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Autore: Horror_Vacui    18/08/2018    2 recensioni
Cosa succede quando sei l'uomo sbagliato al momento sbagliatissimo? E se il momento sbagliato è proprio una guerra tra i due gangster più potenti di New York?
Tra intrighi di potere, assassini di professione e debiti da saldare, l'unica cosa che si può fare per sopravvivere è imparare le regole del gioco prima di eliminati.
Dal testo:
"Prese alcune fette di pane e ci spalmò sopra del burro d'arachidi. Lei nel frattempo si era seduta sul bancone e lo osservava incuriosita. Sotto il cardigan indossava dei semplici pantaloncini di cotone e una canottiera sottile. Aveva gambe lunghe e occhi da gatta, profumava di lavanda e biscotti: le pericolosa ragazza della porta accanto."
*Basato sull'omonimo film di Paul McGuigan, conosciuto in Italia con il titolo "Slevin - Patto criminale"*
Genere: Commedia, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Chris Argent, Malia Hale, Nuovo personaggio, Peter Hale, Stiles Stilinski
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Raccolse il giornale che il postino aveva lasciato sullo zerbino e lo usò per asciugare il sangue che aveva ripreso a colare a causa dello sbalzo di temperatura, dal caldo dell'appartamento del Boss al freddo gelido di New York. Il naso gli pulsava più di prima e il dolore si irradiava a tutta la testa.
Andò dritto in bagno – lì aveva visto delle medicine –, prese un antidolorifico e tornò in salotto.
C'era ancora uno dei panini che non aveva finito di mangiare, si lasciò cadere sul divano e lo agguantò, affamato come un leone nel deserto.

Aveva un sacco di informazioni da elaborare, gli serviva un po' di calma per riflettere sul da farsi, ma Malia spalancò la porta ed entrò nell'appartamento.
Indossava dei pantaloncini di jeans scuri, un maglione largo rosa antico, calze parigine nere e un paio di stivali sotto il ginocchio pieni di lacci e borchie. I capelli lunghi le incorniciavano il viso leggermente truccato. Restò ipnotizzato per qualche secondo dal luccicare del gloss sulle sue labbra.

Una persona normale non avrebbe notato così tanti dettagli in poco tempo, ma lui non era una persona normale.
«Nick non si è visto, eh?» gli chiese, aggrappata con entrambe le braccia agli stipiti della porta.
«No» tossì con la gola in fiamme.
Malia fece una faccia stupita e le braccia le ricaddero lungo i fianchi.
«Ancora con l'asciugamano? Vuoi aggiungere una polmonite alla lista dei tuoi problemi?»
«Ah, Malia, è una storia lunghissima» si passò una mano tra i capelli ribelli.
«Be' vestiti, me la racconti mentre andiamo».
Scosse la testa confuso. «Mentre andiamo? Dove andiamo?»
«Noi sappiamo solo che qualcuno ha chiamato Nick dall'hotel Cheval. Ho parlato con un'amica che ci lavora, dice che prendono nota di tutte le chiamate e che può accedere al computer e scoprire da quale camera è partita. Mi chiama da un momento all'altro» spiegò brevemente, ma l'attenzione di lui era stata catturata dall'articolo in prima pagina, appena sotto la macchia di sangue con cui aveva sporcato il giornale.
Questo particolare non sfuggì a Malia, che sgattaiolò sul divano al suo fianco.
«Che c'è?» gli chiese, piegando il collo per sbirciare l'articolo.
«Io questo lo conosco» indicò la foto in bianco e nero di Slim Hopkins.
«Conosci quell'uomo?!»

«Sì, l'ho incontrato, ma era morto» disse dandole il giornale.
Malia non sembrò impressionata da quell'affermazione.

«Hai incontrato un morto?»
«Sì, era in una cella frigorifera» disse e tornò al suo panino, facendone fuori metà con un morso.
Malia aprì il giornale e lesse ad alta voce.
«La moglie dell'allibratore Slim Hopkins ne ha denunciato la scomparsa, la polizia non ha indizi, bla bla bla... ah! Un portavoce ha commentato ufficiosamente:“È il colmo che Hopkins sia scomparso, visto che è sospettato di essere responsabile di alcune scomparse”».
Quando ebbe finito gli prese il panino dalle mani e lo costrinse a guardarla negli occhi.

«Senti, è ora che mi racconti perché indossi ancora quell'asciugamano».
«Posso almeno vestirmi?» le fece l'occhiolino.
Malia mise giù i resti del panino e si alzò in piedi.
«Va bene, te lo concedo».
«Grazie tante».
Prese un paio di pantaloni, una camicia e un gilet di lana con il collo a V dalla valigia, poi andò in camera da letto a vestirsi. La sentì canticchiare qualcosa, una canzone familiare ma di cui non riusciva a ricordare il titolo. Quando ebbe finito uscì in corridoio in cerca delle scarpe, Malia gli restituì l'occhiolino e stava per dire qualcosa, quando un telefono squillò in lontananza.
«Oh! Dev'essere la mia amica, torno subito!» disse scappando via.
Lui sospirò passandosi di nuovo una mano tra i capelli e vide con la coda dell'occhio la sua immagine riflessa nello specchio appeso all'entrata. Doveva fare qualcosa per quel naso, cominciava ad essere insofferente alla sensazione di chiusura, come se fosse raffreddato.
Si arrotolò le maniche fino ai gomiti, poi andò in cucina, mise del ghiaccio dentro un tovagliolo e lo appoggiò alla base del naso, infine raccolse tutte le sue energie e lo raddrizzò con le dita. Il dolore quasi lo fece svenire e dovette appoggiarsi alla parete di fronte per non cadere.
Si rimise in piedi ansante, giusto in tempo per sentire bussare alla porta.

