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Autore: Adeia Di Elferas    07/08/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Bianca non aveva intenzione di insistere troppo e quindi fu doppiamente felice di sentire la madre rispondere positivamente, quando le chiese se volesse presenziare anche solo per pochi minuti alla sua festa nei locali attigui alle cucine.

La Tigre aveva accettato soprattutto per distrarsi e dovette ammettere con se stessa che le cuochi e il servidorame aveva davvero trovato il modo di creare una buona atmosfera per festeggiare i diciassette anni di Bianca.

Dalle cucine erano state fatte uscire poche portate, ma molto buone e nella saletta interrata in cui si era deciso di tenere la festa si poteva sentire un profumo molto invitante.

Caterina aveva preso da mangiare e poi si era seduta in un posto defilato, in modo da non risultare troppo ingombrante, per paura che gli invitati potessero in qualche modo sentirsi in soggezione, vedendosela dinnanzi.

C'erano anche un paio di musici che fin da subito avevano dato il via alle ballate più movimentate che la Sforza avesse mai sentito. Sapeva che a Bianca quei ritmi frenetici piacevano e quindi non se ne sorprese più di tanto.

La festeggiata stava nel centro della pista da ballo improvvisata fin dalle prime note e alternava danze in cui restava da sola a farsi ammirare dagli altri, ad altre di gruppo fino a quelle di coppia.

La Contessa notò che alla figlia non mancavano mai i cavalieri per quel genere di esibizioni.

Alla festa c'erano anche quasi tutti i fratelli di Bianca. A parte Giovannino, che ovviamente era troppo piccolo per essere lì, mancava solo Cesare, che, evidentemente, aveva ritenuto quell'evento troppo mondano per un uomo di Chiesa quale si riteneva lui.

Sforzino si era messo accanto ai vassoi di cibo e divorava come un lupo tutto quello che gli capitava sottomano. Caterina poteva solo sperare che, crescendo, non gli venisse la stessa voracità anche verso il vino o altri vizi, altrimenti sarebbe stato un vero problema.

Bernardino non sembrava interessato ai balli – e forse, alla sua età, era anche normale – e stava passando gran parte del tempo a parlare con alcuni dei bambini della servitù.

Galeazzo, invece, che dalla battaglia contro i veneziani sembrava essersi fatto un uomo, si offriva volentieri come ballerino, quando si accorgeva che i cavalieri in pista erano troppo pochi rispetto alle dame.

La leggerezza che si respirava in quella saletta illuminata dalle torce a muro e satura degli odori della cucina e degli invitati – quasi tutti ragazzini o adolescenti, salvo qualche rara eccezione – un o' stonava con l'agitazione che la Tigre aveva nell'anima.

Mentre sorbiva lentamente un po' di vino, per aiutare i pezzi di stufato a scendere nello stomaco, continuava a ripensare al colloquio avuto con il dottore poche ore prima.

“Da quello che mi dite, non credo che siate incinta.” aveva affermato, dopo che la donna aveva espresso le sue perplessità: “E se per caso lo foste, sarebbe comunque troppo presto per capirlo.”

“Cosa pensate che sia, allora?” aveva domandato la Leonessa che, nonostante la cautela del medico, si era permessa di tornare a respirare normalmente, già molto sollevata.

L'uomo l'aveva osservata per un po', specchiandosi nei suoi occhi, e poi aveva alzato le spalle, per dire: “State attraversando un momento molto difficile. Vostro marito è morto da poco e io so quanto eravate innamorata di lui.”

A quelle parole, Caterina aveva stretto i denti, ma aveva avuto la forza di commentare: “Quando è morto Giacomo, il mio corpo non ha dato segno di...”

“Eravate più giovane e meno provata.” aveva tagliato corto il dottore: “Al momento vi vedo stremata e le febbri di quest'estate non vi hanno certo aiutata. Credo che il vostro corpo stia pagando il conto di tutto quello che gli avete fatto patire negli ultimi mesi. Dovreste stare più tranquilla.”

La donna, sentito ciò, aveva lasciato la sedia su cui si era accomodata per discutere, e aveva fatto per andare alla porta.

