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Autore: Restart    19/08/2018    1 recensioni
1934, Montereau Fault Yonne
Jean Lucas stringe un patto con Marion Rousseau, a causa della partenza di lei per Parigi: si dovranno sposare diciotto anni dopo.
La guerra, le perdite, i chilometri di distanza li divideranno inesorabilmente. E la loro speranza di rivedersi si affievolisce ancor di più.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali, Dopoguerra
Capitoli:
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«Jean cosa ci fai qui?» Il fratello le sorrise dolcemente prima di abbracciarla forte come faceva lei quando erano piccoli. Era cambiato Jean in quei mesi. Aveva una tristezza infinita nei suoi occhi blu che erano soliti ad essere pieni di gioia. Il viso era scarno, talmente tanto che gli zigomi spigolosi le facevano quasi paura. Prima di arruolarsi aveva i capelli lunghi e morbidi, ora il capo era rasato e aumentava l’aspetto malaticcio del giovane. Cosette lo guardava in silenzio, non ricambiando la stessa gioia e la stessa felicità dipinte sul volto del fratello.
«Cosa ci fai qui?» ripeté con tono duro. Lui non doveva essere lì, non in quel momento, non in quel posto, in quel suo piccolo appartamento. Il sorriso del ragazzo si spense irrimediabilmente.
«Sono qui per te. Ho qualche giorno prima che mi mandino a est, in Alsazia». Cosette lo fissava con gli occhi sbarrati e il cuore che le batteva in gola. Spostava frequentemente lo sguardo da Jean allo spazio alle sue spalle sperando che non arrivasse, che non la vedesse con un altro uomo.
«Jean te ne devi andare» sospirò piano, avvicinandosi al fratello per stringerlo in un frettoloso abbraccio che non aveva niente a che fare con quelli che gli dava quando erano piccoli. Quando si staccò, Jean non accennò a muoversi neanche di un centimetro. Era sempre fisso sulla soglia della porta, con la divisa consumata e troppo grande per il suo corpo troppo magro. Gli occhi erano sempre incollati su di lei che si sentiva bruciare il suo sguardo addosso.
«Cosa succede Cosette, eh?» il suo tono aveva sfumature rabbiose che la ferivano. Non lo riconosceva più. Si stava trasformando in uno di quei soldati che la trattavano peggio di un animale, che le strappavano gli abiti di dosso, che le facevano male non solo fisicamente.
«Jean calmati, per favore» gli aveva poggiato la mano sul petto asciutto, ma lui l’aveva respinta. Non voleva pensare a quello che stava pensando, non voleva credere a tutto quello che gli avevano detto sia in boulangerie che dal fioraio quando aveva detto che era venuto a trovare Cosette Lucas. Il panettiere si era arricciato i grossi baffoni neri e gli aveva fatto un occhiolino fin troppo malizioso per i suoi gusti.
Si sentiva mancare le gambe, aveva la gola completamente secca. Aveva bisogno di bere qualcosa.
«Jean devi andartene, per favore, ascoltami almeno una volta» Cosette piagnucolava quando cercava di spingerlo fuori dalla porta. Aveva gli occhi blu velati di lacrime e il labbro inferiore che le tremava dalla paura. Sapeva cosa avrebbe fatto se l’avesse visto lì. Sapeva che suo fratello sarebbe morto.
«Jean stammi a sentire una buona volta» lo spinse indietro più forte che poteva, con le lacrime che le bruciavano gli zigomi coperti da un leggero strato di cipria. Ma lui rimaneva lì, con lo sguardo fisso su di lei.
«Cosette che sta succedendo?» queste quattro parole fecero accapponare la pelle della ragazza. Il Capitano era in piedi alle spalle di Jean. Non indossava la divisa, ma si era messo il vestito che gli aveva cucito lei. Era bellissimo: aveva i capelli biondi in ordine e gli occhi azzurri che brillavano alla fioca luce del piccolo lampadario del corridoio.
Nel sentire quell’accento straniero, Jean si voltò di scatto. Un tedesco. «Chi è lei?» la voce del giovane francese non era ferma come avrebbe voluto e la sua mano tremava. L’altro aveva uno sguardo di ghiaccio che non lasciava trapelare emozione alcuna. Solo le sue nocche facevano trasparire quello che provava: erano pallide come un lenzuolo, così le sue dita, strette attorno al mazzo di rose rosse.
Respirò piano prima di rispondere. «Mi dispiace, soldato. Sono io che dovrei farvi questa domanda» sfoderò un francese perfetto che lasciava poco spazio a sbavature d’accento.
Jean aveva la bocca secca e la testa che gli faceva male per le mille idee che vi frullavano. Quell’uomo, quel tedesco. Con sua sorella. La voce della sua coscienza gli diceva di stare fermo, calmo, e magari ascoltare quello che avevano da dire entrambi. Ma non le dette ascolto.
