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Autore: Adeia Di Elferas    23/08/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Mandare il maggior numero di fanti e cavalli possibili nel Casentino...” sbuffò Caterina, le mani allacciate dietro la schiena e gli occhi che correvano nervosamente al cielo sopra di lei.

L'ultimo ordine – perché tale le era parso – arrivatole dalla Signoria parlava molto chiaro. La donna aveva saputo da Corradini che Paolo Vitelli aveva fatto sì che gran parte degli uomini al suo seguito lasciassero Pisa alla volta del Casentino, e tra essi c'erano anche Ottaviano e i suoi soldati.

Il fatto che suo figlio avesse seguito le disposizioni del generale fiorentino senza fiatare – e senza consultarla prima – l'aveva messa in allarme, ma vedersi recapitare una missiva tanto perentoria era stato troppo.

“Scrivete loro – disse, sempre senza guardare Luffo Numai che le stava accanto, nel centro del cortiletto della rocca, sotto le nuvole bianche e spesse di quel giorno di novembre – che sono offesa e indignata per l'ingratitudine e la sfacciataggine di questi fiorentini.”

Il Consigliere annuì, anche se nella sua mente le parole della Contessa si stavano già traducendo in termini meno accesi e più diplomatici.

Dopo un paio di bestemmie sottovoce, la Tigre si mise una mano sulle labbra, come a tacitarsi e cominciò a pensare che forse sarebbe stato il caso di lamentarsi anche con suo zio Lorenzo. La stavano trattando come una bambina. Lei chiedeva soccorso, e in cambio le veniva ordinato di privarsi delle proprie truppe per concederle in protezione a un alleato che rispetto a lei godeva di una ricchezza e una disponibilità di uomini incredibile.

“Quindi non manderemo i nostri?” chiese Numai, preoccupato: “Volete che vostro figlio torni e così tutti gli altri? Vi ricordo che anche Sanseverino sta per partire... E come lui Dionigi Naldi e i suoi balestrieri...”

Caterina si morse il labbro. L'aria odorava di neve. Tutt'attorno, in terra, se ne trovava ancora. Era caduta in modo discontinuo, quella notte, smettendo appena prima dell'alba, ma il freddo lasciava presagire che presto ne sarebbe arrivata altra.

“No, no... Faremo quello che ci viene detto. Preferisco correre il rischio, piuttosto che mostrarmi pavida e debole con i miei alleati.” decretò la Contessa: “Tuttavia, che sia chiaro che non sono contenta di concedere tanto.”

Numai annuì, con gravità, ma quando stava per aggiungere qualcosa, il Capitano Golfarelli arrivò di corsa, varcando il portone d'ingresso del primo cortile come una furia: “Mia signora... Mia signora!” esclamò, senza fiato, stremato dalla corsa che l'aveva portato fino a lì.

Caterina gli si avvicinò e gli chiese che fosse successo e così l'uomo le riferì che in piazza era cominciato un duello tra un certo Marcheselli di Rimini e un Aldovrandini.

“Entrambi uomini d'armi, mia signora, uno al seguito del Fracassa e l'altro...” continuava a spiegare il Capitano, ma Caterina aveva già dato ordine a un soldato di portarle un cavallo, per poter fare in fretta, e non aveva bisogno di sentire altro.

Era stanca di avere nelle coste i soldati indisciplinati e confusionari dei Sanseverino e quella era la goccia che faceva traboccare il vaso. Aveva detto chiaramente a Fracassa che lo voleva vedere partire alla volta di Firenze subito e invece lui indugiava ancora in città e i suoi uomini combinavano solo disastri.

La Tigre ci aveva messo anni a creare un esercito con precise regole, composto da soldati che avevano la certezza di essere puniti se sgarravano e premiati se si coprivano di gloria. Da che era la padrona indiscussa del suo Stato, non si era praticamente più sentito di un armigero che desse adito a risse troppo violente o non pagasse i suoi conti all'osteria e al bordello.

Invece, da che c'era Fracassa e tutto il suo carosello di uomini d'arme, quelle scene erano all'ordine del giorno. Anche la Sforza era riuscita a mitigarne le ripercussioni – soprattutto grazie al numero tutto sommato ridotto dei soldati stranieri nelle sue terre – non poteva negare di essere stufa di loro.

Già era stato difficile tamponare l'arrivo delle reclute arruolate con la forza per motivi politici, doversi sorbire anche le truppe scalmanate di un altro le pareva davvero troppo.

