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Autore: Adeia Di Elferas    11/08/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“I Baglioni sono tutti pazzi! Io l'avevo detto! Pazzi!” stava dicendo Carlo Orsini, levandosi l'elmo e gettandolo in terra in un gesto di stizza che non gli apparteneva: “Prima di tutto, è assurdo che Astorre Baglioni e Giampaolo Baglioni militino in due eserciti contrapposti...”

“Se è per questo – notò serafico Guidobaldo da Montefeltro – io e il qui presente Bartolomeo d'Alviano abbiamo combattuto spesso come rivali, eppure adesso siamo alleati. E molti Orsini, nel corso dei secoli, hanno militato ora per uno ora per l'altro signore di questa o quella terra... La vita di un mercenario è questa.”

Carlo scosse il capo, si tolse la cuffietta di cotta e si passò una mano tra i capelli sudati. Anche se la battaglia era finita da ore, pareva quasi che fosse ancora in mezzo al campo a dibattersi per sopravvivere.

Bartolomeo lo fissava quasi con commiserazione. Anche lui, lo confessava, da giovane aveva avuto certi scrupoli. Poi, però, dopo essere rimasto vedovo, quegli scrupoli erano spariti l'uno dopo l'altro e ora l'unica cosa che gli premeva era vincere la guerra, poco importava in favore di chi e contro chi altro. Se Carlo reagiva con le parole al disastro di Poppi, Bartolomeo aveva già in mente di reagire con il ferro e con il fuoco.

“Comunque...” fece l'Orsini, notando come anche lo zio paresse pensarla come il Montefeltro: “Io credo che Astorre Baglioni non sia normale. Poppi non sarebbe mai caduta e quello che ha fatto non è stato un gesto eroico, ma di follia.”

“Tenere aperto quel portone usando la sua spada?” chiese Guidobaldo, sedendosi su uno sgabello posto nell'angolo più caldo del padiglione: “Diciamo che è stato un gesto azzardato, ma non lo definirei degno di un pazzo. Vostro padre Virginio, da ragazzo, sapeva fare anche di peggio.”

A quelle parole, Carlo guardò verso l'Alviano che, però, non diede cenno di voler smentire quelle parole. Così, ancora scuotendo incredulo il capo, lasciò il tendone e non si prese nemmeno il disturbo di congedarsi con un saluto.

“Imparerà a starsene più calmo.” soppesò il Montefeltro, tanto per non stare in silenzio.

“È figlio di suo padre.” ribatté Bartolomeo e anche lui uscì dal padiglione, per andare a parlamentare con alcuni altri comandanti, lasciando Guidobaldo a chiedersi cosa di preciso volesse intendere con quell'affermazione.

 

Giovannino quella sera sembrava voler richiamare l'attenzione della madre più del solito. Più la donna si isolava nei suoi pensieri, più il piccolo la tirava per la manica e cercava di farla concentrare su di sé.

Balbettava quelle che nella sua testolina dovevano essere parole dal senso compiuto, ma in realtà tutto quello che faceva era esibirsi in qualche disarticolato insieme di vocali.

Insistente com'era, alla fine riuscì a strappare la donna dalle sue preoccupazioni e ottenne la tanto sperata attenzione, anche se non nella forma in cui forse aveva immaginato.

“Ha pianto ancora per i denti?” chiese a un certo punto Caterina, controllando la bocca del figlio con una grazia che sarebbe stata più adeguata a un allevatore di cavalli che a una madre.

La balia avrebbe voluto dirle di essere più gentile, ma Giovannino, i suoi piccoli incisivi in vista, non pareva infastidito da quei modi un po' bruschi. Anche se la Contessa gli stava passando in rassegna gli alveoli un po' arrossati, che promettevano la pronta nascita di almeno altri due dentini, il bambino non osava lamentarsi. Forse gli bastava essere al centro dell'attenzione della Tigre. Tutto il resto erano meri dettagli, per lui.

“Non sembrerebbe, mia signora. Sopporta molto bene il dolore. Altri bambini, al suo posto, strillano come pazzi.” rispose la domestica, che sapeva ben riconoscere i pianti da dolore da quelli di capriccio.

Anche se il piccolo Medici si prodigava nel romperle le orecchie con quelli del secondo tipo, quelli del primo pareva non sapere nemmeno cosa fossero.

“Bravo il mio Giovannino – gli sussurrò la Sforza, fissando negli occhi il figlio, che le sorrise di rimando, mostrando ancora una volta la sua dentatura in via di sviluppo – sai già sopportare il dolore come un uomo. Non sai quanto ti servirà, quando sarai grande...”

