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Autore: Adeia Di Elferas    09/08/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Fracassa strinse gli occhi contro il vento che gli soffiava contro senza tregua, facendolo un po' lacrimare.

Teneva strette le redini del suo cavallo e se ne stava un po' in disparte, lasciando che gli uomini che erano al suo comando facessero il lavoro sporco. Avevano già catturato molti faentini, come la Contessa aveva previsto, ma di contro anche tanti dei loro erano caduti.

I soldati di Astorre Manfredi erano stati colti di sorpresa fino a un certo punto e avevano dimostrato di essere capaci di reggere un'imboscata anche senza avere come guida dei generali esperti.

Quel dettaglio aveva colpito molto il Sanseverino. Pure la staffetta veloce che gli aveva mandato Naldi, che aveva ricevuto il compito di occuparsi dei faentini che avesse trovato nella zona di Val di Lamone aveva descritto una situazione simile a quella di Villafranca.

I veneziani se n'erano andati, lasciando alle loro spalle una situazione catastrofica e al loro posto erano arrivati i faentini, con l'ordine di tenere le postazioni il più a lungo possibile. Peccato, pensava Gaspare, non aver trovato nemmeno un graduato che potesse essere interrogato per sapere qualcosa in più sul piano dei Serenissimi.

“Li abbiamo presi tutti.” gli riferì uno dei suoi, avvicinandosi, con un nemico alla corda.

Fracassa guardò il faentino. Aveva un occhio del tutto tumefatto e la bocca era ridotta a un insieme di denti rotti e sangue. Interrogarlo sarebbe stato difficile. Così fece un cenno al suo soldato, come a dire di portare anche quel prigioniero con gli altri e poi cavalcò in mezzo alle case.

Quel piccolo villaggio – o meglio, un paio di edifici in pietra e mezza dozzina in legno – era stato occupato dai veneziani e poi dai faentini e chissà che fine avevano fatto i veri abitanti di quelle poche case.

Il Sanseverino, sbuffando, sperò che fossero morti subito. I mercenari al soldo del Doge erano risaputamente tra i peggiori al mondo. Sapevano essere disciplinati e ferrei, in battaglia, ma quando bivaccavano, non c'era uomo, donna o bambino che si potesse salvare dalla loro furia.

“L'area è sgombra?” chiese il comandante, dopo aver controllato di persona che tutti i suoi uomini stessero lasciando quelle baracche.

Il suo secondo gli assicurò che i nemici erano stati tutti o uccisi o presi, e così Fracassa annuì e poi, dopo averlo chiamato a sé, gli spiegò: “Voglio tornare a Forlì per fare direttamente rapporto alla Tigre. Organizzate il campo. Vi stazionerete qui e controllerete che non arrivino altri rinforzi veneziani da est o da nord.”

Il soldato annuì e chiese: “Volete che mandi degli esploratori verso Rimini o Ravenna?”

Fracassa avrebbe voluto. Secondo lui in quel momento la città del Malatesta e il fasullo avamposto del papa potevano essere sguarniti. Sarebbe stata la loro occasione per mettere davvero paura al Doge e tagliare i ponti a Bartolomeo d'Alviano, che si era spinto nel Casentino.

Tuttavia, stringendo i denti, rispose: “No. La Tigre ha detto che non le interessa né Rimini, né tanto meno Ravenna. Starete qui e basta.”

 

“Quindi il Conte di Caiazzo non ci ha ancora fatto sapere se si sta rimettendo o meno.” fece eco Caterina, battendo nervosamente due dita sul bracciolo del suo scranno.

Aveva riunito un Consiglio cittadino e stava aspettando che i rappresentanti di Forlì si palesassero, intrattenuta da Luffo Numai che le riassumeva gli eventi delle ultime ore.

“Potremmo cercare di usare suo fratello, Gaspare, per convincerlo a...” iniziò a dire il Consigliere, ma la donna scosse subito il capo.