«No Malia, secondo me non è una buona idea che continuiamo...» disse aprendola, ma per la seconda volta fu sorpreso di trovare qualcun altro sul pianerottolo.
Due ebrei ultra-ortodossi, per niente contenti di vederlo, lo guardarono dalla testa ai piedi senza muovere un muscolo. Uno dei due era senza capelli, portava la kippah e aveva un mezzo sorriso enigmatico, l'altro aveva i classici riccioli ai lati del viso, il cappello nero a tesa larga e gli occhi più grandi e sporgenti che avesse mai visto.

«Mettiti le scarpe, Shlomo vuole vederti» disse il primo con tono neutro.
«Mi dispiace, ma non conosco nessuno Shlomo».
«Ma c'è uno Shlomo che conosce te, non c'è altro da sapere. Andiamo».
«Come ho già detto non conos...» la frase fu interrotta a metà da un pugno dritto allo stomaco che gli mozzò il respiro. Era stato occhi-a-palla a sferrare quel destro micidiale.
Si appoggiò allo stipite, piegato in avanti in cerca d'aria.
«Io credo che sia meglio che lasci parlare me» proseguì il tizio pelato.

«Tu credi?» disse con un filo di voce.
Cinque minuti dopo era di nuovo su una macchina con degli sconosciuti, diretto chissà dove.
Occhi-a-palla guidava rigido come un pezzo di legno, senza staccargli gli occhi di dosso attraverso lo specchietto retrovisore. Che ne avesse due paia per guardare anche la strada?
Ad un certo punto fece un breve cenno della testa verso di lui.

«Cosa c'è?» gli chiese il pelato.
Lui non disse niente ma rifece lo stesso cenno, l'altro allora si voltò indietro.
«Gli dispiace averti picchiato» disse come se fosse una cosa normale.
«Parli sempre per lui?»
«Sì».
«Mmh, capisco. Allora è muto».
«Non proprio».
«E perché?»
«È personale, chiedi a lui».
«Ah sì, e come me lo dice?»
«Non lo dice».

Svoltarono a sinistra ed ecco spuntare i palazzi gemelli dove solo un'ora prima aveva incontrato il Boss.
«Ehi, andiamo da...?» cominciò a dire, ma il pelato interruppe la sua domanda sul nascere.
«No».
«Ma lui è lì».
«Questa è un'altra organizzazione» disse e indicò il palazzo gemello di fronte a quello del Boss.
«Cos..? Uno di fronte all'altro?!»

«Un tempo lavoravano insieme, poi hanno cercato di uccidersi. Ora nessuno dei due esce più, nessuno lascia la propria torre per paura di quello che l'altro può fare».
La hall del palazzo di Shlomo era molto più elegante e ricercata di quella del Boss, gli elementi predominanti erano il cristallo, il marmo e i colori nero, bianco e oro.
Slevin si sentiva un esperto in materia ormai, perciò si diresse tranquillo verso l'ascensore.
«Lasciami indovinare: ultimo piano?»
«Sì» disse lo scagnozzo pelato, prima di premere il pulsante che li avrebbe portati all'attico.
L'appartamento era grande come quello del Boss, ma si respirava un'aria completamente diversa, molto più solenne, come quella di un tempio. Stelle di David dorate decoravano ogni angolo, il marmo nero rivestiva il pavimento e le pareti erano abbellite da motivi geometrici sui toni del grigio e dell'oro. La musica delicata di un pianoforte suonava attraverso un vecchio grammofono.
In mezzo alla sala principale vi era un tavolo esagonale di cristallo e lì seduto c'era un uomo calvo, con un buffo pizzetto e un naso lungo, che prendeva il tè. Quando lo vide entrare prese il tovagliolo bianco che aveva sulle gambe e si pulì la bocca.

«Devi essere il signor Fisher» lo interpellò, mentre ripiegava con cura il tovagliolo.
«Devo proprio? Perché è un po' scomodo ultimamente» si strinse nelle spalle.
«Ho paura che tu debba proprio» rispose il boss con tono duro.
«Be', se devo proprio...»
«Sai perché sei stato portato qui?» gli domandò guardandolo dritto negli occhi.
«Ehm, perché sono sfortunato?» provò a sorridere.
«Gli sfortunati sono soltanto un metro per i fortunati» disse Shlomo, accompagnando ogni parola da un ritmico gesto della mano, quasi tenesse il tempo durante la lettura dei testi sacri.
«Tu sei sfortunato, così io so di non esserlo. Sfortunatamente i fortunati riconoscono la fortuna solo quando la perdono. Prendi te stesso per esempio: ieri stavi meglio di oggi eppure ti ci voleva oggi per capirlo, ma oggi è arrivato e ora è tardi, hai visto? Nessuno è mai contento di ciò che ha, vogliono tutti quello che avevano, quello che ha qualcun altro».
Slevin lo guardò interdetto, non riuscendo a capire dove volesse andare a parare.
«Un po' come un rabbino che vorrebbe essere un gangster e un gangster che vorrebbe essere un rabbino. Insomma, cos'è la solita storia che l'erba del vicino è sempre più verde? E lei come giustifica il fatto di essere un rabbino e un gangster?»
Una vena guizzò sulla tempia glabra del Rabbino.