La balia, che pur fingeva di non ascoltare ciò che la Contessa bisbigliava al figlio, andò avanti a ricamare come nulla fosse, ma trovò quell'affermazione tanto cupa e agghiacciante che per un istante le tremarono le dita.

Non capiva perchè mai la Leonessa dovesse sempre fare così. Era una donna ruvida, questo lo sapevano tutti, ma con un bambino di appena sette mesi...

Caterina passò ancora qualche minuto a controllare il figlio, e quando fu sicura che fosse in salute come sempre, lo mise a dormire e si congedò dalla serva con un severo: “Se dovesse piangere, stanotte, vi prego di cercare Bianca. Io avrò da fare.”

“Come volete, mia signora.” annuì la balia, che, conoscendo le abitudini della sua padrona, poteva ben intuire il reale motivo di quella richiesta.

Quando arrivò alla sua camera, quella che condivideva con i suoi amanti, la Sforza trovò in corridoio Ottaviano Manfredi e, senza troppe cerimonie, gli fece segno di seguirla dentro.

L'uomo si era messo addosso gli abiti migliori che aveva con sé e aveva anche cercato di pettinarsi i selvaggi capelli biondi, con l'unico risultato di far sorridere ironica la Tigre, che, accortasi di tutte quelle premure, mentre accendeva qualche candela in più, gli ricordò: “Dobbiamo anche parlare d'affari. Anzi, dobbiamo soprattutto parlare di affari.”

Il faentino si sedette sul letto, accavallando le lunghe gambe e annuì: “Lo so. Non me lo sono dimenticato.”

Più per non distrarsi che per altro, la Contessa preferì restare sulla sedia della scrivania, fronteggiandolo. Se gli si fosse messa accanto, temeva, avrebbe ceduto alla tentazione troppo presto.

Quello che aveva tanto temuto qualche anno addietro, poco dopo la morte di Giacomo, stava capitando. Si era chiesta molte volte cosa sarebbe capitato, se avesse dovuto trattare di guerre e affari con un comandante o un capo di Stato di bell'aspetto.

Con Manfredi aveva già passato il Rubicone una volta e sapeva che non sarebbe stata l'ultima. E dunque restare oggettiva si stava dimostrando molto difficile. Anche se, appena il faentino cominciò a parlare in termini di freddi numeri e probabilità, Caterina trovò di colpo più facile seguire il senso del discorso e dimenticarsi per un po' delle spalle larghe e del bel viso che aveva davanti.

Ottaviano le fece una panoramica della situazione molto lucida e anche molto schematica, sintomo delle notti passate insonne a speculare sulla sua situazione.

Fu solo dopo che l'uomo ebbe concluso la sua introduzione ai fatti che la Contessa si decise a prendere la parola: “Da quello che mi dici, a parte qualche vecchia conoscenza, qualche fedele uomo d'armi e il tuo cognome... Tu non hai nulla. Mentre io dovrei metterci denaro e soldati.”

L'altro sospirò e deglutì, prima di dire: “Detta così, non suona bene, Tigre.”

“L'avrai detto con parole migliori tu, ma di fatto è chiaro che per prendere Faenza e far fuori tuo cugino ti serviresti del mio esercito e della mia protezione.”

“Però dimentichi che sarei disposto, in seguito, a fare di Faenza uno Stato completamente assoggettato al tuo.” fece notare Ottaviano, sollevando l'indice e inarcando le sopracciglia, per rimarcare il concetto.

“Che assurdità.” sbuffò la donna, incrociando le braccia sul petto: “A che scopo, allora, vorresti spodestare Astorre? Per essere un mio servo? Mi pare insostenibile, come ipotesi.”

Manfredi si alzò dal letto, nervoso, e spiegò: “Io mi conosco e so di non essere un politico abbastanza fine da poter tenere in piedi uno Stato piccolo come Faenza. Paradossalmente, è più facile regnare su un Ducato come quello di Milano che non su pochi ettari di terra, che rischiano di continuo di essere presi da questo o quest'altro.”

Caterina non disse nulla. Capiva il suo ragionamento. A volte l'aveva fatto anche lei. Le bastava l'esempio di suo zio Ludovico, che si stava dimostrando uno dei politici peggiori d'Italia eppure riusciva a stare a galla proprio grazie alle considerevoli dimensioni del suo Stato. Se invece di Milano avesse avuto tra le mani Imola e Forlì, probabilmente sarebbe stato spazzato via al primo colpo di vento.