Tuttavia il medico l'aveva frenata per aggiungere: “E dovreste stare più attenta. Anche se questa volta non siete incinta, perché io sono convinto che non la siate, se non sarete più accorta, un giorno potrebbe capitare. Bere così smodatamente, per esempio, vi toglie lucidità e vi mette a rischio. Non vi dico di entrare in clausura, ma almeno che sappiate quello che state facendo, quando lo fate.”

Con una mano già sulla maniglia, la Contessa aveva ammesso: “Avete ragione. Negli ultimi tempi sono stata tutto, fuorché attenta.”

“Madre, non ballate?” la richiesta di Bianca era arrivata tanto improvvisa e con un tono tanto allegro che la Sforza, persa nei suoi pensieri, quasi saltò sul suo scranno.

Tirando un sorriso appena accennato, rifiutò la richiesta della figlia con un lapidario: “Da che è morto Giovanni, ho deciso di non ballare più alle feste.”

La Riario, allora, aveva risposto con un sorriso triste e l'aveva lasciata in pace per il resto della sera.

La Tigre rimase molto più a lungo di quanto non avesse deciso all'inizio. La verità era che non le stava dispiacendo, quello spettacolo. La cosa più bella, per lei, era vedere come i suoi figli – in special modo Bianca e Galeazzo – si stessero divertendo.

Quando ormai i più vecchi del gruppo o quelli che avevano ancora impegni di servizio si stavano dileguando, anche la Contessa decise di levare le tende. Chiamò a sé la figlia – intenta a ballare da un paio di danze con un giovane che la Sforza non conosceva, ma che, di certo, lavorava coi cavalli, visto il suo abbigliamento – e le disse che si sarebbe ritirata per la notte.

“Vado a mettere a dormire Giovannino e poi corro a riposare anche io.” le disse, alzandosi dalla sua sedia e posando una mano sulla spalla della figlia, lasciata scoperta dall'abito dalla scollatura pronunciata: “Mi raccomando – soggiunse – divertiti, ma stai sempre attenta.”

Bianca si accigliò un istante, riconoscendo nel tono della madre un che di mesto. Tuttavia la rassicurò, dicendo che lei stava sempre attenta e le augurò un santo riposo.

 

Giovannino pareva intenzionato ad aspettare la madre, prima di mettersi tranquillo per dormire. Se anche l'ora era già tarda, il bambino, robusto come una piccola quercia e deciso come un comandante in miniatura, attendeva Caterina con l'occhio vigile e sveglio come un grillo.

“Mi spiace – disse piano la balia, mentre la Contessa prendeva tra le braccia il figlio che, finalmente, al suo tocco pareva rilassarsi – avrei voluto metterlo a dormire prima, ma...”

“Non importa.” la zittì l'altra, tenendo stretto a sé Giovannino: “Adesso ci penso io.”

Il piccolo, che a breve avrebbe compiuto sette mesi si dimostrava giorno per giorno un tipo molto particolare. Di tutti i figli che la Sforza aveva avuto, quello si stava dimostrando il più difficile da affidare alle bambinaie.

Quando stava con lei o con Bianca, Giovannino era un pezzo di pane. Si lasciava fare tutto e non protestava nemmeno se qualcosa lo infastidiva. Lasciato solo in mano alle balie, invece, diventava intrattabile, irrequieto e – a detta delle serve – addirittura dispettoso.

Accarezzandogli lentamente la testa che si era nei mesi coperta da soffici riccioli castani, la Tigre lo tenne in braccio per un po', camminando per la stanza. Non aveva fatto uscire la balia perché voleva che fosse lì, quando il piccolo si fosse addormentato.

Un'altra cosa che Giovannino non sopportava era dormire solo, anche se per poco, e il buio. Non era facile capire se ne avesse paura o meno, fatto restava che lasciato solo per anche solo una manciata di minuti, se si svegliava, cominciava a piangere come un disperato finché non arrivava qualcuno a consolarlo. E in quel caso, vista la gran necessità, accettava anche le balie.

Soprappensiero, la Sforza cominciò a parlargli sottovoce, mentre lo sentiva rilassarsi poco per volta tra le sue braccia. Gli parlò di suo padre di Giovanni, di come fosse arrivato lì a Forlì e di come lei se ne fosse innamorata poco per volta. Gli raccontò del suo valore e della sua generosità, e di quanto lo avesse desiderato e amato.

