quell'uomo può non arrivarci, ma lei sì. Lasciare scoperta Villafranca è un rischio. Da lì possono arrivare poi senza problemi a Rimini e Ravenna. Come lo spiegheremo poi al Doge, se dovessimo perdere quelle città?”

“Alla Tigre non interessano, Rimini e Ravenna.” tagliò corto l'Alviano: “Non parlate di cose che non capite.”

Carlo Orsini, solo per rispetto a suo padre Virginio, che per Bartolomeo nutriva una grande ammirazione, e per rispetto a sua zia Bartolomea, che quell'uomo l'aveva amato più di quanto avesse mai amato nessun altro, evitò di ribattere con toni accesi.

Il sentirsi quasi dare dello stupido, lui che si riteneva un comandante di razza, lo aveva fatto infuriare. Malgrado ciò, si contenne alla perfezione e, salutando l'Alviano con fare rigido, se ne andò con il pretesto di controllare come i soldati si stessero sistemando nel castello.

 

“Sì, sì, fai quello che vuoi, non è un problema.” concesse Caterina, guardando appena la figlia che, dopo un paio di giorni, era finalmente riuscita a trovare il coraggio per chiederle il permesso di fare la festa nei locali della servitù, quel 30 ottobre.

Aveva cercato la madre, trovandola in uno dei corridoi, intenta a raggiungere la sala della guerra, dove era stata chiamata per discutere importantissime novità appena arrivate dal fronte.

Sentire la figlia discutere di feste e musici e altre facezie del genere, aveva irritato un po' la Sforza, che, invece, aveva capito dal tono in cui Numai le aveva chiesto di riunire il Consiglio per discutere la campagna che la situazione era grave.

Bianca aveva capito quanto sua madre fosse distratta, ma era certa che non si sarebbe rimangiata la parola, quindi prese il suo permesso con un sorriso e la ringraziò, lasciandola libera di tornare ai suoi impegni.

La Sforza riprese a camminare a passo spedito e quando arrivò nella sala della guerra, trovò pronti tutti i suoi Capitani, l'Oliva, Luffo Numai e il castellano. Tra i presenti, notò, c'erano anche Fracassa, Ottaviano Manfredi e Giovanni da Casale.

Fu tentata di chiedere al faentino di andarsene. Erano alleati, ma non gli spettava certo un posto nel suo Consiglio ristretto. Malgrado ciò, qualcosa la convinse a farlo rimanere, e così diede inizio alla riunione, senza indugiare oltre.

Venne informata dei movimenti di Bartolomeo d'Alviano nel casentino e secondo le spie dell'Oliva era probabile che quel comandante avesse dato ordine agli altri veneziani stanziati a Villafranca di seguirlo fino a Bibbiena non appena avesse preso il castello.

“Credo che ci sia una consistente parte di faentini che si stiano preparando ad andare a coprire il campo di Villafranca.” disse piano Manfredi, quando la Contessa fece un attimo di silenzio, sistemando i segnalini sulla mappa centrale della sala.

“Come fate a dirlo?” lo incalzò Giovanni da Casale, fissandolo: “Siete forse in contatto con vostro cugino Astorre? Vi ricordo che il tradimento si punisce con la morte.”

“Lo dico, perché ho ancora delle conoscenze valide nel faentino, sì, ma non di certo mio cugino Astorre.” precisò Ottaviano, sistemandosi una ciocca di lunghi capelli biondi dietro l'orecchio e poi rivolgendosi direttamente alla Tigre: “Ci sono dei movimenti e credo che manderanno delle colonne a coprire in parte i vuoti lasciati dai veneziani.”

“Oh, e sapete dirci, di grazia, anche quanti saranno, questi faentini?” chiese Pirovano, appoggiando, forse per caso, la mano sull'elsa della spada che portava al fianco: “Li guiderà qualche vostro amico?”

“Credevo che avere notizie importanti e utili alla campagna fosse il dovere di ciascuno di noi, ma se siete intenzionato ad attaccarmi solo perché sono nato a Faenza, ebbene...” cominciò Ottaviano, facendo un passo verso il milanese, già pronto a menar le mani come se fosse stato in un'osteria da due soldi.