Quel giorno non riusciva a smettere di tormentarsi pensando a quello che sarebbe potuto capitare, adesso che Giovanni da Casale e Ottaviano Manfredi erano entrambi sulla lista dei suoi amanti. I due si sopportavano a mala pena, l'aveva potuto costatare di persona, ed entrambi erano uomini dal temperamento caldo, per quanto Pirovano cercasse di nasconderlo e il faentino vi ridesse sopra.

Ci sarebbe mancato unire al quadro degli uomini che non sapeva gestire il bruttissimo Giovan Francesco Sanseverino che, non poteva scordarlo, aveva chiesto in moglie sia lei sia sua figlia Bianca, senza fare troppe distinzioni.

“Se il Conte di Caiazzo non ci ritiene degni della sua attenzione – concluse la Sforza, guardando in modo eloquente Luffo – allora nemmeno noi lo riterremo degno della nostra. Saremmo pronti a ospitarlo, per far piacere al Duca mio zio, ma se nemmeno vuole edurci circa la sua salute, allora se ne può restare a marcire al Fosso Verde fino a che le larve non se lo saranno mangiato.”

Numai non ebbe da ridire e le riferì ancora un paio di cose che erano successe. La informò del fatto che Achille Tiberti aveva annunciato di essere in procinto di rientrare in città.

La Contessa parve non dare peso a quella notizia, e dopo un altro paio di battute, interruppe il discorso con il suo uomo di fiducia, perché cominciavano ad arrivare i primi membri del Consiglio.

Ciò che la donna chiese ai rappresentanti delle famiglie più abbienti di Forlì fu semplice. La guerra, ormai ne era certa, li avrebbe toccati di nuovo molto da vicino e quindi sarebbe stato necessario trovare cibo e contatti commerciali sicuri.

Non voleva chiedere l'impossibile ai ricchi dello Stato, ma li pregò accoratamente di fare quanto di meglio potessero per salvare la situazione: “Se siete uomini – sottolineò, guardandoli uno a uno con insistenza – saprete cosa fare e non mi deluderete. Se invece siete dei vili, vi consiglio di vendere tutto quello che possedete e cercare rifugio altrove, perché non avrò pietà, quando arriveremo a razionare il cibo e le difese.”

La riunione era finita da pochi minuti, lasciando tanti spunti di conversazione tra i partecipanti e tanti interrogativi, quando il Capitano Mongardini si presentò, un po' titubante, nella sala del Consiglio e si diresse verso la Tigre, che ancora stava discutendo con un paio di possidenti.

“Perdonatemi, mia signora – fece egli, a voce bassa, i piccoli denti lucenti che si mostravano in un vago sorriso – ma alla rocca è arrivato Gaspare Sanseverino, per portarvi notizie da Villafranca e Val di Lamone.”

Caterina non si era aspettata di rivedere tanto presto Fracassa e dunque temette il peggio: “È ferito?” domandò.

Mongardini scosse il capo: “No, ma mi pare furioso.”

La Leonessa sospirò e, alzandosi con lentezza dal suo scranno, soffiò: “Andate a dirgli che sarò da lui immediatamente. Fatelo sistemare nello studiolo del castellano.”

 

Semiramide stringeva le mani guantate in grembo e si perdeva con lo sguardo nelle nuvolette di vapore che salivano dalle sue narici.

San Lorenzo quel giorno era particolarmente fredda, ma non era riuscita a restare in casa un momento di più. Aspettava con ansia l'ora del ritorno di suo marito, perché anche lei voleva fare la sua parte e convincerlo, come stava cercando di fare la Signoria.

La notizia dell'avanzata – improvvisa e poco attesa – dell'Alviano nel Casentino aveva gettato tutti nel panico e il Popolano, agli occhi del Gonfaloniere pareva l'unico in grado di ottenere un dialogo proficuo con la Sforza, e quindi di tamponare la catastrofe, costringendola a impegnarsi di più nella difesa di Firenze.