Quando arrivò in piazza, gli zoccoli del suo cavallo che battevano in terra come un tamburo di guerra, si rese subito conto che il duello aveva attirato troppo pubblico per poterlo interrompere.

Negli anni aveva imparato quanto la folla fosse imprevedibile. Dichiarando quel duello non autorizzato e fermando i due contendenti, probabilmente avrebbe scatenato un putiferio.

Così, notata da pochi, smontò da cavallo e si mescolò tra la folla. Non conosceva i due che si stavano sfidando e non le interessava nemmeno vedere chi avrebbe vinto e chi avrebbe perso. Ciò che interessava a lei in quel momento era solo trovare Fracassa.

Le ci volle un po', prima di scorgerlo. Era proprio accanto ad Achille Tiberti che, da quando era rientrato a Forlì, s'era ben guardato dal farsi vivo con la Contessa per ricevere nuovi ordini.

“Che razza di idee vi vengono?” chiese la Sforza, arrivando al fianco del Sanseverino.

Tiberti, nel vederla, salutò Gaspare con un cenno e se ne andò quasi di corsa, come se avesse paura che ce ne fosse anche per lui, mentre il Fracassa rimase al suo posto, un occhio sulla Leonessa e uno sullo scontro che stava entrando nel vivo.

“Non ho potuto trattenerli.” tentò di schermirsi il Sanseverino, con un'alzata di spalle: “La loro faida ha un'origine molto seria, perché vedete, Mercheselli...”

“Non me ne potrebbe importare di meno della faida di quei due!” sbottò Caterina, la voce quasi coperta dal boato che si era librato dalla folla dopo un colpo particolarmente pesante di uno dei due duellanti: “Per cose come queste serve la mia espressa autorizzazione! Siete sul mio territorio! Non potete fare quello che vi pare!”

Gaspare strinse le labbra sottili e poi puntò gli occhi sporgenti in quelli verdi della Contessa e, rispolverando il tono che usava con scudieri e coppieri, le disse: “E allora andate a dirlo a quei due che stanno duellando. Non sono mica io, quello con una spada in mano.”

“Ma mi risulta che uno di quei due sia sotto il vostro comando.” ribatté subito la Tigre, senza lasciarsi irritare troppo dal tono usato dall'uomo: “Quindi spettava a voi fermarlo. E spetta a voi punirlo. O pagare al suo posto.”

Fracassa sbiancò, dopo quell'ultimo inciso. Di colpo parve ricordarsi chi avesse davanti e tutta la sua sicurezza svanì in un colpo solo.

“Perdonatemi...” iniziò a dire, quasi balbettando: “Ma non è... Insomma... Gli uomini sono nervosi, ultimamente... Questa guerra...”

“Non ditemi che i soldati sono nervosi per colpa della guerra, perché altrimenti dovrò rispondervi che di giorno c'è luce perché all'alba spunta il sole!” esclamò Caterina, tenendo la voce abbastanza bassa, ma a un volume sufficiente affinché il Sanseverino potesse udirla al di sopra delle urla del pubblico e del clangore delle armi dei due che stavano combattendo: “Ora vi dico io che farete. Non appena uno di quei due imbecilli sanguinerà anche solo per un graffio, dichiarerete finito il duello e, appena la folla si sarà diradata, radunerete i vostri e partirete come vi avevo ordinato. Se a sera fatta troverò anche solo uno dei vostri soldati dentro le mura di Forlì, vi farò arrestare e vi ammazzerò con le mie mani.”

Gaspare sembrava non riuscire nemmeno più a respirare. Si rendeva conto solo in quel momento della leggerezza che si era permesso e delle conseguenze che la sua lassità con Marcheselli avrebbe potuto avere.

“Sapete che sono capace di farlo, quindi...” rimarcò Caterina, dando uno sguardo quasi disinteressato al duello, che stava proseguendo tra qualche insulto e un colpo basso, rimontò a cavallo e se ne andò, lasciando Fracassa libero di farsi due conti e decidere di partire all'istante, come gli era stato consigliato.

 

Ottaviano Riario ascoltava con attenzione e un timore crescente quello che si stava dicendo nel padiglione dei comandanti. La discesa nel Casentino si stava dimostrando molto più complessa di quanto anche Paolo Vitelli avesse creduto.

Questi, che già aveva la mente altrove per colpa dei continui attriti con Firenze, che non si decideva a pagargli quanto dovuto, aveva appena riferito a tutti gli altri che Bartolomeo d'Alviano – uomo ogni giorno più feroce e implacabile – aveva deciso di mettere a ferro e fuoco tutto ciò che incontrava davanti a sé, per rifarsi della sconfitta di Poppi.