La domestica, nel suo angolino, ascoltava in silenzio. Ricordava anche lei messer Medici e sentirne parlare in quel modo la Tigre la commosse. Era difficile che la Contessa si sbottonasse su questioni personali e quelle parole, sussurrate al figlio che si stava assopendo, andavano a sciogliere ogni dubbio sulla natura del legame che c'era stato tra lei e il fiorentino.

Chi aveva detto e continuava a dire che si erano sposati solo per reciproco interesse, nell'udire quelle memorie avrebbe cambiato idea senza fare una piega.

Quando Giovannino finalmente si addormentò, Caterina lo ripose con cura nella sua culla e lo coprì un po'. Anche se la stanza e ben riscaldata da un grosso camino, il freddo che penetrava anche attraverso le spesse tende della finestra rischiava di fargli prendere un raffreddore.

“Mi raccomando, non lasciatelo solo. Di notte detesta restare solo...” bisbigliò la Sforza, prima di uscire.

La balia annuì e poi, presa come non mai dal suo ruolo di custode, si andò a mettere accanto alla culla e, alla luce del camino, si mise a rimirare il piccolo volto del cucciolo della Tigre. Teneva gli occhi – dal taglio allungato com'erano stati quelli del padre – serrati e le labbra appena schiuse.

Nel sonno, ogni tanto, muoveva appena una mano dalle corte dita e faceva un'espressione corrucciata. In uno slancio di fantasia, la domestica si chiese cosa stesse sognando. Stava immaginando ciò che la madre gli aveva raccontato poco prima, oppure riusciva a scrutare il futuro e si vedeva già adulto, la spada nel pugno e il nemico che gli correva incontro?

 

Uscita dalla camera del figlio, Caterina si era rintanata nella sua. Mentre cullava Giovannino, aveva riflettuto sulla situazione e aveva deciso di scrivere ancora a Lorenzo Medici.

Ormai partiva per lui una missiva al giorno, ma il Popolano sembrava non darvi peso. Forse non era il metodo giusto, ma la Sforza trovava una sorta di conforto in quel modo di fare. In un certo senso, le dava la certezza di non starsene con le mani in mano.

Scrisse molto più di quello che voleva e fece notare al cognato come la sua apparente inerzia e il suo sprezzo verso ciò che lei aveva consigliato avesse portato la parte fiorentina a perdere inutilmente uomini, occasioni e paesi.

Ancora vestita da giorno, uscì dalla sua camera per andare a portare la lettera al castellano, affinché la facesse partire immediatamente. Cesare Feo trovava quel continuo rivolgersi a Firenze quasi patetico, dato che le risposte dal Medici arrivavano a singhiozzo, ma fece quello che gli veniva ordinato.

Caterina imboccò la strada di ritorno verso la sua camera, ma ancor prima di arrivare al suo corridoio, capì che non sarebbe riuscita a riposare. Troppe cose le agitavano l'anima, quella notte.

Sospinta allora dall'aria fredda che prometteva neve, decise di andare sui camminamenti. Avrebbe dato una controllata agli uomini di ronda e alla città e magari avrebbe anche avuto modo di ragionare a mente sgombra sulla guerra.

 

Ottaviano Manfredi non aveva avuto modo di trovare sonno, quella sera. C'erano tante cose che lo tormentavano, e non tutte dipendevano dalla guerra.

Aveva saputo che un messo veneziano aveva cercato di contattarlo, ma era stato felice di sapere che suddetto legato aveva rinunciato non appena lo aveva saputo ospite della Tigre. Aveva anche sentito dire che i Bentivoglio si stavano agitando, per la sua presenza a Forlì e sapeva che il nonno di suo cugino Astorre non se ne sarebbe rimasto con le mani in mano per sempre.

La cosa, però, che lo angustiava di più, era il non riuscire a togliersi dalla testa la Sforza. Era a Ravaldino da nemmeno dieci giorni eppure ormai quella donna era diventata il suo pensiero prevalente.

Gli era stato detto più di una volta che la Contessa avesse sugli uomini un ascendente fatale e difficile da comprendere, ma lui, da uomo di mondo, aveva sempre creduto che stessero esagerando.