La donna si guardava alle spalle di quando in quando. Aveva chiesto al suo servo di controllare quando vedesse Lorenzo in strada e di chiamarla.

Forse non era la mossa più saggia, affrontarlo per strada, ma voleva spingerlo a ragionare e quindi, forse, trascinandolo davanti alla tomba di suo fratello, che era stato sepolto prima che potessero riappacificarsi, sarebbe servito a qualcosa.

Finalmente, proprio quando le campane si erano messe a suonare l'ora, il ragazzo si palesò sulla porta e fece un cenno alla sua padrona che, svelta come il fulmine, si alzò dall'inginocchiatoio e corse fuori da San Lorenzo.

Vide suo marito circondato da alcuni dei suoi, e notò pure che poco lontano da loro, con il passo rapido di chi ha appena avuto un diverbio e vuole togliersi di torno il prima possibile, c'era il Segretario della Repubblica, Machiavelli.

Semiramide fece appena in tempo a vederlo voltarsi un'ultima volta, malevolo, verso il Medici e poi sparire dietro l'angolo.

“Lorenzo!” chiamò l'Appiani.

Il marito si fermò, un po' infastidito e si scusò con quelli che lo accompagnavano, per poi cercarla con lo sguardo e chiederle: “Che vuoi?”

“Potresti venire un attimo in chiesa?” gli domandò, l'espressione del viso totalmente neutra, come la sua voce.

Il Popolano avrebbe voluto dirle di no. Era stata una giornata pesante e difficile. Aveva voglia di cambiarsi d'abito e aveva fame. Era stanco. Avevano cercato per tutto il giorno di fargli fare qualcosa che non voleva e ci mancava solo sua moglie che gli chiedesse di entrare in chiesa. A far cosa, poi?

Tuttavia, la presenza dei suoi sostenitori, lo indusse ad apparire meno scontroso di quanto non fosse diventato e così annuì seccamente e salutò gli altri, seguendo la moglie in San Lorenzo.

“Di che vuoi parlarmi?” chiese lui, appena la donna l'ebbe fatto avanzare fin quasi all'altare maggiore.

“Abbassa la voce, siamo in chiesa.” gli ricordò lei.

Lorenzo strinse i denti, lo sguardo che correva involontariamente in direzione della tomba di Giovanni.

“Devi scrivere alla Tigre di Forlì e devi farlo con toni pacati. So di cosa avete discusso alla Signoria, oggi.” le parole uscivano dalle labbra di Semiramide come un fiume in piena e il marito faceva quasi fatica a capirla: “Non puoi permettere che per uno screzio personale ci vada di mezzo Firenze. Hai passato una vita a cercare di avere il potere su questa città, adesso è arrivato il momento di difenderla. Altrimenti che avrai conquistato? Un pugno di macerie. Quindi metti da parte l'orgoglio e scrivi a quella donna, che ti piaccia o no, e convincila a fare quello che deve. Se amava Giovanni, non si tirerà indietro.”

Il Popolano era rimasto in silenzio, mentre la moglie parlava. Anche quando finì, il suo volto restò un blocco di pietra e i suoi occhi due pezzi di vetro.

Ci volle ancora qualche minuto, prima che dicesse: “Quella donna non amava mio fratello. L'ha solo usato. Però hai ragione: Firenze è più importante. Sia di lei, sia del mio orgoglio. Le scriverò, ma dopo questa, o farà quello che voglio io, o farò in modo di portarle la guerra in casa e distruggerla una volta per tutte.”

L'Appiani deglutì, spaventata dall'ira che aveva mosso la voce del marito. Però pensò che avrebbe avuto tempo per calmarlo, un po' per volta, e che per il momento poteva solo accontentarsi di quel minuscolo passo avanti.

“Va bene.” sussurrò.

Lorenzo si schiarì la voce e la salutò: “Torno a casa. Sono stanco. Mangerò e poi scriverò quella dannata lettera. Sia mai che possano dire che ho perso Firenze per un pezzo di carta.”