“Io ho una buona spada.” riprese Manfredi, mettendosi davanti alla Leonessa, che lo fissava con uno sguardo difficile da decifrare: “E so tenere la testa a posto, quando mi conviene. Se mi aiutassi a riprendermi Faenza, diventeremmo una potenza. E poi sono anche diventato amico di tuo figlio Ottaviano, mentre eravamo nel pisano. Pensaci: i due signori di queste terre uniti da un'alleanza fondata sull'amicizia e il reciproco rispetto.”

“Mio figlio Ottaviano non sarà mai il signore del mio Stato.” ribatté glaciale la Tigre.

Quell'affermazione ebbe il potere di zittire il faentino per un bel po'. Gli pareva una considerazione priva di senso, soprattutto perchè sulla carta Ottaviano era già il Conte e il signore di quelle terra e sua madre faceva solo da reggente. E siccome ormai l'età del Riario non era più una scusa sostenibile, si diceva che lei ne facesse le veci mentre lui era in guerra. Ma prima o poi, Dio piacendo, il Conte Riario dalla guerra sarebbe tornato e a quel punto...

“A chi lascerai il tuo Stato?” chiese Manfredi, capendo che la donna che si trovava davanti tutto era fuorché un'ingenua.

Se aveva detto quel che aveva detto, significava che nella sua mente era da tempo delineato un piano ben preciso. Se volevano essere alleati, allora era necessario che anche Ottaviano sapesse.

“A Galeazzo.” rispose la Sforza, senza esitazioni: “Lui è il più intelligente e quello più emotivamente stabile. Il suo unico problema è essere ancora troppo giovane. Se dovessi morire adesso, non avrebbe scampo. Lo sbranerebbero come fosse un topolino in mezzo a una banda di gatti randagi.”

L'uomo tornò a sedersi sul letto, massaggiandosi la fronte. Quella rivelazione cambiava non poco la sua prospettiva e rendeva la campagna contro Astorre ancora più complicata.

“Hai una mappa della zona sottomano?” chiese a un certo punto il ventiseienne, colto da una serie di piccoli dubbi che voleva fugare il prima possibile.

La donna annuì e prese dalla cassapanca una piccola mappa. Si andò a sedere accanto a lui sul letto e, spiegando la pergamena sulle ginocchia, i due cominciarono a discutere.

 

“Sì, per Dio, lo riconosco!” sbottò il riminese Niccolò Marcheselli, alzandosi di scatto dalla panca dell'osteria e battendo il pugno sul legno con tanta forza da farsi quasi male da solo.

Aveva puntato, a qualche tavolo di distanza, Alberto Aldovrandini e tanto gli era bastato per esplodere.

Sotto gli occhi annacquati dal vino e dall'incredulità degli altri avventori – quasi tutti soldati o forlivesi o al seguito di Fracassa – Marcheselli raggiunse l'Aldovrandini e lo prese per la collottola, costringendolo ad alzarsi: “Tu! Cane! Sei parente della madre di quel mostro!”

Alberto era stato talmente preso alla sprovvista da faticare perfino a mettere insieme due parole di fila, perciò, prima di riuscire a reagire fece in tempo a prendersi uno sputo in faccia da parte del riminese.

“Pandolfo Malatesta, il figlio della tua parente Elisabetta, ha rapito e fatto scempio di una mia parente! Te la ricordi? Ti ricordi di quello che è successo?!” ululava Marcheselli, mentre tutta la locanda taceva.

Gaspare Sanseverino, che se ne stava in un angolo con una donna a poco prezzo seduta sulle sue ginocchia, sospirò e abbandonò il boccale di birra che stava bevendo. In fondo quel riminese era un suo soldato. Spettava a lui riportarlo all'ordine, quale che fosse il motivo di quella sfuriata.

Spostò la ragazza – ringraziando la sorte di non averla già pagata – e andò verso i due uomini: “E allora? Che significa?”

“Questioni di famiglia.” rispose Niccolò, tenendo lo sguardo fisso sul suo rivale.

“È così?” domandò Fracassa, rivolgendosi all'altro.

Suo malgrado, anche Aldovrandini annuì, e così il Fracassa decise di non indagare oltre e concluse, perentorio: “I vostri problemi li dovete risolvere senza coinvolgere altri. Se scoppiasse una rissa qui dentro, ubriachi come sono tutti, fareste dei morti e in tempo di guerra non si tollerano i morti per rissa. Risolvetela per conto vostro.”