«Non lo faccio. Sono un malvagio che non perde tempo a chiedersi come poteva essere, sono quello che poteva essere e quello che non poteva essere. Io vivo qui e dal vicino, la mia erba è sempre verde. Considera, signor Fisher, che qui ci sono due uomini davanti a te e di uno dovresti avere timore. Dove sono i miei soldi?»
«Me lo chiedete in molti, ma io sono so di cosa...»
«Mio padre me lo diceva sempre: la prima volta che ti chiamano asino gli dai un pugno sul naso, la seconda volta che ti chiamano asino gli dici stronzo, ma la terza volta che ti chiamano asino, be' forse è ora che ti vada a comprare una soma».
Non sapeva più come spiegare di non essere Nick, la situazione era paradossale e chiaramente nessuno gli avrebbe creduto, tanto valeva prenderla di petto...
«Io non ho i suoi soldi» ammise con candore.
«Non stiamo parlando di saltare un pagamento. Tu mi devi dei soldi, io li devo a qualcuno: tu devi loro dei soldi».
«Io non so neanche quanto le devo!»
«Trentatremila dollari».
«Ma io non sono Nick Fisher!» esclamò sull'orlo dell'esasperazione.
«E chi diavolo sei?»
«Uno nel posto sbagliato al momento sbagliatissimo».
Il Rabbino giocherellò per qualche secondo con la tazza vuota, poi sollevò lo sguardo su di lui.
«Hai 48 ore per portarmi i miei soldi. Saul ti terrà d'occhio nel frattempo, ora puoi andare».
Saul, il pelato che lo aveva accompagnato, lo prese sottobraccio per portarlo via, ma lui tornò indietro.

«Ah, un'ultima domanda! Perché non mi hanno perquisito?»
Il Rabbino spostò il costoso servizio da tè ed estrasse un fucile a canne mozze da sotto il tavolo, puntandoglielo dritto al petto senza scomporsi.

«Ho capito, quindi essere un rabbino, un uomo di fede è...»
«Ci sono tre cose che un ebreo non può fare per salvare una vita, compresa la propria: non può adorare gli idoli, non può commettere adulterio e compiere un omicidio premeditato. Perciò ucciderti prima che tu uccidi me sarebbe...»
«Kosher?»
«Direi accettabile».

Slevin lo salutò con un mezzo inchino e andò via scortato da Saul e da Occhi-a-palla.
Il Rabbino mise via il fucile e si pulì le mani col tovagliolo, mentre una figura in impermeabile usciva dall'ombra.
«Metà dei suoi soldi sono già sul suo conto alle Cayman, l'altra metà l'avrà quando il nostro amico sarà sotto terra. Quando pensa che potrà accadere?»
«Presto» fu la laconica risposta.
«Bene, allora mi dica cosa vuole da quel ragazzo?»
«Abbiamo un conto in sospeso» rispose e fece per andarsene.
«Sa, se c'è una cosa che capisco è quando qualcuno sta mentendo. Per un uomo nella mia posizione è essenziale riconoscere subito una bugia, potrebbe salvare una vita, la tua o quella di un altro. Detto questo, però, lui non mentiva: non è Nick Fisher».
Ci fu una lunga pausa.

«Lo so».


*


Tornò all'appartamento di Nick con un altro debito da saldare sulle spalle. Le luci erano tutte accese e qualcuno stava trafficando in cucina. Sperò si trattasse di Malia e, quando varcò la soglia, tirò un sospirò di sollievo vedendo i lunghi boccoli castani muoversi con leggerezza.

«Bentornato straniero. Credevo fossi finito nello stesso buco in cui è finito Nick» gli disse puntandogli contro un mestolo sporco.
«Magari...» sussurrò lui tra i denti.

«Ora mettiti a sedere, ho preparato della zuppa».
«Hai preparato o hai comprato della zuppa? L'odore è invitante» disse sedendosi al tavolo.
Malia lo guardò di traverso mentre le labbra si piegavano in un sorrisetto e l'imbarazzo le colorava le guance. Versò una generosa dose di zuppa in entrambi i piatti, poi mise in tavola un cestino di crostini, due cucchiai, due bicchieri e una brocca d'acqua.
«Be', diciamo che l'ho comprata e la stavo scaldando per entrambi, sperando che prima o poi tornassi, ad un certo punto. Oggi ho avuto molto da fare» confessò sedendosi anche lei.
«Del tipo? Che hai combinato?» disse, annegando tre crostini nel piatto.
«Sono tornata quasi subito, ma tu non c'eri più, così sono andata dalla mia amica senza di te. Dice che hanno chiamato Nick dalla stanza 1009, un uomo registrato con il cognome “Argent”, pensa un po' che roba. Salgo al decimo piano e, proprio mentre arrivo, si apre la porta della 1009 ed esce il nostro Argent in carne e ossa! Allora faccio finta di andare verso l'ascensore, invece che venire da lì, e scendiamo insieme. Lui mi sorride e io sorrido a lui, non so ancora chi sia, ma penso che forse tu lo sai, così fingo di fare una telefonata e gli faccio una foto col cellulare. L'ho sempre considerato uno spreco, perché con il mio modello preistorico le foto vengono uno schifo e non le faccio mai... insomma, adesso abbiamo un volto! E non si accorto di niente» tirò fuori il cellulare dalla borsa e gli mostrò la foto. «Ecco Argent, lo riconosci?»
Era così arguta e brillante, gli venne spontaneo sorridere alla vista di quella prova. Stavano davvero lavorando a un caso ora?
«No, mai visto» fu costretto ad ammettere.
«Lo immaginavo, ma valeva la pena tentare».
La delusione sgonfiò l'entusiasmo di Malia come un palloncino, così mise da parte il telefono e tornò a mangiare la zuppa con i crostini, guardandolo di sottecchi. Nonostante tutto la luce furbetta nei suoi occhi non si era ancora spenta.