 

“Allora?” chiese Caterina, appena entrò nello studiolo.

Fracassa, la testa coperta dalla cuffietta di lana cotta, e sul viso ancora la barba lunga e i segni delle recenti scaramucce, chinò appena il capo e non perse tempo, rispondendo all'istante: “Allora noi ne abbiamo presi tanti, ma i faentini posso dire che ne hanno ammazzati quasi altrettanti dei nostri.”

“La si potrebbe considerare una pari e patta?” domandò la Tigre, facendosi più nervosa.

Aveva cacciato il castellano con un cenno del capo e si era andata a sedere al suo posto, controllando con la coda dell'occhio che Cesare Feo chiudesse del tutto la porta.

“Non direi, mia signora, no.” fece Gaspare, le mani dietro la schiena e un'espressione furente a rendere i suoi tratti infelici ancora più disarmonici.

“E perché?” ribatté allora la donna, prendendo tra le mani un tagliacarte, giocherellandoci per diluire un po' la tensione: “Avete detto che più o meno i conti sono in pari...”

“Sì, ma...” Fracassa sembrava sul punto di esplodere e Caterina, in tutta sincerità non riusciva a capire perché.

Anche se probabilmente quella non era stata una vittoria, lui era solo un uomo stipendiato dal Moro. Perché prendersela tanto?

“Nel loro soggiorno – riprese il Sanseverino, guardandola come se stesse cercando di spiegare qualcosa di semplice a un bambino stupido – hanno rubato tutto il bestiame, il fieno, la paglia, perfino le sementi pronte per la semina del prossimo anno.”

La Tigre ascoltò in silenzio. Si era aspettata un quadro del genere. Quando soldati come quelli del Doge sostavano a lungo in una zona, era normale attendersi che prendessero tutto quello che potevano.

“E gli abitanti dei villaggi?” si informò la donna, riappoggiando il tagliacarte sulla scrivania.

“Non ne abbiamo trovato nemmeno uno. Solo qualche contadino nelle zone più isolate.” rispose il soldato, sporgendo in fuori il mento.

“E perché siete così rabbioso?” chiese la Contessa, alzandosi dalla scrivania e andandosi a mettere davanti a lui.

Fracassa sollevò un sopracciglio e rispose: “Perché? Mi state chiedendo perchè? Ma perché ci hanno fatto un simile torto e voi vi limitate a fare qualche prigioniero e tenere le posizioni! Perché non stiamo marciando su Rimini! Perché adesso che ci hanno preso tutte quelle bestie e quei foraggiamenti, finiremo a fare la fine del topo! Perchè...”

“Se non vi piace come sto guidando il mio esercito – lo interruppe la Sforza, senza dar mostra di essere intimorita dal tono di voce sempre più alto e sempre più aggressivo del Sanseverino – non è un problema mio. Il Duca di Milano vi ha ordinato di stare ai miei ordini e questo non comprende il lamentarvi. Se il vostro padrone mi avesse dato quel che chiedevo, vi assicuro che Rimini, Ravenna e perfino Venezia sarebbero già in fiamme!”

L'uomo rimase in silenzio, gli occhi fissi in quelli verdi e fiammeggianti della Leonessa. Sentir parlare del Moro come del suo 'padrone' l'aveva offeso, ma gli stava mancando il coraggio di rimbeccare ancora.

“Noi due non siamo mai andati troppo d'accordo – mise in chiaro la Contessa, abbassando di nuovo la voce e cercando di calmarsi – e dunque forse sareste meglio apprezzato altrove. Siccome siete ancora a mio uso, però, sarò io a decidere dove.”

Fracassa deglutì. Nella sua mente si stavano alternando molti scenari e, quando arrivava a quelli più catastrofici, l'idea di scappare non gli sembrava tanto male.

“Andrete a Firenze. Prenderete ordini direttamente dalla Signoria. Sarete il pegno che pagherò a Lorenzo Medici per il suo appoggio.” decretò Caterina.

