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Autore: Adeia Di Elferas    23/08/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La stanza in cui Pandolfo stava aspettando era troppo silenziosa, per essere così affollata. Era come se tutti gli abitanti del palazzo, dal cancelliere all'ultima sguattera di cucina, si fossero radunati in quel piccolo ambiente al solo scopo di starsene zitti e in attesa.

L'unico suono udibile era il grido spezzato di Violante. Non era un ululato continuo, come il marito si era atteso. Erano piccoli urli di dolore, a intervalli abbastanza ampi, come se la donna stesse cercando anche lei di disturbare il meno possibile.

Il Malatesta si sentiva quasi impazzire dalla tensione. Si era detto che non gli importava di quel figlio, che tanto sua moglie lo odiava e che, comunque fosse andata, lui era un uomo e certe cose non lo dovevano sfiorare. Se il piccolo fosse morto o, peggio, fosse stata una femmina, avrebbe solo dovuto aspettare qualche giorno e poi avrebbe potuto cercare di mettere di nuovo incinta Violante, senza troppi scrupoli. Tanto lo odiava già, sia che lui fosse con lei duro e violento, sia che si mostrasse più malleabile e comprensivo.

La presenza di tante persone, i loro respiri pesanti, i loro abiti pregni di qualsiasi genere di tanfo e l'aria chiusa, gli stavano dando la nausea.

Avrebbe voluto volentieri alzarsi e andare ad aprire la finestra, ma non voleva che tutti lo guardassero, chiedendosi il perché del suo gesto.

Fuori da lì, Rimini era battuta da una spessa pioggia mista a neve e Pandolfo si scoprì intento a pensare che sarebbe stato meglio là, in mezzo alle intemperie, a tirare di spada contro i fiorentini, che non chiuso in quel salotto, a pregare per un figlio che non sapeva nemmeno se sarebbe nato.

Allentandosi un po' il colletto del giubbone, le dita infilate tra le lattughine, per forzare un po' anche quello della camicia, il Malatesta quasi non si accorse che, nella siepe di taciturni spettatori, si era fatta largo una delle ragazze che stavano aiutando la nutrice.

“Mio signore! Mio signore!” chiamò al giovane, cercandolo.

Un po' intontito, sia per la lunga attesa, sia per il caldo che lo stava facendo sudare copiosamente, l'uomo si alzò dall'ottomana su cui si era spalmato nell'attesa e chiese: “Che c'è? Che è accaduto?”

“Vostro figlio è nato!” esclamò la giovane, tenendo le mani sporche di sangue in grembo: “Sta bene e la levatrice dice che potete venire a conoscerlo.”

“Dunque è maschio?” chiese il Malatesta, raggiungendo la porta a suon di spintoni.

Mentre la ragazza riconfermava la notizia, nel salone qualcuno si permise di esprimere il proprio sollievo e qualcun altro fece le proprie congratulazioni a Pandolfo, che, però, era già andato nella stanza della moglie.

“Hai visto? Ti ho fatto un maschio.” la voce di Violante era poco più che un sussurro roco.

Il Malatesta, che si era avvicinato alla culla imbottita di pizzi in cui era stato messo suo figlio, non l'aveva nemmeno guardata. Sollevò gli occhi su di lei solo nel sentirla parlare e, anche in quel caso, la intravide e basta, tra i lunghi capelli neri che erano scesi a coprirgli il volto.

“Si chiamerà Sigismondo.” decise l'uomo, facendo un cenno alla nutrice – una ragazzetta arrivata a palazzo solo quel giorno – affinché prendesse il piccolo: “Portatelo di là, affinché lo vedano tutti, e poi badate a lui. Adesso devo parlare con mia moglie.”

Violante, dal letto, osservò con un misto di apprensione e rabbia il figlio appena nato che veniva portato via e poi, quando il marito ebbe fatto uscire tutte le donne presenti, ritrovò il coraggio di parlargli: “Adesso che ti ho dato quel che volevi, mi lascerai in pace.”

“Corri troppo.” disse lui, a voce bassa.

Si sedette sul materasso, incurante del sangue che ancora impregnava il lenzuolo. In fondo era un soldato, avvezzo come non mai alla vista e all'odore del sangue. Molte volte, dopo una battaglia, si era trovato coperto di sangue fino alla punta dei capelli...

Ricordava ancora benissimo il calore e l'odore del sangue che era sgorgato dalle vene di suo zio, quando l'aveva ucciso. Era stata sua madre, a mettergli quel pugnale tra le mani e a sussurrargli nell'orecchio quello che avrebbe dovuto fare...