Il Sanseverino aveva parlato a voce bassa, ma il silenzio tutt'attorno era tale che i due contendenti non si fecero ripetere nemmeno una sillaba.

Gaspare non voleva problemi, mentre erano a Forlì. Sarebbe partito nel giro di un giorno scarso alla volta di Firenze. Voleva solo che le sue ultime ore di permanenza nella città della Tigre fossero tranquille.

“E va bene.” soffiò Marcheselli, per poi dare uno strattone ad Aldovrandini: “Vi sfido a duello, allora. Domani. Se siete un uomo, vi presenterete.”

A quel punto i presenti si rianimarono e iniziarono a inneggiare allo scontro e così ad Alberto non restò che annuire in modo secco e concedere: “Duellerò con voi, se è questo che volete.”

“Laverete via con il vostro sangue l'onta che la vostra famiglia ha gettato sulla mia.” giurò Marcheselli, prima di girare sui tacchi e andarsene.

 

La notte era ormai alta e la Tigre e Manfredi stavano ancora valutando tutte le loro possibilità, solo che, più ci ragionavano, più l'impresa appariva disperata.

“Finché i tuoi soldati saranno in parte delocalizzati verso il Casentino – terminò Ottaviano, un po' abbattuto – è una follia pensare di attaccare. Castagnino userebbe la nostra aggressione come pretesto e ci farebbe distruggere da Venezia.”

“E se provassi a chiedere un accordo proprio a Venezia?” buttò lì Caterina, per quanto trovasse l'idea molto spinosa.

“Cioè?” chiese lui, accigliandosi e voltandosi un po' di più verso di lei, facendo cigolare appena l'intelaiatura in legno povero del letto su cui stavano.

“Cioè colloquiare con un emissario del Doge e proporti come sostituto ad Astorre. A loro fa comodo un bambino da manovrare, ma se metterai in chiaro che saresti altrettanto duttile, ma capace con le armi...”

“È rischioso.” si oppose subito Manfredi: “Potrebbero anche accettare, ma dopo non riuscirei a tirarmi indietro facilmente. Vorresti una guerra tra Venezia e le nostre tre misere città? Perché stai certa che Firenze ci scaricherebbe all'istante, senza la minima esitazione.”

“Forse adesso è tardi e non ragioniamo più lucidamente.” ammise la Sforza, ripiegando la mappa con cura: “Ne parleremo ancora domani e fino a che servirà. Dobbiamo trovare un modo. Qualsiasi cosa decideremo di fare, però, andrà fatta prima di gennaio.”

“Perché?” chiese Manfredi, alzandosi per riporre la mappa di persona, per evitare alla donna di alzarsi.

“Perché Castagnino ha chiaramente detto che Bianca dovrà andare a Faenza entro e non oltre il gennaio prossimo.” spiegò lei, notando come Ottaviano, prima di rimettersi accanto a lei, avesse spento un paio di candele che stavano per finire.

“Oppure potremmo usare gannaio come pretesto. Come un cavallo di Troia.” ipotizzò l'uomo, sedendosi sul letto, molto più vicino alla Sforza di quanto non fosse prima: “Quando chiederanno Bianca, invece di mandare loro una sposa, porteremo a Faenza l'esercito.”

Caterina aveva capito quello che Manfredi voleva fare. Mentre parlava, con la mano che aveva sfiorato la coscia e aveva avvicinato il viso al suo. In fondo, pensò, ormai era tardi e avevano già parlato abbastanza.

Sorprendendo lo stesso Ottaviano, che pure si credeva già intraprendente come pochi, la donna, invece di commentare la sua ultima proposta, lo baciò e lo tirò a sé. Ben felice che per quella notte la politica paresse essere stata archiviata, il faentino rispose con entusiasmo al suo assalto e poi, lasciandosi trascinare dall'onda, le lasciò il comando, come aveva fatto la notte prima quando si erano incontrati sulle scale.

 

“Potete andare, Leonardo.” concesse Ottaviano Riario, agitando una mano.

L'uomo, uno dei soldati capaci di leggere e scrivere che Caterina aveva messo al seguito degli figlio, lasciò il padiglione del Conte con un profondo inchino e un grande smarrimento.

Il giovane Riario, per quanto avesse cercato di parlare mantenendo una certa sicurezza di sé, gli era parso terrorizzato quando gli aveva riferito che Paolo Vitelli aveva deciso di levare il campo nel giro di massimo due settimane e di portarsi nel Casentino.