«Che c'è? Perché mi guardi in quel modo?» le sorrise apertamente.
«Io e il signor Argent siamo scesi al piano terra insieme e lui è uscito al volo e si è infilato in un taxi... e così l'ho seguito. È entrato in un palazzo in centro e allora io l'ho aspettato e, dopo un'ora, proprio mentre sto per andarmene, chi esce da lì?»
«Argent?»
«Tu!» sollevò un sopracciglio e arricciò le labbra.
L'aveva raggirato e condotto in trappola, gli aveva chiesto di scoprire le carte nascondendo accuratamente le sue. Davvero brillante.

«Come io?»
«Tu, da quello stesso palazzo, con due ebrei ortodossi ai fianchi. Amici tuoi?» gli chiese stringendo le palpebre con fare indagatore.
«Non precisamente» sospirò sconfitto.
«Penso sia ora che mi racconti tutto» disse appoggiandosi allo schienale della sedia, con le braccia incrociate al petto.
Lui mise da parte la zuppa e si alzò in piedi per riordinare le idee, Malia lo seguì e si sedette sul ripiano della cucina come aveva fatto quella mattina.
«Dunque, c'è un uomo che chiamano il Boss e nel palazzo di fronte c'è un uomo che chiamano il Rabbino».
«Perché lo chiamano il Rabbino?»
«Perché è un rabbino».
«Mmh, banale».

«Comunque, stamattina sono venuti due scagnozzi del Boss e mi hanno portato via in asciugamano e pantofole. Ho incontrato il Boss e ho scoperto che Nick ha con lui un debito da 96.000 dollari. Ho provato a dirgli che non sono Nick, ma a lui non importa. Vuole i suoi soldi entro due giorni, oppure mi uccide. Suo figlio però è stato ucciso di recente, lui pensa sia stato il Rabbino e per vendetta vuole ripagarlo con la stessa moneta. Ecco perché mi ha offerto un patto: dato che non ho tutti quei soldi, salderò il debito uccidendo io stesso Ytzchok, il figlio del Rabbino, detto “la Fatina”».
«Aspetta, non dirmelo. Lo chiamano così perché è gay?»
«Già, proprio così».

«E i due ortodossi?»
«Oggi Nick ha fatto bingo. Dopo essere tornato a casa sono arrivati quei due a prelevarmi, di nuovo. Erano tirapiedi niente di meno che del Rabbino. Nick gli deve più di 30.000 dollari e lui li vuole entro due giorni, altrimenti...»
«Ti uccide» finì lei lapidaria.
«Esatto e quindi adesso, per usare il loro gergo, devo fare secco “la Fatina”, per poter azzerare un debito che non è neanche il mio e, come se non bastasse, devo mettere insieme 33.000 dollari. Io... io non so chi sia il signor Argent e il peggio è che non sono neanche Nick Fisher».
Si voltò a guardare Malia, che fissava il vuoto con sguardo assente, persa in chissà quale congettura.

«È assurdo, al limite del paradossale» disse dopo un po'.
«Lo so, io non gioco nemmeno».
«No, dico il figlio di un gangster che viene chiamato “la Fatina”, è assurdo. Per quanto riguarda te, siamo di fronte a un evidente caso di scambio d'identità. Queste cose non dovrebbero capitare veramente, è come l'amnesia... eppure tu sei qua e Nick non si sa che fine abbia fatto quindi direi che sei...»
«Fottuto».
«Già, lo sei. E non mi spiego una cosa» scese giù con un balzo e lo affiancò.
«Cosa?»
«Non dovresti essere più preoccupato? Sei troppo calmo, non è normale».
Slevin sollevò entrambe le sopracciglia, colto di sorpresa.
«Soffro di atarassia, è uno stato di totale mancanza di inquietudine, una forma di depreoccupazione».
«Ah, ne avevo sentito parlare, ma non credevo di poter conoscere qualcuno come te un giorno».
Lui sorrise con una punta di amarezza.

«Nemmeno io credevo di poter conoscere qualcuno come te, ma eccoci qui».
Malia si morse le labbra, all'improvviso senza parole, e si strinse nel maglione informe.

«E ora cosa farai?»
«Be', devo dare una risposta al Boss domani mattina».
«Cosa gli dirai?»
«Quello che qualsiasi uomo con due piselli direbbe a un sarto che gli chiede se lo porta sia a destra che a sinistra».
«E sarebbe?»


«Sì!» disse convinto e affondò le mani nelle tasche della giacca.
«Ah, sapevo che avevi buonsenso» disse il Boss, muovendo un pedone sulla scacchiera di cristallo.
Stava giocando con Elvis, uno degli scagnozzi che l'avevano praticamente rapito il giorno prima.
«Il buonsenso ce l'hai quando hai scelta» puntualizzò.
«Sì, il più delle volte. A volte ce l'hai quando sai di non averla» rispose e prese in mano un alfiere.
«No, non muova quell'alfiere!» disse di getto. «È una mossa troppo stupida, se non lo sposta lei vince in quattro mosse, se lo fa adesso lui le darà matto in una».
Il Boss lo guardò meravigliato.

«Lui non se ne accorgerebbe e comunque fa lo stesso: Elvis mi lascia vincere. Tutti mi lasciano vincere... ehi, un momento! Tu sai giocare bene».
Cinque minuti dopo erano davanti alla scacchiera, uno di fronte all'altro.

«Hai tre giorni» disse il Boss.
«Io pensavo più a una settimana».

«Ah! Tu hai pensato a questo? Dall'alto della tua esperienza di killer consumato».
Prese fiato per ribattere ma il Boss ebbe un'altra idea.