«Cosa ci fate voi qui con Cosette?» chiese ancora il Capitano, ma questa volta il suo tono era cambiato: Cosette lo percepiva perfettamente. «Andatevene, e per ora sono gentile». Ma Jean non accennava a spostarsi di neanche un millimetro. Rimaneva lì, in piedi, a mantenere il contatto visivo con quel tedesco.
«Andatevene» ripeté, ma il francese non si spostava. Fu allora che tutto ciò che Cosette temeva, successe. In un attimo Jean era steso a terra, con una grande ferita nello stomaco. Il Capitano lo colpì ripetutamente sul viso, graffiandolo con un coccio che aveva trovato davanti alla porta. Il giovane era svenuto, forse peggio, ma la ragazza non era più lucida. Emise un grido talmente forte che lo sentirono in tutta la palazzina. Si gettò sul corpo del fratello cercando di tamponare il sangue con la gonna del vestito, continuando ad urlare a pieni polmoni. Il Capitano la zittì premendole la mano sanguinosa sulla bocca.
«Zitta brutta troia. Ed io che credevo che tu fossi diversa, in realtà sei uguale a tutte le puttane con cui sono stato» tolse la mano dalla sua bocca solo per premere il grilletto alla sua pistola e spararle un colpo alla pancia. La vista di lei s’offuscò. L’ultima cosa di cui si ricordò, erano gli occhi brillanti di Alexandre.
Si svegliò molte ore dopo in un letto che profumava di pulito. Le lenzuola bianche erano nuove e fresche. Inclinò appena il capo e vide Alexandre profondamente addormentato al suo fianco. Aveva il volto corrucciato e due profonde occhiaie scure. Era stanco, sebbene stesse dormendo. I capelli erano scompigliati come non glieli aveva mai visti. Cosette si accorse solo allora del bel volto di Alexandre. Si chiese come mai non ci aveva mai fatto caso prima d’allora. Era sempre stato il giovane e ordinato (il più delle volte) medico del terzo piano che una volta si era occupato per qualche ora di Monique dopo che aveva preso una storta. Lo fissò a lungo, o almeno così le parve. La vita al di fuori della sua protetta stanza d’ospedale la vita procedeva. Affannosamente, sì, ma forse con qualche successo. Ad un certo punto sentì le palpebre farsi nuovamente pesanti e si addormentò stringendo debolmente la mano del ragazzo di lato.
Quando si risvegliò aveva un sorriso beato disegnato sul volto. Non aveva idea di quanto avesse potuto dormire, ma stava bene. Stava bene come non lo era mai stata. Cercò il volto di Alexandre di fianco al suo, ma trovò solamente la federa candida del cuscino. Si era alzato, stava confabulando con una giovane infermiera dall’altra parte della stanza. Non riuscì a captare una frase intera solamente qualche parola sparsa.
«Sì, dammi retta, è meglio per tutti» pronunciò alla fine lui con tono grave e leggermente più alto. Per un motivo sconosciuto quelle parole rimassero impresse nella mente di Cosette per molti anni senza capire come mai. Nel frattempo lui si era voltato e le aveva sorriso.
«Sono contento che tu stia bene» le disse accarezzando la mano. Nessuno dei due intese come mai, ma in quel momento era parso loro un gesto più che naturale. Ma poco dopo un’ombra passò sul volto della ragazza. Si sentì stupida per non averci pensato prima. Guardò il medico con lo sguardo impaurito e faticosamente sillabò la prima parola dopo tre giorni. «Jean»
Alexandre si sentì invadere dal panico. Aveva preparato il suo discorso, ma non era pronto a dirlo. Non di fronte a lei, lei che aveva quegl’occhi così belli, così bisognosi d’aiuto.
«Ne riparliamo dopo. I bambini sono qui» disse piano, sottovoce, con le lacrime che premevano per uscire. Non avrebbe voluto ferirla così.
I tre bambini portarono uno sprizzo di gioia in quella camera asettica. Madame Pauline aveva fatto indossare loro i migliori abiti che avevano. Aveva raccolto i capelli lunghissimi e biondissimi di Mélanie in una treccia all’olandese ed era riuscita a spazzolare l’indomita e riccioluta chioma di Valère. Si sentì improvvisamente in forze nel vedere i loro occhietti giocosi e i loro volti vivaci.
Passarono tutto il pomeriggio lì in sua compagnia finché non arrivò l’infermiera per la cena e con lei Madame Pauline che era pronta per riportarli a casa.
Quando fu finalmente sola, sazia e felice, Alexandre tornò avvolto da un’aura di tristezza. Si sedette sulla sedia accanto al letto e le prese la mano.
«Jean non ce l’ha fatta» lo disse velocemente, come volesse togliersi il peso il più velocemente possibile. Non osò guardare Cosette che dal canto suo ebbe la sensazione d’essere travolta da un’ondata di dolore in pieno petto. Sentì il respiro venirle a meno e cercava disperatamente un appiglio, ma era consapevole di averli persi tutti. Era rimasta sola.