“Stati zitti, tutti e due. Faremo quello che dirò io. Manderemo i nostri uomini a Villafranca e noi saremo più veloci dei faentini e non daremo tempo a nessuno di organizzarsi.” disse la Contessa, per tacitare gli animi, dato che Pirovano sembrava intenzionato a ribattere con astio al Manfredi.

La donna trovò strano il modo in cui Giovanni da Casale si stava comportando. Compassato e formale come si mostrava di solito, non si sarebbe aspettata di vederlo perdere le staffe dopo due frasi a quel modo.

I due uomini parvero calmarsi subito, mentre nel Consiglio si cominciava a barbottare, discutendo la decisione della Sforza.

“Sanseverino – prese in mano la situazione Caterina, indicando Fracassa – voi andrete a Villafranca, mentre manderò Dionigi Naldi verso Val di Lamone. Catturerete tutti i faentini che troverete e li useremo, Dio piacendo, come merce di scambio, quando ne avremo bisogno.”

Dopo qualche altra breve discussione, il Consiglio si sciolse e, uno dopo l'altro, mentre gli ultimi Capitani ancora ronzavano attorno al tavolo della mappa, per ricontrollare la disposizione dei vari eserciti in gioco, uscirono quasi tutti.

Appena prima che raggiungesse l'uscio, Caterina bloccò con discrezione Giovanni da Casale e gli sussurrò: “Non mi è piaciuto lo spettacolo di poco fa.”

L'uomo la guardò per un lungo istante. La Tigre gli era così vicina che poteva sentirne il calore e il profumo sottile della crema che usava per ammorbidirsi le mani. Con quel freddo, e avendo spesso in pugno la spada e l'arco, in quei giorni ne faceva un uso assiduo.

Pirovano stava ricordando a come quella stessa mano che ora la Contessa aveva allungato sul suo braccio per trattenerlo, solo qualche notte prima lo avesse accarezzato lungo tutto il corpo e di come...

Con un sospiro rotto, Giovanni si risolse a ribattere, un po' piccato: “Mi spiace, per come mi sono comportato, ma credo che Manfredi non avrebbe dovuto partecipare a questa riunione. Non è un uomo ai vostri stipendi.”

“Se è per questo – fece notare Caterina, allentando la presa sul braccio di lui, perché toccarlo a quel modo le ricordava troppo da vicino di come si fosse aggrappata ai quei medesimi muscoli, qualche notte addietro, mentre si lasciava prendere da lui – nemmeno voi siete ai miei stipendi, dato che siete un soldato di mio zio, eppure avete potuto presenziare alla riunione.”

“Se mi vorrete, accetterò una condotta vostra.” propose subito Pirovano.

La Contessa esitò un istante, ma poi, mentre l'Oliva le si avvicinava per dirle ancora qualcosa, chiuse la questione con un lapidario: “Se siete così sicuro che io vi voglia, prima licenziatevi dalla condotta che avete da mio zio.”

L'Oliva si scusò con Giovanni da Casale, per aver interrotto il loro colloquio, ma prese subito da parte la Sforza e le riferì in fretta che appena prima della riunione, l'ambasciatore di Firenze aveva chiesto il permesso di vederla per riferirle un messaggio importante da parte di Lorenzo il Popolano.

Già indisposta per la tensione che Pirovano e Manfredi le avevano fatto respirare, la donna annuì seccamente e gli ordinò di organizzare subito un incontro a palazzo.

Dal Pazzi, poco dopo, la Tigre si sentì solo dire che il Medici proponeva come soluzione a tutti i suoi mali quello di mettere Achille Tiberti alle dirette dipendenze di Firenze, in modo che almeno la sua condotta venisse pagata dalla Signoria, ma nulla di più.

Massaggiandosi la fronte, adirata con quel cognato che sembrava nato solo per infastidirla e metterle i bastoni tra le ruote, Caterina disse che avrebbe scritto di suo pugno il prima possibile al fiorentino e così fece.

Quella sera, dopo mangiato, si ritirò nella stanza di Giovannino, chiedendo a tutti – perfino a Bianca – di lasciarla sola con il figlio.