«Facciamo così: se vinci questa partita hai una settimana».
Accettò la sfida, non poteva far altro, anche se era in netto svantaggio e aveva poche mosse dalla sua. Elvis, Lento e gli altri bodyguard si avvicinarono per assistere alla sua sconfitta.
«Qual è il tuo piano con Yitzchok?» chiese a un certo punto il Boss.
Slevin fece una mossa pericolosa, guadagnandosi un sommesso sghignazzare da parte di Elvis.
«Be', diciamo che andrò a occhio» disse, provando a non lasciarsi distrarre.

«Meglio usare una cartina, è una strada complicata. E a proposito, ha delle ombre».
«Ombre
«Guardie del corpo che non lo lasciano mai. Militari, ex Mossad israeliano. Dove va lui vanno loro, a qualsiasi ora».
«Ex Mossad? Non la vedo tanto bene».

«Vivono nell'appartamento accanto. Lui ha una catenina con un pulsante nel ciondolo, sembra una normale stella di David, ma se lui spinge quel pulsante sappiamo come va a finire. Il tempo di reazione è dai tre ai cinque secondi, quindi dovrai colpirlo quando meno se lo aspetta».
«Dove?»
«Nel suo appartamento».
«E come entro? Non posso mica bussare ed entrare dalla porta principale».
Il volto del Boss si deformò in un ghigno sardonico.
«No, pensavo che entrassi dalla porta di servizio. Non sarà difficile ucciderlo e sgattaiolare via».

«Bel piano Goodkat, non c'è che dire. E poi che succede?»

«Lui si fa il ragazzo e io mi faccio lui. Metto la mia pistola pulita e senza precedenti in mano a Yitzchok, lo faccio sparare, così gli restano i segni sulle mani. Li spoglio tutti e due e lo faccio sembrare un doppio suicidio, del tipo “tu uccidi me, io uccido te, siamo due gay, il mondo non ci capisce”. Un lavoretto pulito come vuole lei».

«E questo è quanto?» chiese Slevin.
«Già. Oh andiamo, non guardarmi con quella faccia da cane bastonato, io non sono così cattivo in fondo. C'è chi si è fatto una fortuna con me».
«Sì, ma c'è anche chi si è fatto morto» disse senza abbassare lo sguardo.

Il Boss si piegò leggermente sul tavolo da gioco.
«Tu sei un bell'enigma. Arrivi qui e spari stronzate a raffica come se non te ne fregasse un cazzo di venire ammazzato».
Quell'affermazione aveva l'eco di una domanda.

«Può uccidermi una volta sola».
Il Boss mosse la sua regina contro il re di Slevin.

«Scacco matto! Come vedi è vero che posso ucciderti una volta sola, ma non è detto che debba farlo rapidamente. Io sono il gatto e tu sei il topo. Hai tre giorni».
In quel momento un uomo in tenuta elegante fece il suo ingresso nella sala, gli occhi azzurro cielo si fissarono su Slevin, quasi volessero trapassarlo da parte a parte. Lo riconobbe, era Argent.
«Ora puoi andare» disse il Boss alzandosi in piedi per andare incontro al nuovo arrivato.
Slevin fu condotto fuori dai suoi scagnozzi preferiti, mentre due persone su un vecchio camioncino di una ditta di riparazioni lo osservava con binocoli di precisione.
«Chi cazzo è questo adesso?» disse ad alta voce il detective Peter Hale.
L'interno di quel camion puzzava ancora di ferro e olio di motore, nonostante si fossero impegnati a ripulirlo e arredarlo come se fosse un piccolo ufficio. Il suo collega, il detective Parrish, sfogliò la sua rivista per niente toccato dalla vicenda. Era giovane, non aveva molti anni di servizio alle spalle, ma la ferita alla gamba – che lo aveva quasi azzoppato –, gli ricordava costantemente che impegnarsi era inutile in quella città, lui contava meno di zero e non poteva fare la differenza.
«Non lo so, ma chiunque sia è nella merda fino al collo, perché gioca sia coi circoncisi che con gli abbronzati e chissà con chi altri» rispose annoiato.
«Metti via quel coso e chiama Murphy, chiedigli se il ragazzo è lo stesso di quelle foto che ha scattato ieri Marty».

«Sì capo» l'altro sospirò senza entusiasmo.
Peter abbassò il binocolo e gli rivolse un'occhiataccia.
«Voglio un rapporto completo su questo stronzo, tutto dalla A alla Z. Voglio sapere chi è e chi conosce e quelli che conosce chi conoscono, voglio sapere che cazzo ci fa nella mia città!»
«Va bene, ma non capisco perché ti scaldi tanto».
«Ah, non lo capisci?»
«No, non lo capisco!» lo sfidò con lo sguardo.
«Te lo spiego subito, brutta merdina. Quei due boss non si parlano da anni, non hanno alcun tipo di contatto. E ora uno stronzo qualunque, mai visto prima, si fa i giretti da un palazzo all'altro scortato prima dai neri e poi dagli ebrei, il tutto dopo che il figlio del Boss è stato fatto secco sulla porta di casa. Sai cosa significa questo?»

«No, che significa?»
«Che qualcuno è davvero nella merda fino al collo e quel qualcuno potremmo essere noi. Mettiamo caso che quello sia un corriere o una sorta di messaggero, significherebbe che le due più grandi organizzazioni criminali della città stanno tramando qualcosa, magari di riunirsi sotto un unico gigantesco impero della criminalità contro una nuova banda. E se invece quel ragazzo è solo un povero stronzo nei guai, puoi scommettere il culo che non sarà l'unico ad affondare, ma trascinerà un sacco di gente con sé».
«Come fai ad esserne così sicuro?»