“Se vorrai altri figli da me, dovrai lasciarmi vivere come voglio, e lasciare che ti accetti nel mio letto solo quando lo decido io.” sussurrò la Bentivoglio, gli occhi fissi sul marito e i capelli incollati alla fronte dal sudore.

L'uomo si passò una mano sulle labbra sottili, pensoso, poi, non riuscendo a trattenersi, si sporse su di lei e le tappò la bocca, dicendole, minaccioso: “Io sono tuo marito e tu farai quello che ti dico io e basta. I figli ci servono. C'è una guerra. Avere un solo erede sarebbe un azzardo. Quindi rimettiti in fretta, perché quando tornerò dalla prossima campagna dovrai essere pronta a farti mettere in pancia un altro figlio. Mi hai capito?”

In tutta risposta, Violante finse di annuire, facendo abbassare la guardia al marito e, appena lui mosse appena la mano con cui la teneva zitta, gli morse un dito.

“Ma che..!” sbottò lui, sollevando il braccio, come per colpirla.

La mano gli restò però a mezz'aria, perché la levatrice era tornata, dicendo che doveva controllare la sua signora, per essere certa che stesse andando tutto bene.

Il Pandolfaccio, allora, tramutò in modo artificioso quello che sarebbe dovuto essere un pugno, in una carezza e poi, alzandosi dal letto, disse: “Rimettiti, moglie adorata. Quando tornerò di nuovo a Rimini, so già che non potrò resistere alla tua bellezza...”

La levatrice fissò un momento gli abiti macchiati di sangue del Malatesta e gli occhi pieni di rancore della Bentivoglio, ma, come ogni riminese sapeva, era meglio non impicciarsi degli affari di quel tipaccio. Così fece come se non avesse visto nulla e, lasciata di nuovo sola con Violante, non andò oltre i doveri imposti dalla sua professione.

 

“E così Pandolfo Malatesta è diventato padre...” commentò Cesare Feo, quando sentì le parole dell'Oliva.

Erano a pranzo e al tavolo principale, a parte i due uomini e la Contessa, c'erano anche Bianca e Galeazzo.

“Probabile che padre di qualche poveraccio lo fosse già.” precisò Caterina, intingendo un pezzo di pane nero nel sangue che colava dal suo pezzo di carne: “Diciamo che ha finalmente un erede legittimo.”

Il castellano fece un gesto come a dire che le dava ragione e poi soggiunse: “Questo per ora cambia poco le cose, comunque. Che Venezia decida di tenere o meno i Malatesta alla guida di Rimini, per noi non fa molta differenza, al momento.”

L'Oliva si trovò d'accordo con loro, tuttavia si sentì in dovere di aggiungere: “Ricordatevi, però, che la moglie del Malatesta è una Bentivoglio. Se anche non ritenete di dover temere Pandolfo, non dimenticate che il nonno di suo figlio è il signore di Bologna. Lo stesso che ha per nipote anche Astorre Manfredi.”

“Non crediate che me lo potrei dimenticare.” disse la Sforza, con un mezzo sbuffo.

Bianca, accanto a lei, era andata avanti a mangiare in silenzio, come se la cosa non la riguardasse, ma la madre avvertiva la sua preoccupazione. Sapeva, come tutti in fondo, che uno dei vero ostacoli alla rescissione del suo contratto di matrimonio stava proprio nello stretto legame tra il Manfredi e il Bentivoglio. Bologna confinava con loro e rischiare di inimicarsela in modo tanto netto avrebbe potuto rivelarsi fatale, soprattutto con un'altra guerra già in atto.

“Piuttosto...” fece dopo un po' la Tigre, smettendo per un solo istante di mangiare: “Sapreste dirmi dove posso trovare Ottaviano Manfredi?”

L'Oliva si accigliò e rispose: “Sono un paio di giorni che non lo vedo, in effetti...”

“Se non sapete voi dove sia messer Manfredi – disse il castellano, mal celando una velata condanna nelle sue parole – non vedo come potremmo saperlo noi.”

La donna, allora, preferì non insistere e finì di mangiare in silenzio. Dopo pochi minuti Cesare Feo aveva vuotato il suo piatto ed era tornato al lavoro e così l'Oliva e alla Contessa erano rimasti come commensali solo i due figli.

“Nemmeno io l'ho più visto.” disse piano Bianca: “Credevo l'aveste mandato voi da qualche parte.”

La madre fece segno di no e, prendendo un po' di vino nero, spiegò: “L'ho incrociato mentre andavo a caccia, l'altro giorno, e poi non l'ho più visto.”

“Non l'avrà per caso richiamato Firenze?” chiese Galeazzo, che, giustamente, ragionava su Manfredi solo in termini militari.