Era appoggiato al profilo di pietra di una merlatura, lo sguardo rivolto alla statua del Barone Feo che, di notte, pareva un immenso e tremendo fantasma, quando sentì uno dei soldati di ronda salutare: “Mia signora...”

Istintivamente, si voltò di scatto e vide la Leonessa che camminava a pochi metri da lui, passando tra i soldati senza mancare di salutarli uno a uno.

“Manfredi. Cosa ci fate qui?” gli chiese, spigolosa, quando si accorse di lui.

L'uomo si staccò dalla merlatura e la fronteggiò con un sorriso cordiale: “Non riuscivo a dormire.”

“Siete ospite, in questa rocca.” gli ricordò la donna: “Prima di salire sui camminamenti dovreste chiedere il permesso.”

Ottaviano si morse la lingua. Non gli piaceva sentirsi dire certe cose, per quanto vere. Aveva vissuto gran parte della sua vita da esule, prima a nascondersi, poi a cercare rivalsa. Si sentiva un uomo libero, senza particolari regole se non quelle che si imponeva da solo. Tuttavia, voleva andare d'accordo con Caterina e perciò non ribatté in modo aspro come invece avrebbe voluto.

“Perdonatemi – si scusò, tornando ad appoggiarsi alla merlatura – devo ancora riabituarmi a non essere padrone di me stesso.”

La Contessa avrebbe voluto riprenderlo per quella mezza stoccata, ma non ne aveva la forza. Si sentiva sfinita, e tutto quello che cercava era una distrazione. Così, lasciando cadere il discorso, si mise accanto a lui, appoggiando i palmi alla pietra fredda della sua rocca e spingendo lo sguardo oltre la statua di Giacomo.

Forlì a quell'ora dormiva e le uniche luci arrivavano da qualche bettola e dal Quartiere Militare.

“Perdonatemi, per l'altro giorno, al Consiglio di guerra.” prese a dire a voce bassa Ottaviano: “Ma quel Pirovano mi stava facendo perdere le staffe. Se mi sono trattenuto dal dargli un pugno è stato solo per riguardo a voi.”

La Tigre sentiva il fisico scattante e caldo di Manfredi accanto al suo. L'uomo si era messo così vicino a lei che i loro fianchi finivano a sfiorarsi di continuo.

“Siamo tutti qui a combattere per lo stesso fronte.” disse lei, atona, cercando di non pensare troppo alla giovinezza del suo ospite e al fatto che fosse un valente soldato – due dettagli che lo rendevano ai suoi occhi una preda eccellente – e poi aggiunse, a voce appena più bassa: “Dovreste mettere da parte simpatie e antipatie personali.”

“Se così fosse, mi converrebbe di più passare dalla parte dei veneziani e propormi come sostituto a mio cugino – commentò Manfredi, spostandosi appena un po' di più verso la donna – e invece nel momento esatto in cui vi ho vista ho deciso che avrei mantenuto la parola data al vostro ultimo marito.”

“Lasciate queste moine per altre donne.” lo raggelò la Leonessa: “Con me non servono.”

Ottaviano parve prendersela. Mentre dal cielo cominciava a cadere qualche timido fiocco di neve, l'uomo si staccò un po' dal muro di pietra e incrociò le braccia sul petto.

“Lo so benissimo che voi avete tutti gli uomini che volete. Quando si fa il vostro nome, non si ricorda null'altro, di voi, in tutta Italia, se non la quantità imbarazzante di amanti che avete avuto e che continuate ad avere.” fece Manfredi, con una severità che poco si sposava con i suoi occhietti azzurri e il suo viso dai tratti gentili: “Quindi lo so che per voi potrei essere solo uno dei tanti, ma è una cosa che non mi spaventa. Alla fine vorrete anche me.”

“Avete un bel coraggio a dirmi certe cose.” ribatté la donna, senza guardarlo nemmeno: “Fareste meglio ad andarvene di qui, adesso. Questa rocca è mia e non vi ho dato il permesso di salire sui camminamenti.”

Ottaviano strinse i denti con tanta forza da farsi quasi male da solo, ma riuscì a tenere a freno la lingua. Camminò svelto come un fulmine fino alla scaletta a chiocciola e sparì dalla vista della Contessa.