«Tu non c'eri vent'anni fa, quando il Boss e il Rabbino lavoravano insieme, né quando si divisero dando inizio a una guerra aperta per le strade. Era come stare su un campo di battaglia, la guerra in Vietnam dei poliziotti di New York. Almeno di quelli onesti, gli altri ne hanno approfittato per arricchirsi. Se il ragazzo non è ancora morto e non è un corriere, allora di sicuro è una pedina di un piano più grande ed elaborato e sta a noi scoprire di che si tratta».
Parrish sospirò stropicciandosi la faccia e poi si massaggiò il polpaccio con una smorfia.
«Non so chi ti dà tutta questa energia, ma comunque non smettere. A volte quasi mi fai ricordare il motivo per cui ho deciso di entrare in polizia».
Peter fece un mezzo sorriso, appoggiandosi a uno degli scaffali dove tenevano le apparecchiature.
«Ecco, vedi di ricordartelo e di scrollarti di dosso la depressione post-sparatoria».
«Non... non è una depressione post-sparatoria! Io mi fidavo del mio partner e lui mi ha venduto al miglior offerente per un mucchio di soldi sporchi. Sarei potuto morire!»
Due colpi al portello posteriore ed entrò un ometto basso e tarchiato, con in testa un elmetto giallo da cantiere.
«Dovreste smetterla di urlare, vi si sente da fuori!»

«Oh, Marty! Risparmiami la predica e dimmi che hai trovato» lo rimbrottò Peter.
Marty si tolse l'elmetto e gli passò il caffè annacquato del bar all'angolo.

«Indovina un po'? Kat è tornato».
«Goodkat?»
«Già, è quello che cinguettano i tossici».
«E chi l'ha chiamato?»
Un brivido freddo corse lungo la schiena del detective Hale, ma aprì la bustina di zucchero e lo gettò nel caffè come se quella notizia non l'avesse minimamente toccato.

«Non lo sapevano, hanno solo detto che gira voce che Kat è tornato».
Parrish li guardò confuso. «Ehm, chi è Goodkat?»

«Il killer dei più tosti» disse Marty.
«Il più tosto» rincarò la dose Peter.
«Arriva lui, muore qualcuno e poi sparisce. Nessuno sa chi sia né che faccia abbia e non lavora a New York, da quanto? Due decenni?»
«Pff, giusto quello che ci voleva» disse Parrish, passandosi una mano sugli occhi stanchi.

«D'accordo, questa situazione di merda si sta complicando sempre di più. Tenete gli occhi aperti e, Marty, la prossima volta trova un caffè decente, cazzo. Devo andare all'obitorio, chiamatemi se ci sono novità» disse Peter e poi scese dal camioncino.
Nella sua carriera aveva visto così tanta gente morta ammazzata che aveva perso il conto dei cadaveri e dei casi di omicidio di cui si era occupato, perciò entrò all'obitorio con la disinvoltura data dall'abitudine.
«Buongiorno, dottoressa Tate».
La ragazza con il camice bianco si abbassò la mascherina e gli sorrise. Malia Elizabeth Tate, così giovane e dall'aspetto delicato, eppure in grado di segare un cranio a metà senza battere ciglio.

«Buongiorno a lei, detective».
Il corpo di un uomo di mezza età con la fronte sfondata e la bocca aperta lo accolse.
«Benny Begin, eh? Ucciso da una palla da baseball» disse con un mezzo sorriso.

«Lanciata da Joe di Maggio!»
«In ogni caso il buon Dio ha il senso dell'umorismo» disse accostandosi al cadavere.
«Lo conosceva?»
«Allibratore famoso, lavorava per il Rabbino. Detto tra noi, vent'anni fa era anche il mio allibratore, gli giravo gli assegni dello stipendio... ma ora è acqua passata. E sugli altri due, scoperto niente?» indicò i corpi sui tavoli accanto a quello di Benny.
Malia rimise la mascherina sul viso e sollevò uno dei lenzuoli, per mettere in mostra i segni violacei sul collo di uno dei due.
«Sono stati avvelenati con qualche veleno esotico, roba da tribù dell'Amazzonia, per intenderci. Ci sto lavorando».
«Perfetto, mi faccia sapere. Buona giornata» le diede una pacca sulla spalla e andò via.


Malia guardò l'orologio, era quasi mezzogiorno e se aveva fatto bene i calcoli Slevin doveva già essere rientrato a casa. Coprì i cadaveri con i lenzuoli bianchi e li rimise nelle celle, tolse i guanti e lavò le mani, poi entrò nella saletta delle analisi.
«Jimmy, io sono in pausa pranzo!» gridò al collega che stava analizzando dei campioni di DNA.
Non aspettò una risposta, aveva poco tempo, perciò prese cappotto, borsa e sciarpa e corse via.
Prese un taxi al volo e in men che non si dica era tornata a casa. Fece le scale a due a due e quasi sfondò la porta dell'appartamento di Nick.
Trovò Slevin in piedi con la giacca in mano, aveva i capelli scuri più arruffati del solito e la salutò con un sorriso sincero, di quelli che arrivano fino agli occhi. In un altro momento glielo avrebbe fatto notare, ma non c'era tempo!
«Ho capito tutto!» esclamò a corto di fiato.
«Ciao anche a te. Cosa hai capito?» le chiese con la solita strafottente leggerezza.