Anche la Sforza aveva avuto qual sospetto, ma poi aveva notato che il suo manipolo di soldati era ancora al Quartiere Militare e così aveva accantonato l'ipotesi.

“Quando si farà vivo...” cominciò a dire, ma non concluse la frase.

“Madre – riprese Galeazzo, non appena il silenzio si fece un po' troppo lungo – è vero che presto torneranno in città i fuoriusciti a cui avete accordato un salvacondotto speciale?”

Caterina annuì, vedendo come intanto stessero entrando nella sala dei banchetti Giovanni da Casale e uno degli uomini della scorta di Giovan Francesco Sanseverino. Di certo stavano discutendo del malato, visto lo sguardo truce di Pirovano e il gesticolare abbastanza agitato dell'altro.

La Contessa fece un mezzo sospiro. Non doveva mai dimenticarsi che quel giovane uomo altro non era se non uno dei tanti cani da guardia di suo zio Ludovico...

“Dunque, è vero?” chiese Bianca, facendo eco al fratello, al solo scopo di risvegliare la madre dai suoi pensieri.

Aveva notato come la Leonessa avesse occhieggiato in direzione di Giovanni da Casale e sapeva bene che tipo di sguardo fosse il suo. Doveva confessare che pure lei trovava Pirovano un bellissimo uomo, per quanto molto diverso da Ottaviano Manfredi, e quindi in parte poteva capire sua madre. Però capiva anche che quella confusione non avrebbe fatto bene né alla Contessa, né allo Stato...

Caterina dovette fare un bello sforzo di memoria per ricordare cosa le fosse stato chiesto all'inizio, ma alla fine se la cavò abbastanza bene: “Sì, ho firmato molti salvacondotto... Per lo più per assassini e ladri. Nemmeno uno per i traditori, questo sia chiaro. Tra poco i fuoriusciti che si stanno radunando poco fuori da Forlì torneranno per essere arruolati, come prevede l'amnistia.”

“Diventeranno soldati perduti?” chiese Bianca, chiedendosi altrimenti in che altro modo sua madre avrebbe potuto usare dei fuorilegge nel suo esercito quasi perfetto.

La donna, finendo in un sorso unico il suo vino, accorgendosi che Pirovano e l'altro stavano per sedersi poco lontani da lei, rispose in fretta: “Non vedo che altro potrebbero diventare...” e detto ciò, salutò i figli con due parole rapide e lasciò il salone.

Giovanni da Casale aveva notato il suo modo frettoloso di finire il pasto e andarsene e si chiese perché mai avesse fatto così. Era da qualche giorno che gli sembrava che la Tigre lo sfuggisse. Era forse solo una sua sensazione, anche se...

“Dunque scriverete voi al Moro per dirgli che Fracassa è passato da San Benedetto e si è fermato ad alloggiare a Dicomono e che presto si dirigerà a Ponte a Sieve e da lì ad Arezzo?” gli chiese l'altro milanese.

Pirovano, gli occhi scuri ancora rivolti alla porta oltre cui era sparita Caterina, fece un suono gutturale e poi borbottò: “Sì, sì, scriverò io al Duca...”

 

Ottaviano Manfredi si sedette in silenzio al tavolino che gli era stato indicato. Non sapeva nemmeno di chi fosse quella casa e poco gli importava saperlo.

In quei giorni, tutte le volte che aveva dovuto incontrare il messo del Doge, era stato condotto in un'abitazione differente, quindi, dopo un po', aveva smesso di farsi quel genere di domande. L'unica cosa di cui era acutamente conscio era il fatto che l'avessero disarmato prima di lasciargli varcare l'uscio.

L'unica nota positiva di quella stanza era il camino acceso. Manfredi era rimasto tutto il giorno all'aperto, sotto un nevischio fastidiosissimo e incessante e quindi potersene stare al caldo gli pareva una conquista incredibile.

Se poi fosse arrivato anche del vino caldo e speziato, allora Ottaviano si sarebbe sentito direttamente un re.

Quando il messo veneziano arrivò, scortato da ben due guardie, e si sedette davanti a lui, portava in effetti con sé due calici colmi fino all'orlo. L'odore che saliva dal liquido scuro come il sangue era invitante e Manfredi sentì lo stomaco vuotò brontolare. Tuttavia decise subito di non berne nemmeno un sorso. Non si fidava di nessuno, tanto meno degli uomini del Doge.

“E dunque? Che mi dite? La mia proposta piace al vostro signore?” chiese il faentino, accantonando il calice che gli era stato messo dinnanzi.