Gaspare parve quasi confuso. Non si era aspettato quella che, di fatto, era una decisione che andava a favorirlo. Lui si sentiva sprecato, al soldo di una donna, e avvilito nel fare solo azioni di disturbo o di tamponamento. Forse, se fosse riuscito a farsi mettere nelle squadre di comando di Paolo Vitelli, avrebbe finalmente potuto fare davvero la sua parte e dare di nuovo lustro al nome dei Sanseverino.

Così fu con cuore abbastanza leggero che disse: “Come la mia signora comanda” e uscì dallo studiolo senza avere altro da recriminare.

Rimasta sola, la Sforza andò alla finestra e ragionò per qualche istante. Con Giovan Francesco Sanseverino ancora infermo, Fracassa diretto a Firenze e Tiberti del tutto inaffidabile, restavano pochi i comandanti su cui contare per un'azione tanto delicata. Avrebbe potuto mandare Giovanni da Casale, ma, in un moto d'egoismo, si rese conto di non volersene separare. Le piaceva, incontrarlo per caso nella rocca e sapere che, se mai lo avesse voluto, una di quelle notti, lui non si sarebbe tirato indietro e l'avrebbe soddisfatta come se fosse un suo dovere.

Le ci volle un po', ma quando il castellano tornò allo studiolo convinto che la Contessa si fosse già allontanata, la donna gli disse: “Fate richiamare Dionigi Naldi. Deve unirsi alle truppe fiorentine a San Pietro in Bagno e...” nel citare il posto in cui era morto Giovanni, la Tigre era una brevissima esitazione, che vinse quasi all'istante, riprendendo: “E tra oggi e domani mi occuperò personalmente della selezione delle squadre di fanteria da affidargli. Dobbiamo dare il massimo, questa volta. Non per Lorenzo Medici o per l'alleanza o per la Signoria di Firenze. Se non avremo ragione una volta per tutta di questi maledetti veneziani, non ci sarà più nulla per cui combatte.”

Cesare Feo annuì e assicurò che avrebbe fatto spedire l'ordine ufficiale per Naldi prima di sera.

La Sforza lo ringraziò e poi decise di cominciare subito il lavoro di selezione delle truppe da spedire a San Pietro in Bagno. Oltre a dare un sensibile aiuto alla coalizione, voleva dimostrare il peso esatto della sua presenza nell'alleanza.

Finché i fiorentini pensavano a Ottaviano come esempio della sua forza, nessuno l'avrebbe mai presa sul serio. Invece, mostrando le sue truppe migliori e facendo in modo che venissero usate anche in difesa delle sue stesse terre, avrebbe sicuramente guadagnato più credibilità e prestigio.

Era vero che sguarnendosi a quel modo avrebbe rischiato, ma non era più tempo di essere prudenti.

Uscita dalla rocca, appena presa la strada più breve per il Quartiere Militare, incrociò Ottaviano Manfredi che, invece, stava tornando verso Ravaldino.

“Oh, Tigre! Speravo di poterti parlare...” fece lui, fermandosi subito e avvicinandosi: “Sai, per quella cosa di mio cugino. Eravamo d'accordo che avremmo discusso dei dettagli.”

Caterina sospirò. Se n'era quasi dimenticata. Non era ancora scesa a patti con se stessa a riguardo di quello che aveva fatto la notte prima con lui e per tanti motivi aveva semplicemente cercato di non ripensare più al loro incontro fugace.

“Adesso sono impegnata – lo tenne a distanza lei, evitando i suoi occhi azzurri che la indagavano con un sorriso insinuante – ma questa sera, se vuoi, potremo parlare.”

Il faentino parve gradire la prospettiva e così accettò all'istante: “Non vedo l'ora.”

La Sforza temette di essere stata fraintesa, ma non ritrattò perché, in realtà, nemmeno a lei sarebbe dispiaciuto, se ai discorsi seri fosse seguito altro, così ribadì: “A stasera, Manfredi.”