«Hopkins lavorava per il Boss, giusto?»
«Sì, esatto».
Era stanca, doveva sedersi, così lo afferrò per un braccio e lo costrinse a fare altrettanto.
«Ascolta, anche il Rabbino aveva un allibratore, Benny Begin, che ora è all'obitorio. Qualcuno ha ucciso lui e i suoi scagnozzi!»
«Cosa? Ti sei introdotta nell'obitorio?!» saltò su, ma lei lo fece rimettere a sedere.
«No, no! Lavoro lì, non te l'ho detto?»
Il sorriso di Slevin si allargò fino a mostrare i denti bianchi: quell'espressione gli donava.

«No, non mi hai detto che sei medico legale e di sicuro io non l'avrei mai detto, perché sai...»
«Oh cielo! Ma non capisci? Nick non è scomparso, si è nascosto e ti ha incastrato!» lo interruppe.
Lui parve cadere dalle nuvole e aggrottò le sopracciglia.
«C-cosa? Nick ha incastrato me?»
«Come una palla in un flipper. Si è trovato nei guai e ti ha fatto prendere il suo posto. Ha pagato un delinquente per rapinarti, ma voleva solo il portafogli e la patente, ecco perché ha ignorato l'orologio e la valigia; poi ha ucciso Hopkins e Begin, gli unici che sapevano che faccia ha e ora ha lasciato te con il culo per terra!»
«Ma l'ho chiamato io Nick, ho stabilito io il contatto».

«Forse ti sembra che sia così o forse sei solo capitato al momento giusto».
«E Argent invece?»
«Lui non capisco che cosa c'entri» sospirò.
Slevin portò le mani alla bocca e si grattò la guancia con fare pensieroso. Era in pericolo e se Malia si concentrava poteva vedere la falce della Morte pendere minacciosa sulla sua testa. Al pensiero di ritrovarselo tra i cadaveri in obitorio il cuore le arrivò in gola.
«Devi scappare» disse stringendogli una mano.
Slevin spalancò gli occhi, colto alla sprovvista.
«No, non posso».
«Ma ti ammazzano se rimani!»

«Mi ammazzano se me ne vado».
«E allora vai alla polizia!»
«Quelli comprano poliziotti come ciambelle... cazzo, non è la prima volta che succede, ora che ci penso» fece una smorfia infastidita.
«Non è la prima volta che un boss ti chiede di uccidere il figlio gay di un rivale per pagare un debito di un amico dal quale abiti perché hai perso il lavoro, la casa e hai trovato la tua donna a letto con un altro?!» disse tutto d'un fiato. L'atarassia lo rendeva affascinante ma anche molto irritante.
«No, in effetti è la prima volta che mi succede, ma non è la prima volta che Nick mi mette all'angolo. Da bambini ero più io amico suo che lui amico mio...»
«Ehm, sì mi piacerebbe stare a sentire la fine, ma purtroppo devo tornare a lavoro!» corse svelta verso la porta, ma non riusciva proprio a scollarsi di dosso l'immagine di Slevin che le sorrideva con dolcezza. Era entrato nella sua vita come un fulmine a ciel sereno e aveva sentito scattare un click da qualche parte all'altezza del cuore. Pensava a lui in ogni momento e si sentiva come una sciocca ragazzina alla prima cotta, ma cosa poteva farci? Lui sorrideva e lei si scioglieva.
Tornò sui suoi passi, meno sicura e spavalda del solito, per via della proposta che stava per fargli.
«Ehi, stavo pensando che se quando torno sei ancora vivo, potremmo... ehm, non lo so... potremmo cenare fuori insieme?» voleva essere un'affermazione ma suonò più come una domanda e si maledisse mentalmente senza smettere di torturare le frange della sciarpa.
Lo guardò di sottecchi solo per rendersi conto che lui era più in imbarazzo di lei: aprì e chiuse la bocca, sorrise, tossicchiò e si grattò il mento, il tutto con un sorriso ebete stampato in faccia.
«S-sì, vo... volentieri, certo» annuì.
«Davvero?» domandò incredula.
«Sì, perché no?»
L'istinto di baciarlo prevalse per un momento sulla ragione, ma riuscì a tornare in sé a pochi centimetri dalla meta.
«No, no» disse più a se stessa che a lui, allontanandosi da quelle labbra tentatrici.
«Ci vediamo dopo, ciao» lo salutò e si fiondò giù per le scale.


*


Che fosse bella non era di certo un mistero, ma vederla con i capelli sciolti, truccata e con quel vestito corto e aderente gli mandò il sangue alla testa. La parte migliore? Non era consapevole dell'effetto che gli faceva, anzi si guardava intorno a disagio mentre aspettavano che un cameriere li accompagnasse al tavolo.
«Stai benissimo» le sussurrò tra i capelli, sfiorandole appena i fianchi.
Malia arrossì e abbassò lo sguardo, stranamente senza parole.
Un'altra ragazza avrebbe piluccato un'insalata, sorseggiando vino rosè e mantenendo una posa ammiccante da rivista di moda, lei invece ordinò un risotto ai funghi e bevve un intero bicchiere di vino rosso in pochi secondi.
«Posso assaggiare un po' dei tuoi spaghetti?» gli chiese quando arrivarono i piatti fumanti.
«Fai pure».
Appoggiò il mento sulle mani intrecciate per gustarsi la scena, mentre lei addentava una quantità troppo generosa di spaghetti. Riusciva a mantenere una certa eleganza, nonostante tutto.
«Che c'è?» scoppiò a ridere quando si accorse che la stava osservando.
«Niente, pensavo a come sarebbe stato se ci fossimo incontrati in un'altra situazione».
Malia si pulì con il tovagliolo e bevve un altro sorso di vino.
«Ci si dovrebbe innamorare solo se c'è una grande storia dietro il primo incontro. Insomma, visto che lo devi raccontare un mucchio di volte... se noi due ci innamorassimo avremmo una storia pazzesca da raccontare» gli fece l'occhiolino.
Fu il suo turno di sorridere e restare senza parole.
«Magari siamo a cena e qualcuno ci chiede “come vi siete conosciuti?”» continuò lei imperterrita «e io ti direi “raccontalo tu, tesoro” e tu mi risponderesti “no, tu lo racconti meglio”».
I loro sguardi s'incrociarono e fu come guardarsi per la prima volta. Si sarebbe perso volentieri in quegli occhi color cioccolato e non avrebbe voluto sentire altro sapore all'infuori delle sue labbra.
Fu Malia a rompere l'incantesimo.
«Come... come mai hai scelto questo posto? Sei stato piuttosto deciso a riguardo» domandò.
Lui si schiarì la voce, perché temeva che il suo tono tradisse il desiderio represso di averla.
«Per via delle buone recensioni e perché è il locale preferito di una certa persona» ammiccò alla sua destra.
Malia lasciò vagare lo sguardo sulla sala con finta noncuranza, finché non lo individuò: era piuttosto bruttino, ma due bei ragazzi accanto a lui era in adorazione. Cosa non potevano comprare i soldi?
«Ah, la Fatina!» esclamò sottovoce.