Il veneziano notò il gesto dell'altro e, prima di entrare nel merito, chiese: “Non bevete il vino? Vi assicuro che è ottimo.”

“Non ho sete.” mentì Manfredi: “Allora?”

Il messo del Doge si tolse con lentezza i guanti imbottiti di coniglio e poi prese il suo bicchiere e le bevve quasi tutto, guardando Ottaviano di sottinsù, e poi finalmente rispose: “Abbiamo vagliato la vostra proposta, ma abbiamo dei vincoli imprescindibili.”

“Sentiamo.” fece il faentino, accomodandosi meglio sulla sedia e posando le mani in grembo, apparentemente molto disteso, quasi stessero parlando del clima o della qualità del vino messo in tavola.

“A Venezia serve togliere di mezzo la Tigre di Forlì. Quella donna è impossibile da controllare e da prevedere ed è parente del Moro e della moglie dell'Imperatore Massimiliano. Eliminando lei, decapiteremmo la difesa fiorentina in Romagna e la guerra sarebbe quasi vinta.” spiegò il veneziano, parlando lentamente, adeguandosi all'atteggiamento affettatamente tranquillo del suo interlocutore: “Dunque, il Doge si impegna a eliminare Astorre Manfredi e il suo tutore e porre voi alla guida di Faenza, a patto che voi uccidiate la Tigre.”

Ottaviano era rimasto immobile, raggelato. Non si era atteso una controproposta tanto estrema e, per quanto volesse continuare nella sua farsa, non poteva più fingere la calma di poco prima.

“Quello che mi chiedete non è facile.” soppesò Manfredi, dando mostra di non aver già scartato a priori l'idea di accettare: “E poi anche se lei morisse, suo figlio...”

“Il Conte Riario è un incapace, lo sanno tutti.” tagliò corto il veneziano, finendo il proprio calice di vino: “Quindi se ucciderete lei, Imola e Forlì imploderanno su loro stesse e per noi sarà semplice farne una nostra proprietà.”

Il faentino cominciava a sudare freddo. Solo in quel momento si era reso conto che le guardie vicino alla porta erano molto più armate di quanto non sarebbe stato necessario nel corso di una mera missione diplomatica.

Per prendere tempo, ripeté: “Quello che mi chiedete non è facile.”

“Per voi dovrebbe esserlo, invece.” ribatté l'uomo del Doge: “Chi può uccidere facilmente la Tigre, se non qualcuno che può infilarsi nel suo letto quando vuole?”

“E cosa vi fa credere che io e lei...” iniziò a dire Manfredi, ma a quel punto il legato lo interruppe bruscamente.

Dopo un gesto stizzito della mano, sbottò: “Quello che fa la Tigre nella sua camera da letto è più di pubblico dominio di quanto lei stessa creda. Sappiamo che voi siete uno dei suoi amanti e tra tutti siete quello che ha più interessi a farla fuori. Quindi, il nostro consiglio è quello di godervela ancora una notte e poi, mentre dorme accano a voi, ammazzarla senza darle il tempo e il modo di difendersi.”

Manfredi aveva notato come le due guardie si fossero fatte più vicine e avessero entrambe posato una mano sull'elsa della spada.

“Allora? Accettate?” chiese il messo veneziano, sorridendo mellifluo.

“Se anche la uccidessi come dite voi...” soppesò Ottaviano, fingendosi realmente perplesso solo ed esclusivamente per le dinamiche di quell'omicidio su commissione: “Appena uscissi dalla sua camera verrei additato come colpevole e ucciso a mia volta.”

“Sapete cavarvela. E morta la Tigre state pur certo che nessuno correrà a vendicarla. Quella donna è rispettato solo perché è temuta.” minimizzò il veneziano: “Quindi accettate?”

Manfredi si morse il labbro e con i suoi occhietti azzurri controllò la stanza e valutò che le vie di fuga erano pochissime e tutte poco accessibili.

Così, con un mezzo sospiro, disse: “Va bene, accetto. Ma non posso farlo immediatamente. La Tigre ancora non si fida, a dormire in mia presenza.”

“Metteteci il tempo che vi serve, ma non esagerate.” intimò il veneziano, allungando la mano.

Ottaviano la strinse e poi, alzatosi, uscì dalla stanza con addosso ancora lo sguardo dei tre veneziani. Mentre tornava in strada, il nevischio che vorticava attorno a lui e i polmoni che tornavano a riempirsi di aria fresca, il faentino si chiese come avrebbe fatto a uscire da quella situazione.