Caterina aspettò un po'. Ormai le era passata la voglia di stare lì fuori. Faceva freddo e la neve iniziava a cadere copiosa, trasformando i primi radi fiocchi in un turbinare bianco e impetuoso, come spesso capitava negli ultimi giorni.

Pensando che avrebbe potuto ingannare la notti e le sue tribolazioni leggendo, la Sforza lasciò i camminamenti e tornò verso la sua camera, come un'anima in pena.

Era scesa prima al piano terra, per controllare qualcosa nella sala delle armi e nelle stalle – mero pretesto per non ritirarsi subito – e lungo la strada continuava a farsi travolgere a ondate dai ricordi.

Stava pensando a cosa leggere, una volta in stanza, e pensando al Decameron di Boccaccio le era tornato in mente di quanto lei e Giovanni avessero trovato interessante la novella di Catella e Ricciardo. La prima volta che l'avevano letta assieme avevano riso come pazzi e basta, ma già alla seconda, avevano trovato dei significati più profondi in quella novella.

“Io, anche nel buio di quella stanza, ti avrei riconosciuta subito.” aveva detto suo marito, stringendola al petto.

“Anche io ti avrei riconosciuto subito.” aveva confermato lei: “Senza la minima esitazione.”

“Che state facendo a quest'ora?” chiese Caterina, strappata ancora una volta ai suoi ricordi, vedendo Giovanni da Casale che usciva furtivo dalla sala delle armi.

“Volevo solo controllare che fosse tutto in ordine.” mentì lui che, invece, era andato in quell'ala della rocca con la sola speranza di incontrarla.

L'aveva cercata al piano di sopra, aveva perfino bussato alla sua porta, ma senza successo. Si era poi spinto fino alla sala delle armi, in un moto di ottimismo e finalmente era stato accontentato.

La Sforza lo guardò assorta, mentre anche le arcate sotto cui si trovavano faticavano a tenerli lontani dal turbinare della neve.

Anche quando lei e il Medici si erano baciati la prima volta, ricordò la donna, erano in cortile e anche quella volta nevicava con violenza.

Confusa dai continui lampi di memoria che le si riversavano addosso, la Contessa fu sul punto di dire a Pirovano di andarsene, perché voleva restare sola, senonché, come mosso da un regista invisibile, fosse arrivato sotto il porticato anche Ottaviano Manfredi.

Ravaldino quella notte somigliava a un dedalo i cui cunicoli portavano tutti alla Tigre. La milanese agì d'impulso, senza pensare troppo a quello che stava facendo, gettando all'aria in un solo colpo tutte le raccomandazioni che si era fatta da sola proprio quel giorno.

Voleva scrollarsi di dosso Manfredi, non perché lo temesse o non lo volesse, ma perché l'attrazione che provava per lui, lo sapeva, si sarebbe rivelata pericolosa. Quell'uomo doveva servirle solo ed esclusivamente per sollevare Astorre Manfredi da Faenza e liberare Bianca dal suo matrimonio capestro. Qualsiasi altra interazione tra loro avrebbe solo complicato le cose.

Così, dopo uno sguardo di sfida proprio a Ottaviano, che nel vedere la donna accanto a Pirovano si era fermato sui due piedi, Caterina prese per il giubbone Giovanni da Casale e lo fece chinare un po' su di sé, in modo da poterlo baciare.

Manfredi deglutì rumorosamente e, punto sul vivo da quell'ostentazione, girò i tacchi e tornò da dove era venuto.

Pirovano, intanto, si stava già lasciando prendere la mano e stringeva a sé la Leonessa con voluttà, già convinto che presto lei lo avrebbe portato nel silenzio della sala delle armi dove, ancora una volta, avrebbero consumato la loro passione.

Invece, non appena si rese conto di cosa l'uomo credesse di ottenere anche quella notte da lei, la Contessa lo allontanò di scatto e gli disse: “Ti cercherò io, quando ti vorrò.”

Giovanni da Casale, faticando a mantenere la calma, non si mosse quando vide la donna allontanarsi, ma, appena fu sicuro di essere di nuovo solo, sentì montare dentro di sé una forte rabbia. Sapeva dal primo minuto che la Tigre lo stava solo usando, ma averne una conferma tanto palese era troppo anche per lui.