“A stasera, Tigre.” la salutò lui e la lasciò libera di tornare dai suoi soldati.

 

Lorenzo ci aveva messo più del previsto a decidersi, ma alla fine si era seduto alla scrivania e aveva impugnato la penna. L'aveva intinta nell'inchiostro e, dopo un respiro molto fondo, aveva cominciato a scrivere.

Le parole accorate di Semiramide e quelle – meno disinteressate e più aggressive – che gli erano volate addosso alla Signoria gli rimbombavano nella mente e così dovette riordinare più volte le idee, prima di riuscire a mettere insieme una lettera decente.

Quando i messaggi accartocciati e cancellati che si ammonticchiavano accanto a lui sulla scrivania furono abbastanza da costringerlo a stare in un angolino del tavolo per scrivere, finalmente il Popolano si trovò soddisfatto delle proprie parole.

'Havendo la Signoria Vostra in beneficio di questa Repubblica già sopportato tanti giorni li nimici in casa, et non che manchato dello officio di bona amicitia, ma exposto il suo proprio Stato: et obligatosi in modo questi mia Signori et tutto el popolo fiorentino che in aeterno si ricordarà si tal beneficio e di vostra Signoria. Ma hora essendosi levati li inimici di costà tanto maggiore obligationo haremo con quella quando la mandassi più numero di fanti et cavalli leggeri che fusse possibile alla volta del Casentino acioché si interrompessino i loro disegni: di che la Signoria Vostra mostra per tutte le sue lettere esserne desiderosissima: io di questo efficacissimamente et ecorde ne la prego; certicandola che questi Signori Dieci hanno expressamente per loro partito facto che Vostra Signoria sia rimborsata di tutto quello ispendessi per loro conto in questa impresa. Et oltre la comune utilià che ne resulterebbe di tale expeditione io in particulare ascriverò questo da Vostra Signoria in beneficio. Alla quale mi offero del continuo et mi raccomando.'

Chiuse con la data di quel giorno – 1 novembre 1498 – e con la firma.

Rimase indeciso per un po' se farla leggere o meno a Semiramide. Gli sanguinava il cuore nel vedere come lui e la moglie si fossero allontanati e, soprattutto dalla morta di Giovanni, avrebbe voluto a tutti i costi riavvicinarsi a lei, ma gli risultava difficile.

Alla fine, pensando che quello potesse essere un inizio per potersi poi riconciliare, prese la lettera e lasciò la sua camera diretto a quella della moglie. Si fermò a metà strada, però, perché incrociò proprio Semiramide, in abiti da camera e con una candela in mano, che si stava recando da lui.

“Volevo farti leggere la lettera.” spiegò l'uomo, mostrandole il messaggio: “Per sapere se secondo te va bene.”

“Allora ti interessa ancora, la mia opinione.” commentò la moglie, le labbra che si sollevavano a fatica in un sorriso.

“Sì.” annuì lui e, porgendo già la pagina alla donna, le fece segno di seguirlo fino in camera e l'Appiani lo seguì, sperando che da quella sera potessero imparare a conoscersi e amarsi di nuovo come avevano fatto anni addietro, quando si erano dovuti sposare.

 

Caterina era stanchissima, e quando riuscì finalmente a sedersi a tavola, si mise a divorare tutto quello che le capitava a tiro, ricordando a quelli che la vedevano i modi di suo figlio Sforzino.

Nella sala c'erano una manciata di Capitani, Bernardino e Galeazzo. La donna si era seduta accanto ai due figli e non era stata molto ad ascoltarli, almeno non fino a che non aveva sentito la pancia piena.

Placata la fame, aveva bevuto un po' di vino caldo, per combattere il freddo battente patito al Quartiere Militare e finalmente si era messa a sentire di che stessero parlando.