Aveva portato con sé il necessario per scrivere e, mentre teneva il piccolo sulle ginocchia, quasi fosse un amuleto contro la cattiveria che il fratello di Giovanni le stava dimostrando, e scrisse una missiva molto accesa per il cognato.

Gli scrisse in modo chiaro che se fosse stata creduta, quando gli aveva elencato i punti in pericolo, tra cui aveva espressamente citato Bibbiena, e Firenze le avesse dato i soldati che chiedeva, i veneziani non sarebbero mai arrivati così a fondo nel casentino.

Parlando di Tiberti, poi, si permise di dire che lei per prima non aveva mai creduto alla validità di una condotta per lui, sottintendendo che anche con la Signoria sarebbe stato pronto a prendere impegni senza poi ottemperarli.

Con un velo di soddisfazione, anzi, si permise di commentare come: 'in la conducta de messer Achylle non credeva siando a tanto proposito de questa impresa, et a satisfactione mia se dovesse fare difficultà'.

 

Giovanni Bentivoglio finì di leggere la lettera che suo figlio Annibale gli aveva fatto recapitare quel giorno. Le sue parole erano molto dure e molto facili da capire. Se quella missiva fosse finita nelle mani sbagliate, avrebbero rischiato tutti quanti di essere accusati prima del tempo di tradimento.

Il figlio si lamentava delle paghe veneziane che, oltre a essere arrivate in ritardo, erano anche state dimezzate.

Diceva che leggeva quella decisione del Doge come una punizione per aver perso Marradi, ma insisteva nel dire che la guerra non funziona così. I patti erano patti e non si paga a cottimo un comandante.

Il Bentivoglio si era un po' calmato nel sapere che comunque i veneziani avanzavano nel casentino, trainati da Bartolomeo d'Alviano che, da quando era immerso in quella guerra, sembrava spronato dal diavolo in persona.

Il suo sollievo si era spento poche ore dopo, quando gli era stato riferito che Ottaviano Manfredi, cugino di Astorre, era arrivato alla corte della Sforza e che questa già lo trattava come un vecchio amico.

Suo nipote Astorre, ancora un ragazzino, era il più saldo appiglio che Giovanni Bentivoglio aveva per far pesare la sua alleanza con Venezia. Sapeva benissimo che Ottaviano altro non voleva se non rovesciarlo e prenderne il posto.

La situazione era paradossale. Ercole Este, con il suo inutile figlio Alfonso – un giorno preda dalle febbri del mal francese e l'altro occupato con la sua maledetta fonderia – da settimane fingeva di non ricevere le sue lettere e quindi dilazionava i contatti diplomatici con Bologna come se fosse una città appestata. Isabella Este, vero uomo in caso di Francesco Gonzaga, faceva altrettanto, ben istruita dalla rigida scuola del padre. E così il Bentivoglio si sentiva abbandonato a se stesso e per di più con un figlio che si lamentava del Doge.

Annodandosi la cuffietta da notte sotto al mento, per far fronte al gelo di quella serata nevosa, Giovanni si fece coraggio e si risolse, dal giorno seguente in poi, a mettere da parte l'orgoglio e cercare di riallacciare un po' con il Moro. In fondo, il Duca di Milano era lo zio della Tigre di Forlì.

Era una mossa rischiosa, ma cercare di indurlo a convincerla a non prendere iniziative violente contro Astorre sarebbe stato un buon passo.

Il bolognese sapeva benissimo che tutto l'astio della Sforza per Faenza nasceva dal matrimonio che aveva sottoscritto tra sua figlia e Astorre. Roba da donne, pensava il Bentivoglio. Incapace di anteporre gli affari di Stato a cose frivole e inutili come l'amore. Si aspettava davvero che sua figlia, un giorno, si sarebbe maritata per amore?

La credevano tutti una donna dall'intelligenza pari a quella degli uomini, ma era evidente che nessuno ci aveva visto giusto, su di lei, visto che stava per iniziare una guerra al solo scopo di permettere alla figlia di respingere un marito indesiderato.

 

Caterina smontò di sella non appena arrivò nel cortiletto della rocca di Ravaldino. Quella mattina era partita presto, con addosso un po' di ferro, ed era andata da suo fratello Piero a Forlimpopoli.