“Di questo passo – commentò mesto Corradini che, di comune accordo con il Riario, prendeva spesso la parola proprio al posto di Ottaviano – arriveremo a uno scontro diretto proprio con lui.”

Mentre Vitelli annuiva e riprendeva il suo discorso, sottolineando come avesse chiesto repentinamente alla Signoria di fargli avere soccorsi di ogni tipo, richiamando sotto il suo comando tutti quelli che per motivi vari si erano assentati, Ottaviano cominciò a ragionare febbrilmente.

Lo spunto di coraggio che lo aveva portato ad accettare senza proteste la decisione della madre di rimandarlo al fronte, se n'era ormai andato del tutto, stemperato dalla rigida e scomoda vita militare e, ancor di più, dalla prospettiva di dover combattere di nuovo.

Stare al campo pisano, con Pisa già praticamente vinta, era stata una scocciatura, ma nulla di più.

Ora, invece, le cose principiavano a farsi serie e il Riario temeva di non essere in grado di sopportare oltre. Così si mise a ragionare, e più ragionava più si rendeva conto che l'unica via di fuga praticabile fosse cercare di tornare a Forlì prima che iniziassero le prime battaglie.

Ciò avrebbe significato perdere quel poco di fiducia che sua madre aveva cominciato a riporre in lui, e dire addio a quel poco orgoglio che credeva di avere acquistato. Almeno, però, non sarebbe morto sotto la neve, crivellato dai colpi dei cannoni o dilaniato dal bacio di una spada.

Tutto stava nel trovare il modo giusto per convincerla. Se le avesse scritto di richiamarlo in modo ufficiale, di certo lei non l'avrebbe fatto. E se lui avesse lasciato il campo di Vitelli di sua iniziativa e senza consultarla, si sarebbe scavato la fossa tanto e più che se fosse sceso in battaglia.

Mentre gli altri comandanti iniziavano ad accordarsi sui movimenti e sulla strategia da mettere in atto, Ottaviano restò nel suo angolo, le spalle ben coperte dal mantello di lana cotta e la mente concentrata solo ed esclusivamente su come far sì che sua madre finisse a preferirlo vivo accanto a sé a Forlì, piuttosto che morto nel Casentino.

 

Caterina aveva riletto per l'ennesima volta la missiva di Lorenzo, suo cognato, quasi sperando di trovarvi scritta qualche parola diversa.

La richiuse, restando pensierosa, due dita sulle labbra serrate e gli occhi puntati verso il nulla. Suo malgrado si stava trovando a fare davvero come Firenze e come il Popolano volevano. Non solo Fracassa era partito per Firenze, ma anche Dionigi Naldi se n'era andato, diretto a San Pietro in Bagno.

Era arrivata voce anche a Forlì di come Bartolomeo d'Alviano stesse facendo tabula rasa di molti villaggi nel Casentino e che minacciasse di fare altrettanto anche con alcune città. La sconfitta a Poppi pareva averlo trasformato in un diavolo in terra.

Ciò che la Tigre temeva di più, subito dopo il doversi privare di gran parte della propria difesa personale, era di vedere partire anche Ottaviano Manfredi.

I loro colloqui, volti a decidere che mosse fare contro Astorre, si erano fatti sempre più serrati e sempre più mescolati alla passione. Non passava quasi notte che non si incontrassero, parlassero di Faenza e poi si amassero, ricominciando subito dopo a discutere la loro personale e – per il momento – virtuale campagna contro Castagnino e il suo protetto.

Quella mattina, approffitando del fatto che il tempo pareva intenzionato a non precipitare di nuovo, la Sforza aveva deciso di uscire a caccia. Mentre raggiungeva le stalle aveva incontrato proprio Manfredi che, incuriosito, le aveva chiesto dove stesse andando.

Dopo che la donna gli ebbe risposto, il ventiseienne aveva sollevato le sopracciglia, domandando, sorpreso: “Da sola? Senza nemmeno una muta di cani o qualche altro cacciatore?”

In tutta risposta Caterina aveva fissato la sua preziosa lancia da cinghiale alla sella e aveva risposto secca: “Da sola.”

Manfredi l'aveva guardata in modo strano, come se avesse voluto aggiungere ancora qualcosa, ma poi si era limitato a salutarla e a consigliarle: “Se nevicasse troppo, evitate sentieri accidentati.”

A quel punto la Sforza era partita e aveva fatto un cenno al suo amante, che, da quel momento, non aveva più incontrato.