Il più grande stava raccontando al minore di quando i veneziani li avevano attaccati e da lì era passato a parlargli di aneddoti che – Caterina se ne rese conto in fretta – erano quelli che lei stessa aveva raccontato a Galeazzo quando era più piccolo.

Bernardino ascoltava rapito delle gesta di sua madre e dei suoi nonni e di quando in quando lanciava un'occhiata alla Contessa, quasi non la credesse capace di certe cose.

La Tigre non si intromise, trovando che l'animosità con cui Galeazzo stava raccontando fosse sufficiente a catturare l'attenzione e stimolare la fantasia di Bernardino. Non le sarebbe dispiaciuto se quelle storie gli avessero messo nell'animo uno spirito più combattivo di quello che aveva avuto suo padre Giacomo.

Dopo un po', quando il più piccolo ebbe finito il pezzo di carne che aveva davanti, il fratello gli disse che, se voleva, potevano continuare il loro discorso nella sala dei giochi. I due si alzarono, salutarono la madre e, sempre parlottando, lasciarono la sala dei banchetti.

Come a dar loro il cambio, arrivò Bianca che, vista la madre, rallentò un momento il passo. Era andata a cenare sul tardi sperando di non incontrarla, e invece...

Imbarazzata, si sedette accanto a lei, come al solito, per non darle l'impressione che qualcosa no andasse.

Ormai, a parte loro, c'erano appena un paio di soldati, seduti abbastanza lontani, e qualche servo che si affaccendava a togliere dai tavoli i vassoi vuoti.

“Tutto bene, Bianca?” chiese la donna, notando come la figlia sembrasse sulle spine.

Per tutto il giorno la Riario non aveva fatto che ripensare a quello che aveva intravisto la notte prima. Non era tanto il sapere che sua madre avesse un nuovo amante, ma il conoscerne l'identità a renderla inquieta.

Se prima aveva visto Ottaviano Manfredi come fuori dalla sua portata, adesso era spaventata dall'attrazione che provava per lui. Temeva che, se per caso sua madre se ne fosse accorta, le conseguenze sarebbero state terribili.

“Sì, tutto bene. Ho solo preso un po' di freddo, forse...” rispose lei, tossicchiando come per avvalorare la sua tesi: “E così mi sento un po' stanca.”

La Leonessa non le credette, e così, dato che ormai aveva finito di mangiare, si versò ancora un bicchiere di vino e poi, iniziando a berlo, le disse: “Sei stata alla rocca tutto il giorno, per quello che ne so. Abbiamo camini grandi e il caldo non ci manca.”

Bianca arrossì un po' e cercò di riparare: “Avete ragione. Forse... Non lo so. Magari è solo un malanno di stagione...”

Caterina stava per ribattere di nuovo, ma vide che si stava profilando sulla porta Manfredi. L'uomo, che la stava cercando, appena la vide le fece un cenno con il capo, come a farle sapere che lui era pronto per il loro discorso e così la Tigre sollevò la mano, per fargli sapere che sarebbe arrivata a breve.

La Riario, nel vedere quello scambio silenzioso tra Ottaviano e la Contessa, arrossì ancora di più.

“Non ti piace, il nostro ospite?” chiese Caterina, indagatoria, un po' sorpresa nel vedere come la figlia avesse abbassato lo sguardo, nello scorgere il faentino.

Bianca scosse il capo: “No, no... Anzi... Però, ecco...”

In quel momento, nel vederla avvampare ancora di più, la Sforza capì. Si abbandonò un momento contro lo schienale della sedia e finì il vino che aveva ancora nel calice. Era ovvio che a sua figlia il Manfredi non dispiacesse affatto. Ma quella sua ritrosia nel parlare di lui non era da lei. Sapeva che c'era qualcosa sotto e temeva di sapere cosa.

“Eri tu, sulle scale, vero?” le chiese, in un soffio: “Mi era sembrato che ci fosse qualcuno...”

La Riario, che non aveva ancora toccato cibo, sentì lo stomaco chiudersi. Sua madre, a volte, pareva dotata di un istinto ferino che la spaventava.