Avevano parlato della difesa e l'aveva pregato di riferirle all'istante di qualsiasi movimento strano avesse notato, spiegandogli pure che presto sarebbero arrivati dei nuovi prigionieri da mettere in cella. Non li voleva tenere tutti a Forlì, per sicurezza. Credeva fosse meglio dividerli il più possibile, isolandoli e limitando il rischio che si organizzassero.

“Quando arriveranno?” gli aveva chiesto Piero, cominciando a farsi una mappa mentale delle prigioni della sua rocca.

“Non lo so. Prima dobbiamo catturarli.” aveva risposto la donna e il fratello, a quell'affermazione, non aveva trattenuto una mezza risata.

“Arrivino quando vogliono. Saprò come accoglierli.” aveva concluso, soddisfatto come sempre nel vedere la sorella dargli un incarico importante.

Lasciato il cavallo a uno degli stallieri, la Sforza guardò il Capitano Francesco Numai che le era corso incontro.

“Novità?” gli chiese, cominciando a togliersi i guanti.

L'uomo sospirò, sollevando una densa nuvola di vapore, e confermò: “I veneziani hanno lasciato da poche ore Villafranca.”

Caterina deglutì, prendendosi un minuto. Guardò il cielo bianco di nuvole e inspirò l'aria fredda, che prometteva un'altra nevicata prima di sera. Ricordava come suo padre tenesse molto in considerazione l'avvicendarsi delle stagioni, in guerra. Le aveva detto centinaia di volte che d'inverno andrebbero accordate tregue, per dare la possibilità ai soldi di ritemprarsi e di non morire congelati.

“Una morte onorevole, per un uomo d'armi, è essere trafitto dalla lama del nemico, non morire nel sonno perché il sangue gela nelle vene.” soleva dirle, quando lei gli chiedeva il motivo delle tregue invernali.

Chiuse un istante gli occhi, colpita da quel ricordo che per un po' l'aveva riportata nella Milano di quasi trent'anni prima. Una Milano che non avrebbe mai più rivisto e che, ne era certa, non esisteva nemmeno più.

“Fracassa e Naldi sono partiti?” chiese, riscuotendosi.

Aveva dato ordine che i due comandanti lasciassero Forlì nel momento stesso in cui fosse arrivata la notizia della partenza dei veneziani.

“Sì, mia signora. Stanno facendo la strada che avete indicato, per evitare lo scontro diretto e piombare a Villanova indisturbati.” assicurò il Capitano.

Caterina annuì e poi, grattandosi la radice del naso, pensò a cos'altro potesse fare nell'attesa di avere nuove informazioni. Siccome non le venne in mente nulla, congedò Numai ed entrò nella rocca.

Incrociò sua figlia che, assieme a un paio di serve, parlottava tutta allegra, e l'argomento delle chiacchiere pareva essere la festa di quella sera.

La Leonessa la salutò appena e proseguì per la sua strada. Aveva rimandato già abbastanza. Sapeva che se non fosse andata dal medico di corte in quel momento, non lo avrebbe fatto più.

Era da qualche giorno che aveva dei dubbi. Anche se era abbastanza sicura di sbagliarsi, aveva paura del contrario. Sapeva che il suo medico avrebbe saputo dissipare meglio di lei la confusione che aveva in testa e così si era imposta di andare a sentire il suo parere.

Quando finalmente arrivò davanti al suo alloggio, lo intravide mentre raggiungeva le scale. Lo fermò con un cenno e l'uomo tornò subito sui suoi passi.

“Avete bisogno di me?” chiese il dottore, fissandola corrucciato.

Non era frequente vederla chiedere aiuto a lui, non dalle sue ultime febbri. Era un po' pallida, questo l'uomo lo notò subito, e sembrava in ansia per qualcosa.

“Venite, se volete, posso visitarvi anche subito. Non ho nulla da fare.” propose il medico, capendo che la sua paziente andasse incoraggiata.

Caterina annuì e lo seguì in camera, il cuore che batteva rapido e la gola che si seccava un po'. Con lui aveva ben pochi segreti, era vero, ma mai come quella volta temeva il suo giudizio e quindi, quando la porta le si richiuse alle spalle, per una frazione di secondo ebbe la sgradevole sensazione di essere una belva messa in gabbia.

 
   
 
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