Trovò solo le dita morbide di Alexandre a soccorrerla. Le strinse più forte che poté e uguale fece negli anni successivi, quando quella sensazione di paura, di vuoto l’invadeva.
Nel frattempo, in terapia intensiva, nella stanza 118, Jean si era appena risvegliato dopo 48 ore in cui la sua vita era stata sul filo del rasoio. Il medico, il dottor Lefrève, lo guardava amabile. L’infermiera al suo fianco invece, pareva pervasa dalla paura. Chiese di sua sorella e nessuno dei due osava aprir bocca. Lo chiese una, due, tre volte, aumentando sempre di più il tono della voce, ma niente. Quella scialba infermiera tremava, cercando di non piangere. Dopo qualche istante entrò Manon, col suo passo veloce e sicuro, con quello sguardo fiero che colpì Jean.
«Se n’è andata mezz’ora fa» disse duramente, come se non avesse voglia di lasciarsi trasportare dai sentimentalismi. Era stanca, aveva lavorato per 36 ore e voleva solamente tornare a casa. Il dottore chiese a Manon di portare via Evangeline che aveva iniziato a frignare senza ritegno. Si scusò con Jean:  «È nuova» ma lui non riusciva più a sentire niente. Sentiva solo un fastidioso fischiare che non gli permetteva di udire una sola parola. Cosette non c’era più. Non aveva mantenuto la sua promessa. Non gli era rimasta accanto, era sparita. Si ribellò con cattiveria, voleva scappare, voleva trovare il tedesco che gliela aveva uccisa, voleva riabbracciarla, stringere la sua mano un’ultima volta. Servirono le grandi mani del dottore a fermarlo. Anche Manon l’aiutò, tenendogli il volto, cercando di farlo ragionare. Gli occhi azzurri erano iniettati di sangue, i denti digrignavano ferocemente. Era come una bestia selvatica. Lei aveva paura. Ma aveva imparato a nasconderla. Glielo aveva insegnato Benoît, suo fratello. Cercava di respirare piano, di mantenere la calma per farla tornare a lui. Le avrebbe dato una buona dose di morfina se ci fosse stata. Ma mancava sempre, soprattutto in quel periodo. Doveva farcela da sola, con la sua sola forza. Con la coda dell’occhio notò che la sua mano iniziava a cospargersi di un liquido rosso, viscido. Il taglio sulla guancia cominciava a riaprirsi.
«Jean, fermo, morirai dissanguato facendo così» lo ammonì rabbiosa, anche se non sapeva da cosa provenisse tutto quella rabbia. Forse per il fatto che non riuscisse a controllarlo, forse dalla paura di perderlo per una menzogna.
«Jean per favore calmati» aveva urlato a pieni polmoni, con la paura che aveva sopraffatto l’ira. Gli stringeva il viso e lui si dimenava senza ritegno. Nessuno arrivava ad aiutarla, non c’era nessuno che potesse darle una mano. Iniziò a piangere, perdendo tutta la sua freddezza, tutta la sua rigidità. Lasciò andare la presa, lasciò che lui si contorcesse quanto gli pareva, non aveva più forze. Crollò a terra come un fazzoletto bagnato. Sentiva tutto il dolore di Jean, lo sentiva forte e chiaro. Era stato suo un tempo. Un tempo piuttosto recente, in realtà. Si ricordava di suo fratello, di sua madre, della sua bellissima mamma e di suo padre. Sapeva cosa significava perdere qualcuno. Le era rimasto solo quello zio nell’esercito che la vedeva una volta alla settimana per controllare che fosse sempre viva, che non si fosse uccisa per il dolore.
Alla fine le grida di Manon avevano placato quelle Jean. Ora era lei a piangere, a singhiozzare. Ora era lui che si era avvicinato per abbracciarla, per baciarla sulla guancia, per cercare di calmarla.
Si calmarono insieme, i loro respiri tornarono regolari nello stesso istante. Manon piagnucolò un grazie soffocato mentre cercava di ricomporsi e ritrovare un briciolo di quella fermezza che le apparteneva e che aveva appena perso.
Jean si fece curare le ferite con calma, ma non per l’ultima volta. Negli anni successivi le crisi diventavano una routine fissa, un qualcosa che solo lei riusciva a placare. Fu per colpa di queste che non riuscì ad uscire dall’ospedale per tre o quattro anni, nemmeno si ricordava più.
Una notte di gennaio del ’45 gli sembrò di vedere Cosette nei corridoi, gli sembrò di vederla camminare abbracciata ad un giovane medico, forse aveva la sua età. Gli sembrò di riconoscere i capelli neri, tagliati appena sopra le spalle, il suo sorriso gentile. Non riusciva ad alzarsi, ci aveva provato, ma sembrava legato alle lenzuola. Cosette scomparve e al suo posto apparve Manon, col suo dolce profumo. Lo abbraccio, gli fece una carezza e lui si riaddormentò beatamente, sognando gli occhi verdi della giovane infermiera.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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