Quando sentì bussare alla porta, credette quasi che potesse essere lui, e, invece, quando aprì, si trovò davanti il suo medico personale.

“Vi ho portato le radici che mi avevate chiesto di procurarvi.” disse l'uomo, porgendole una mezza dozzina di boccettini contenenti foglie secche e polveri.

La Tigre lo ringraziò e lo trattenne, approfittandone sia per scambiare due chiacchiere e distrarsi un po', sia per ragguagliarlo sul suo stato di salute.

“E dunque non siete incinta. Come immaginavo io.” sorrise il medico, che era stato fatto accomodare sulla sedia della scrivania: “Ne sono felice.”

“Ne sono felice anche io.” assicurò la donna, benché si conoscesse troppo bene per pensare che in futuro non avrebbe più corso un simile rischio: “Piuttosto... Oggi avete per caso visto da qualche parte Ottaviano Manfredi?”

Il dottore si accigliò, chiedendosi per un attimo se quello strano collegamento mentale fatto dalla Contessa potesse sottintendere qualcosa di preciso, ma poi si limitò a concentrarsi sulla domanda in sé: “No, no... L'ho intravisto stamane, sul presto, ma poi non l'ho più incontrato.”

Caterina strinse un momento i denti, chiedendosi come mai Manfredi – la cui presenza non passava esattamente inosservata, a Ravaldino – fosse irreperibile da così tante ore.

“Avete visitato mio figlio Giovanni, di recente?” chiese, cambiando argomento.

L'uomo annuì, passandosi le mani sulle gambe e rispose: “Come mi avete chiesto, sì. Ogni volta che mi capita lo controllo e vi assicuro che sta benissimo. Deve avere ereditato la vostra tempra.” si permise di commentare, con un sorriso.

“Anche mio marito era di tempra forte.” lo riprese Caterina, cercando di non suonare troppo aggressiva: “È stato solo molto sfortunato.”

“Certo, mia signora.” annuì subito il dottore, capendo come quello che doveva essere solo un complimento alla sua signora, fosse suonato in realtà alla Sforza come una critica nei confronti del defunto messer Medici: “Vostro figlio assomiglia molto a suo padre. Ha i suoi stessi occhi.”

La Contessa incrociò le braccia sul petto e ribatté: “Avete ragione. Ha il suo stesso taglio, anche se li ha di un verde così scuro che sembrano quasi neri, quando c'è poca luce.”

“Un po' come gli occhi blu di vostra figlia Bianca.” commentò il medico, facendo un parallelismo che la Tigre non si era mai trovata a fare.

“Già. In fondo sono fratelli.” liquidò il discorso Caterina: “Vi ringrazio ancora per le erbe. Mi servivano davvero molto...”

Capendo che il loro colloquio stava arrivando alla conclusione, l'uomo si alzò, fece un sorriso pacato e disse: “Qualsiasi altra cosa vi serva, non esitate a chiedermelo. Sono ormai anziano e non lascio questa città da anni, ma qualche conoscenza in giro per l'Italia la conservo ancora.”

“Non mancherò di chiedervi di nuovo i vostri servigi.” assicurò la donna e, con un gesto abbastanza cortese, per quanto irrevocabile, allargò il braccio, indicandogli la porta.

 

Palmerio si portò una mano all'enorme cicatrice che gli deturpava il volto e fece una smorfia. Gli prudeva spesso, ma appena la sfiorava gli faceva ancora un gran male.

Parevano passati secoli, da quando era stato ferito, ma il fastidio che provava gli ricordava quanto, invece, quell'ultima battaglia fosse ancora vicina.

Finalmente vide il messo del Doge, che gli faceva un cenno dal fondo dell'osteria. Era stato contento di poterlo incontrare lì, in un luogo informale, sulla via, al caldo, con davanti a sé un boccale di birra e un po' di zuppa calda.

Appena raggiunse il tavolo del diplomatico, zoppicando ancora molto vistosamente, fece cenno all'oste affinché portasse loro il necessario per rifocillarsi: “Offro io.” disse, poi, al veneziano.

“Non ce ne sarebbe bisogno – fece l'altro, un po' piccato – il Doge può benissimo permettersi di pagarmi il pranzo.”

Tiberti si scrollò un po' di neve che gli era rimasta sul mantello e commentò, a denti stretti: “Forse a voi sì, ma evidentemente non a tutto il suo esercito, dato che da settimane sto provvedendo io a fornire vettovaglie ai vostri, nonché truppe fresche dalle campagne.”