«Esatto».
«Dai è assurdo, che vuoi fare?»
«Provare un nuovo piano».
«E qual è?» si sporse in avanti incuriosita.

«Parlarci» fece spallucce.
«Sì? E cosa vuoi fare, avvicinarti e dirgli “Ciao, mi chiamo Slevin, c'è un brutto cattivo che mi ha preso per un altro e ora devo farti fuori sennò fanno fuori me e volevo sapere se ti andava di parlarne”?!» sussurrò sull'orlo di una crisi isterica.

«Non posso farlo».
«Be', direi!»
«Dai, non posso avvicinarmi a lui, ha le guardie del corpo. A parte questo, è proprio quello che ho intenzione di fare».
«G-guardie del corpo? Dove?» quasi si strozzò con il vino.
«Sono due, dietro di lui. Israeliani, hanno la barba. Li vedi?».
«Wow, stai diventando bravo» disse lei meravigliata.
«Grazie» ghignò divertito.
«E allora come ci parli? Spiegami».

«Aspetto che vada in bagno, poi mi alzo e lo seguo. Che ne pensi?»
«Penso che se ti fai ammazzare, ti uccido».


«Ehi, ma perché io devo restare sul pulmino?» gli chiese Marty alla cuffia.
Peter la sistemò meglio per non farla vedere, fingendo di grattarsi l'orecchio, poi si voltò verso Parrish per rispondere.
«Perché quando ho prenotato ho trovato solo due posti liberi, niente di personale. Com'è la situazione lì fuori, c'è movimento?»
«No, tutto regolare. E dentro invece?»

«Allora, la Fatina è in un tavolo al centro della sala e le guardie del corpo sono vicine. Il nostro ragazzo non è lontano, ma non riesco a vedere chi c'è con lui. Hai avuto sue notizie?»
«Murphy dice che chiunque sia è un fantasma. Nessuno l'ha mai incrociato e lui non ha mai pestato i piedi a nessuno».
Peter e Parrish si scambiarono un'occhiata nervosa.
«La Fatina va in bagno... e il nostro ragazzo è partito, cazzo!» per poco Peter non urlò.
Si alzò dal proprio posto con tutta la calma che riuscì a mantenere e li seguì in bagno, ma la porta era già chiusa a chiave.
«Marty, la porta è chiusa».

«Sta' calmo, non succederà nel bagno degli uomini».
Imprecò sotto voce e dopo pochi attimi si ritrovò dietro due energumeni con la barba, le guardie del corpo di Yitzchok. Mostrò loro il distintivo.

«Dopo ci sono io, poche storie ragazzi».
Il figlio del Rabbino fu il primo a uscire e Peter entrò nel bagno prima che il ragazzo potesse fare altrettanto. Era alto e magro, aveva i capelli lunghi e un po' spettinati e l'atteggiamento imperturbabile di chi sa esattamente cosa sta facendo. Fece per andarsene ma Peter gli sbarrò la strada.
«Scusa, senza offesa, ma non sono gay» disse l'altro sorridendo.

«Fai meno lo spiritoso, io sono un poliziotto».
«Be', io non sono un ladro, non so se rendo l'idea».
«Ti ho tenuto d'occhio, so tutte le tue mosse. Chi sei? Perché io so chi non sei. Non sei Nick Fisher, il padrone della casa in cui stai, lo so perché Fisher si è fatto otto anni in riformatorio per aver violentato una cheerleader di 14 anni. Il riformatorio mi ha mandato la sua foto e non sei lui, quindi chi cazzo sei tu
«Solo uno a cui si sta freddando la cena e lei non può trattenermi qui senza un mandato, sarebbe abuso di potere. Posso andare adesso?» rispose sicuro di sé.
A malincuore, Peter si fece da parte.
«Sappi che non finisce qui» lo minacciò.

«Ci conto» rispose il ragazzo uscendo dal bagno.
Rimasto solo, il detective Hale si guardò allo specchio, deluso da se stesso per essersi lasciato infinocchiare da un pivellino qualunque. Tirò un pugno sulle mattonelle della parete, sentendo le ossa della mano incrinarsi.
«Dannato figlio di puttana!»

***

Grazie per essere arrivati fino a qui! Se il capitolo vi è piaciuto o se qualcosa vi è poco chiara non esitate a chiedere lasciando una recensione.
Vi anticipo che il prossimo sarà l'ultimo capitolo, seguito poi da un breve epilogo.

   
 
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