Se quello che avrebbe dovuto guidarli, pensava Leonardo, tremava come una foglia, come avrebbero potuto tutti gli altri restare saldi nell'animo?

Tuttavia, dopo aver attraversato parte del campo stando attendo a non inciampare per colpa del buio, il soldato arrivò al suo tendone, che condivideva con alcuni commilitoni, anche loro capaci di leggere e scrivere. Da loro partivano gran parte dei resoconti per la Contessa e sempre loro leggevano i suoi ordini, spediti con assiduità, quasi come fosse anche lei lì a combattere al loro fianco.

“Però non c'è.” sussurrò tra sé il soldato scrivano, accendendosi una candela e mettendosi al tavolinetto da campo.

“Che hai?” chiese uno degli altri che, avendo il sonno leggero, lo aveva sentito bofonchiare.

“Nulla e tornatene a dormire.” lo zittì Leonardo.

La verità era che aveva trascurato il suo lavoro, quel giorno, proprio per poter star dietro al Conte Riario e alle sue paure. La Tigre chiedeva un resoconto continuo e quasi maniacale delle spese del suo esercito e Leonardo era l'incaricato principale di stendere i rapporti da spedire poi al piovano Francesco Fortunati, uomo che la Sforza aveva scelto come intermediario per quel genere di informazioni.

Un sant'uomo, si diceva, e Leonardo ne era convinto, dato che pareva in grado di sopportare qualsiasi cosa. La Contessa lo aveva conosciuto in uno dei conventi minori e aveva subito capito che, per quanto fosse un religioso, sarebbe stato utile più allo Stato che non alla fede e così gli aveva chiesto di prendere quel posto.

Il soldato ci pensò un po', riordinò le carte che aveva messo da parte e alla fine si rese conto che ciò che la sua signora voleva era quanto di più difficile da ottenere.

Perciò al piovano scrisse chiaramente: 'I conti, sì, ci saranno anzi ci sono, ma si trovan tutti confusi in un fascio. Immaginate un campo ove sia stato seminato contemporaneamente grano, orzo, avena, fava, fagioli, lupini et cetera e che tutto sia poi nato e cresciuto alla rinfusa, come si fa a mietere ciascun prodotto da sé?'.

In più, ricordandosi dell'ultimo avvertimento della Contessa, che voleva che venissero controllati tutti i cavalli che aveva comprato per i suoi uomini, aggiunse che tra quelli non v'erano solo cavalli di razza spagnola o della Fiandra, ma anche un leardo che, come voleva la Tigre, sarebbe stato al più presto rimandato a Forlì.

'Son atterrito dall'esattezza d'amministrazione che impone la Contessa – concluse Leonardo, senza riuscire a trattenersi – e adunque, piovano caro, non so darmi pace'.

 

“Sei pieno di cicatrici...” sussurrò Caterina, passando lentamente due dita sul petto di Manfredi.

Quando l'aveva voluto la prima volta, nel buio delle scale, lui non si era spogliato e quindi non aveva potuto vedere altro se non un paio di graffi sulla base del collo.

Ora, invece, che lo stava rimirando nudo, alla luce del camino, poteva vedere come la pelle del suo petto, del suo addome, degli arti e – come aveva potuto osservare a lungo prima – della sua schiena fosse coperta da cicatrici di ogni forma e misura.

Manfredi fece un suono gutturale, a mo' di conferma, e poi, posando gli occhietti azzurri sul corpo della donna, ribatté: “Tu, invece, anche se hai quasi quarant'anni, sembra una donna di venti.”

“Ne ho ancora trentacinque, di anni.” si schermì lei, riscoprendosi sensibile a uno strano narcisismo, molto simile a quello che a volte la prendeva quando era la moglie di Giacomo, un uomo più giovane di lei di otto anni.

Sapeva, essendo informata a dovere, che Manfredi ne aveva addirittura nove meno di lei e questo, in certo senso, la faceva sentire a disagio. Fosse stato uno dei soldati che si prendeva per una notte e basta, non vi avrebbe fatto caso. Ma con lui, c'era qualcosa di diverso che la portava a trovare la loro differenza d'età scocciante.

“Te le sei fatte in battaglia?” chiese Caterina, continuando ad accarezzarlo lentamente, seguendo le vie imperfette create dalle cicatrici.

“Sì.” annuì Manfredi, senza esitazione.

“Non mentirmi.” lo mise in guardia la Sforza, smettendo di saggiare la sua pelle e appoggiando la testa al suo petto.