Tornato nella sala delle armi, prese una spada e uno dei fantocci e si mise a tirare colpi fino a quando non si sentì sbollire e il bersaglio non fu a brandelli.

 

Manfredi era ancora sulle scale, quando Caterina lo raggiunse. Non sapeva nemmeno dire perché l'avesse seguito, soprattutto dopo quello che aveva appena fatto per farlo andare via.

Quando, però, gli arrivò accanto all'altezza del pianerottolo al piano, capì che ancora una volta era stato il suo sangue caldo a vincere su tutto, perfino sugli affari di Stato.

L'uomo, che salendo i gradini aveva continuato a darsi dello stupido e a chiedersi come potesse uno come lui sentirsi così male per una donna del genere, si fermò di colpo, nel vedere la Leonessa avvicinarglisi con un atteggiamento inequivocabile.

La Sforza sapeva che stava per combinare un disastro. Il potere che sentiva di avere, nel sedurre pressochè qualsiasi uomo di cui si incapricciasse, le stava montando la testa e non poteva far nulla per evitarlo.

Manfredi l'aveva attratta fin dal primo momento e l'avrebbe avuto, anche a costo di pentirsene.

Facendolo indietreggiare fino a spingerlo con la schiena al muro, gli passò una mano tra i lunghi capelli biondi e poi gli fece chinare il capo verso di lei, per baciarlo. Il suo sapore, così nuovo ed esaltante, le fece del tutto perdere il controllo.

La tensione che accumulava ogni giorno doveva trovare una valvola di sfogo e quella notte si trattava di Manfredi.

L'uomo ricambiava i suoi baci con ardore, mordendole con delicatezza le labbra e iniziando a sollevarle le sottane, tanto preso dalla furia del momento quanto la era lei, e la donna, dimenticandosi in un colpo di tutte le sue preoccupazioni, non fece altro che assecondarlo.

 

La festa nei locali della servitù era ormai finita. Bianca si era divertita come non le capitava da moltissimo tempo e anche i suoi fratelli erano ancora euforici.

Sforzino se n'era andato un po' prima, con la pancia piena e un gran sonno, mentre Bernardino e Galeazzo erano rimasti fino all'ultimo e, anzi, entrambi si erano offerti di aiutare a rimettere in ordine.

La Riario, che di norma avrebbe fatto come i fratelli, era stata dispensata da quella piccola fatica in riguardo al suo ruolo di festeggiata e così aveva salutato tutti e si era diretta verso le scale.

Non aveva preso con sé nessun lume, confidando nelle torce a muro e nella luce peculiare delle notti di neve come quella. Il buio, quindi, non l'avrebbe rallentata e nemmeno infastidita.

Appena fece i primi gradini della rampa che portava più rapidamente alla sua camera, però, sentì dei rumori strani e così si fermò.

Fermandosi sul terzo gradino, in un primo momento non capì che tipo di suoni fossero, ma dopo poco riconobbe dei respiri affannosi, il suono di baci furiosi e non solo. Una curiosità che non riusciva a dominare la portò a fare, in totale silenzio, ancora qualche gradino, fino a riuscire a scorgere le ombre che si stavano amando, sul pianerottolo.

Riconobbe abbastanza in fretta l'uomo, malgrado la scarsa luce, ma ci mise un po' di più a capire chi fosse la donna, che premuta contro il muro dall'amante, si avvinghiava a lui come una vipera attorno alla sue preda.

“Aspetta...” disse la donna, in un sussurro, rivelando con la sua voce la sua identità: “Ho sentito un rumore.”

Bianca, vedendo Ottaviano Manfredi smetterla di muoversi come aveva fatto fino a un istante prima, ebbe paura di essere scoperta e si nascose dietro al giro del corrimano, il cuore che picchiava contro lo sterno come se volesse uscire.

Sentì l'uomo dire, sbrigativo e con il fiato corto: “Non c'è nessuno, hai solo immaginato.” e poi capì che i due avevano ripreso, come nulla fosse.

Si era aspettata che prima o poi sua madre si sarebbe presa anche Manfredi, ma la rapidità con cui l'aveva stretto nelle sue spire era stata sorprendente anche per le sue previsioni.