“Io... Io non volevo...” provò a dire la ragazzina, ma sua madre stava già facendo segno di no con la testa.

“Non... Non devi scusarti di niente. Sono io che ho agito senza ragionare. Potevo immaginare che qualcuno avrebbe potuto vederci...” disse piano la Leonessa, mesta: “Non avrei pensato che saresti stata tu, però.”

“Per me non è un problema.” si affrettò ad assicurare Bianca: “Io non ne parlerò con nessuno. È come se non avessi visto nulla.”

Caterina si morse il labbro e la guardò. La Riario non riuscì a sostenere il suo sguardo e i suoi occhi blu scuri si fissarono sul piatto vuoto davanti a sé.

Con un sospiro pesante, la madre commentò: “Non è facile, per me. Non so se un giorno mi capirai... Ti auguro di non aver preso da me.”

Bianca preferì non dire nulla a riguardo, ma chiese solo: “Messer Manfredi si fermerà molto, da noi?”

A quella domanda la Tigre non sapeva come rispondere, così restò sul vago: “Dipende da tante cose.”

La Riario non cercò una risposta più precisa, ma annuì e si servì da mangiare, come a voler chiudere in un colpo il discorso.

“Manfredi è un bell'uomo.” continuò Caterina, per conto suo: “E potrebbe essere la chiave della tua libertà.”

Bianca deglutì, e poi, prendendo anche un pezzo di pane nero, si azzardò a dire: “Avete ragione, è un bell'uomo. E per il resto... Mi affido a Dio e a voi.”

Non sapendo come proseguire il discorso, la milanese si alzò e, sempre a voce abbastanza bassa da essere sentita solo dalla figlia, disse: “Vado da tuo fratello Giovannino. Più tardi incontrerò Manfredi e discuteremo di come far fuori Astorre. Stai tranquilla, Bianca. Non farò l'errore che ha fatto mio padre. Non ti costringerò mai a stare con un uomo che non vuoi.”

La ragazza abbassò la testa, a mo' di riverenza, e poi ricambiò quello che voleva essere un saluto affettuoso da parte della madre: “Avete già fatto tanto, per me. Come vi ho già detto, mi rimetto completamente a Dio e a voi.”

La Sforza strinse le labbra e poi, ancora incredula per aver scoperto che erano di Bianca quei passi leggeri che aveva sentito sulle scale la notte prima, uscì dalla sala dei banchetti e arrivò in quella di Giovannino quasi di corsa.

Se anche Ottaviano Manfredi la stava aspettando davanti alla porta della sua camera, poco le importava. I suoi figli, ormai, erano per lei più importanti di qualsiasi uomo. Se per Giacomo era stata pronta a rinnegarli tutti e per Giovanni sarebbe stata pronta a metterli tutti in pericolo, adesso era arrivata a capire che il sangue era più importante di qualsiasi altra cosa.

Quella guerra sarebbe stata incerta e sanguinosa e, alla fine, tutto ciò che le interessava salvare era il suo stesso sangue. E Ottaviano Manfredi, in confronto, valeva meno di zero, come Giovanni da Casale e come tutti gli altri uomini che si prendeva quando ne aveva voglia, buoni solo a scaldarle il letto per qualche ora.

La forza della sua famiglia stava nella profondità delle radici – e quelli erano i suoi nonni e i suoi genitori, che con le loro vite erano stati per lei un esempio impagabile – nella robustezza e fermezza del tronco – e quello era lei, che, malgrado tutto, sapeva di poter resistere ancora a qualunque cosa, per la sua famiglia – e nella numerosità e rigogliosità dei suoi rami. E quelli, non poteva più fingere di ignorarlo, erano i suoi figli.

Poteva potare i rami secchi o marci, come Cesare e Ottaviano, ma gli altri doveva curarli e proteggerli, se voleva vederli pieni di foglie e frutti. E così avrebbe fatto.

 
   
 
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