La risata che echeggiò nella gabbia toracica dell'uomo la rimbombò nell'orecchio che teneva contro il suo sterno, ma non le diede fastidio.

“Va bene...” fece Ottaviano, allegro: “Me le sono fatte quasi tutte buttandomi in mezzo a delle risse. Sì, risse, soprattutto risse. Ho avuto una vita un po' strana.”

“Sei un rissoso.” parafrasò la Tigre, aderendo un po' di più a lui.

Fuori fischiava il vento e probabilmente si era rimesso a nevicare. Sentire la pelle rovente del suo amante contro la sua la faceva sentire viva. Non al sicuro, ma moderatamente protetta. Si stavano scaldando a vicenda, tranquilli, senza avere fretta né di separarsi, né di unirsi di nuovo. Era una sensazione che Caterina non provava da tempo.

Le coperte erano rimaste in fondo al letto, arruffate e ingarbugliate, esattamente come erano stati fino a poco prima la Leonessa e l'esule faentino. Le candele si erano spente tutte, una dopo l'altra e anche le fiamme nel camino si stavano affievolendo, man mano che la notte avanzava.

“Sì – ammise Manfredi – sono un rissoso.”

“In un certo senso, la sono anche io.” disse piano la donna, senza traccia della leggerezza che invece aveva sospinto le parole dell'uomo.

“Ecco perché andiamo così d'accordo, allora.” commentò Ottaviano, anche lui, questa volta, senza sorridere.

Dopo un lungo silenzio, rotto solo dal grido di qualche uccello notturno che doveva essere passato accanto alla finestra, la Contessa sussurrò: “Certo che sarà molto più difficile di quel che pensavamo...”

“La vita di gente come noi è difficile fin da quando nasciamo. C'è sempre qualcuno che vuole ucciderci o che teme di essere ucciso da noi. Il prezzo del sangue nobile.” sospirò il faentino, scostando una ciocca di capelli bianchi dal viso della sua amante.

“Sai, a volte Giacomo mi diceva che avremmo dovuto mollare tutto e andare a vivere da soli in un angolo sperduto del bosco. Diceva che lui avrebbe lavorato la terra e che io avrei cacciato e avremmo vissuto di quello che ci saremmo procurati così.” raccontò la Leonessa, sorprendendosi per prima di riuscire a parlare in modo tanto disteso del suo secondo marito: “In pratica, conoscendolo, avremmo vissuto solo di selvaggina.”

Manfredi colse la battuta e ridacchiò, ma poi chiese: “Era davvero un tipo come mi stai lasciando intendere?”

“Temo di sì.” rispose a voce bassa la Contessa.

“Quando sono stato a San Girolamo, ho visto la sua tomba.” il tono del faentino era difficile da capire, ma la domanda che seguì irrigidì Caterina abbastanza da indurla a mettersi seduta: “È per lui che hai ucciso così tanta gente, vero?”

“I colpevoli andavano puniti.” si difese la donna, buttando le gambe oltre il bordo del letto, dando le spalle all'altro.

“Ma i mandanti non erano i tuoi figli?” chiese Ottaviano, sedendosi a sua volta e avvicinandolesi, sperando che posare le sue labbra sulla sua schiena liscia bastasse a calmarla e a farle rispondere a tutte le sue domande.

“Sì.” confermò lei, scostandosi un po' per sottrarsi ai suoi baci.

“E perché non li hai puniti?” quell'ultimo quesito fece scattare la Tigre.

Alzandosi di colpo, la donna si chinò a raccogliere gli abiti di Manfredi e glieli gettò addosso, indicando la porta: “Hai parlato anche troppo. Puoi andartene. Andremo avanti a discutere di come prenderci Faenza quando avrai imparato a tenere a freno la lingua.”

Ottaviano sbuffò, infastidito da quell'improvvisa ritrosia, ma prese i suoi vestiti e, infilatosi le brache, andò verso l'uscio, soggiungendo: “Non me la prendo solo perché sei tu, Tigre.”

Caterina rimase ferma al suo posto, guardandolo uscire e poi, appena fu certa che si fosse allontanato, si rivestì anche lei, spense il camino e lasciò la sua tana da fiera per tornare nella camera che era stata sua e di Giovanni.

Spogliatasi di nuovo, si infilò sotto le spesse coperte e, lo sguardo alla finestra che lasciava intravedere la nevicata appena iniziata, cercò di calmarsi, fino ad assopirsi.

 
   
 
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