L'uomo del Doge non disse nulla, a riguardo, ma appena arrivò da bere e da mangiare, cominciò il suo discorso.

Riferì a Palmerio che la sua richiesta di una condotta stabile era stata accettata, e che i termini che aveva proposto erano stati vagliati e ritenuti adeguati all'offerta.

Quando Tiberti allungò la mano, per stringere quella del diplomatico e siglare una volta per tutte il patto, questi soggiunse: “Come primo incarico, dovrete puntare a Galeata e soccorrere Ramberto Malatesta di Sogliano, che è in gravi ambasce.”

Nel sentire quel nome, il cesenate incrinò le labbra verso il basso, e la sua mano ebbe una breve esitazione.

Il veneziano, di contro, afferrò la presa e gliela strinse, come a dirgli che ormai non poteva più permettersi di tirarsi indietro: “La guerra è guerra.” gli sussurrò: “E il Doge avrebbe volentieri mandato altri da quel Malatesta. Il suo parente Pandolfo, tanto per cominciare, se non fosse che è corso a casa per vedere la moglie sgravare. O Antonio Maria Ordelaffi, se non fosse un simile imbecille. O anche vostro fratello Polidoro, se solo si capisse a chi va davvero la sua fedeltà...”

Nel sentir citare il fratello – che era stato il primo a buttarsi dal lato veneziano, trascinandolo con sé senza che Palmerio lo volesse davvero – il Tiberti si irrigidì e concluse, di malagrazia: “E va bene, per Dio... Il tempo di organizzare i miei uomini, e partirò per Galeata.”

 

Il trambusto per trasportare Giovan Francesco Sanseverino a Ravaldino si stava ripercuotendo su tutti gli abitanti della rocca.

Dapprima, Caterina era stata contraria a portare il malato in casa propria, e aveva azzardato la possibilità di tenerlo in una locanda o al quartiere militare. Era stato l'ambasciatore di Milano in persona a suggerirle di dimostrare la sua buona volontà lasciandolo soggiornare alla rocca.

“Già il Duca vostro zio ha mal tollerato la vostra mancanza di pazienza con i fratelli Sanseverino, sapete – le aveva detto, con il fare di chi non vorrebbe suonare sgarbato, ma deve comunque parlare chiaro per il bene di tutti – e ha anche saputo che il figlio che avevate chiamato Ludovico in suo onore adesso ha un altro nome...”

“Non immagino che mio zio fosse tanto sentimentale da prendersela per quello.” aveva ribattuto la donna, con un'espressione fintamente stupita: “Senza contare che pure lui è vedovo. Amava molto sua moglie. Credevo mi avrebbe capita.”

Il milanese aveva fatto una piccola smorfia, che aveva fatto pensare a Caterina che forse aveva ragione lei e quell'ultima recriminazione fosse stata inventata solo sul momento, e poi aveva aggiunto, malevolo: “Comunque sia credo non tollererebbe di sapere che un uomo valido e valente come Giovan Francesco Sanseverino, in un momento di difficoltà come questo, sia messo alla porta come un comune villico, a dormire d un pagliericcio di una locanda da due soldi, mentre un soldato di umili origini, tenuto in conto solo perché sa tenere in mano una spada, passi le sue notti sul comodo letto di una Contessa...”

Caterina aveva fatto finta di non cogliere l'allusione a Giovanni Pirovano, che, temeva, ormai molto avessero capito fosse uno dei suoi amanti, e aveva sorriso, dicendo che avrebbe fatto il possibile.

Quando Andrea Pazzi, poi, le aveva detto che Firenze avrebbe potuto risentirsi nel vederla troppo solerte con il Sanseverino, solo per ripicca, aveva deciso di ospitare il malato a Ravaldino.

E così Giovan Francesco, ancora infermo, era arrivato alla rocca e la Tigre aveva avuto cura di farlo sistemare nell'angolo men ospitale, il più lontano possibile dalle sue stanze. Anche se secondo il medico l'uomo non aveva nulla che potesse infettare gli altri, la donna aveva preferito saperlo ben lontano da sé e dai suoi figli.

“Quanto credete che resterà?” aveva chiesto il castellano, che doveva occuparsi di fornire al Sanseverino il personale di camera necessario al suo rango e al suo stato di bisogno.

“Fosse per me, lo fare partire anche stanotte...” aveva risposto la Sforza, contrariata: “Ma temo dovremo tenercelo finché non sarà in grado di andarsene con le sue gambe.”

 

 
   
 
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