Tornò al piano terra velocemente e sperando di non farsi notare e da lì decise di disertare i piani alti almeno per un po', tornando nelle cucine, sostenendo di averci ripensato e di voler aiutare.

“Tutto bene?” le chiese Galeazzo, vedendola particolarmente scossa, mentre lo aiutava a spostare i tavoli che avevano usato per le cibarie.

“Certo.” rispose subito lei, sforzandosi di sorridere: “Come sempre.”

 

“Domani discuteremo della nostra campagna contro tuo cugino Astorre.” disse piano Caterina, mentre si risistemava l'abito e si asciugava la fronte imperlata di sudore.

Ottaviano annuì, un po' infastidito dal fatto che la Sforza stesse già di nuovo parlando di affari di Stato, e commentò: “Certo, prima bisognerebbe vedere come vanno le azioni di Naldi e Fracassa.”

“Certo. Dipenderà molto da quello che succederà a Villafranca.” concordò la donna, prima di riavvicinarsi a lui e posargli una mano sul petto: “Ma ormai credo che siamo d'accordo, no? Alla prima occasione, prenderemo Faenza e uccideremo Astorre.”

“Sì, Tigre, siamo d'accordo.” soffiò lui, prendendole la mano e baciandola.

“Adesso vai nella tua stanza.” gli ordinò la Contessa, tornando ai modi rigidi che aveva avuto con lui fino a che non aveva deciso di farlo suo: “Non voglio che ci vedano insieme a quest'ora. Già prima...”

“Te lo sei sognata.” ribadì Ottaviano, uscendo in corridoio, lasciandosi alle spalle il buio delle scale: “Non c'era nessuno. Non ci ha visti nessuno.”

Caterina non ne era affatto sicura, ma finse di essersi convinta. Lo salutò con un cenno del capo e poi, invece di seguirlo per andare in camera a riposare, scese fino alle stalle. Svegliò uno dei garzoni e si fece sellare il suo stallone.

“La neve sarà alta, mia signora...” provò a dire il giovane che, la Sforza se ne accorse in un secondo momento, era uno di quelli che aveva ballato quella sera con Bianca: “Non è prudente che usciate adesso...”

“Non sta a te dirlo.” rimbeccò lei, che non sopportava più che un uomo, tanto meno un ragazzino suo dipendente, si permettesse di farle osservazione.

Cavalcò veloce e incurante della neve che le inumidiva i vestiti e raggiunse senza troppe difficoltà la Casina. Sistemò il cavallo nel piccolo ricovero, mettendogli addosso anche la coperta, e poi entrò in casa.

Accese il fuoco e controllò che vi fosse da bere. Si versò del vino e attese che l'ambiente si scaldasse un po'. Poi, dopo essersi spogliata, si infilò sotto le coperte e affondò il viso nel materasso e cercò di calmarsi.

Ancora non credeva di essere stata così avventata con Manfredi. Aveva complicato tutto e ancora non si rendeva conto di quanto.

Il vento batteva contro la finestra della Casina e il freddo, combattuto a stento dalle fiamme del camino, entrava da sotto la porta e sembrava capace anche di attraversare i muri.

La Tigre si ricordò di come lei e Giovanni si fossero amati per la prima volta proprio lì, in una notte non dissimile da quella e tanto bastò a farla piombare in uno sconforto difficile da contenere.

Il Medici le aveva dato una stabilità emotiva e sentimentale che non avrebbe mai più recuperato e, se lui fosse stato ancora vivo, non si sarebbe mai compromessa a quel modo con un uomo indecifrabile come Ottaviano Manfredi.

Rigirandosi nel letto, Caterina si disse che era inutile dibattersi ancora, per quella notte. Era scappata alla Casina per scappare anche da se stessa. Doveva approfittare di quella solitudine per riprendersi.

Scrutando le ombre che il foco dipingeva sul soffitto, la donna cercò di ricordare i momenti migliori della sua vita e, senza accorgersene, tornò a quando era bambina, nel palazzo di suo padre e così, quando si addormentò, i pensieri si tramutarono in sogni e fino al mattino dopo non fece altro che inseguire galline a Porta Giovia e giocare con i suoi fratelli alla guerra, usando bastoni al posto dei cavalli e impugnando spade di legno.

 

 
   
 
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