Se la Sforza fosse stata un'altra donna, se questa proposta gli fosse stata fatta anche solo un paio d'anni prima... Avrebbe agito senza nemmeno pensarci. L'idea di uccidere la Tigre, però, era ormai per lui inconcepibile e sapeva che, prima o poi, avrebbe pagato cara la sua decisione di tradire un impegno preso niente meno che con il Doge di Venezia.

 

“Sai dov'è Bernardino?” chiese Caterina, avvicinandosi a Galeazzo.

Il ragazzino ripose sul tavolo della sala delle armi la balestra con cui stava facendo pratica, e rispose alla madre: “Non di preciso... So che voleva uscire in città, ma credo di averlo convinto a restare alla rocca. Probabilmente è nella stanza dei giochi.”

La Contessa lo ringraziò, soprattutto per il tentativo di tenere il fratello minore lontano dalla strada e dai vicoli in cui, spesso e volentieri, accendeva delle risse tremende tra i suoi coetanei, e poi soggiunse: “Più tardi esco a cavallo per sistemare alcuni punti di difesa. Vorresti accompagnarmi?”

Galeazzo raddrizzò le spalle e annuì all'istante: “Certo, madre.”

La Tigre gli dedicò un sorriso d'apprezzamento, che gonfiò il petto del ragazzino d'orgoglio, e poi partì per cercare Bernardino.

Voleva chiedere anche a lui di accompagnarla, quel giorno, perché doveva fare un giro di ricognizione abbastanza tranquillo, e quindi credeva che sarebbe stata una buona occasione per tenerlo occupato con qualcosa che potesse interessarlo e insegnargli qualcosa.

Cercò nella stanza dei giochi, dove le era stato indicato, ma non trovò nessuno. Azzardò un giro nella sala delle letture, ma c'erano solo Bianca e il suo precettore, che discutevano di matematica.

Allora, colta da un pensiero improvviso, andò nella stanza di Giovannino.

“Lui non è mio fratello, così come non lo sei tu!” sentì dire, da dietro la porta serrata e, senza fatica, riconobbe in quella voce colma di rabbia quella di suo figlio Cesare.

“Ti ho detto di non toccarlo!” esclamò di rimando proprio Bernardino: “Fagli qualcosa di male e ti giuro che ti ammazzo come tu hai ammazzato mio padre!”

Caterina spalancò la porta giusto in tempo per vedere il figlio di Giacomo saltare al collo del figlio di Girolamo, mentre nella sua culla il piccolo Giovannino scoppiava a piangere come un pazzo.

“Smettetela subito!” urlò la donna, frapponendosi tra loro, con fatica.

Malgrado il suo grido, nessuno dei due sembrava intenzionato a mollare la presa sull'altro e così il diciottenne e il bambino di quasi otto anni continuavano a strattonarsi e lanciarsi maledizioni a vicenda.

Decisa a farli smettere, la Leonessa prese per la collottola Bernardino e diede uno spintone a Cesare, facendolo barcollare. Malgrado tutta la loro bellicosità, in fondo, il primo era appena un bambino e il secondo era secco e debole, del tutto incapace di tenere testa alla madre.

“Madre, io...” cominciò a dire il più piccolo, rosso in viso e quasi sul punto di piangere, più per la rabbia, che per altro.

Da fuori, Caterina aveva sentito anche abbastanza per capire chi dei due figli fosse il reale problema, perciò zittì il Feo e gli intimò di cercare di calmare Giovannino che, nel sentirli urlare, si era spaventato.

Mentre Bernardino consolava il fratello minore, con scarso successo, la Sforza prese per una manica Cesare e lo portò fuori dalla camera, entrando subito in quella adiacente.

La stanza era una di quelle rimaste vuote e usata saltuariamente per qualche ospite e dunque era gelata, perchè da troppo tempo il camino era spento.

La Contessa fissò con sdegno il suo secondogenito. Il suo naso lungo, la tonsura sempre più ampia e il suo sguardo allo stesso tempo vuoto e aggressivo le fecero saltare i nervi.

Caricando il braccio con forza, gli diede uno schiaffo che lo fece vacillare sul posto: “Non devi mai più permetterti di fare del male a uno dei miei figli! Né con la forza, né con le parole!”

Il Riario sosteneva il suo sguardo, tenendo una mano sulla guancia arrossata. La donna lo strattonò, trattenendosi a stento dal percuoterlo in modo più serio.

“Non ti voglio più qui. Ti ho sopportato anche troppo.” decretò, scuotendo il capo: “Se tuo cugino Raffaele finge di non ricevere le mie lettere, manderò un ambasciata direttamente a Rodrigo Borgia.”

Cesare ascoltava in silenzio, l'espressione che iniziava a perdere un po' di sicurezza, come se la prospettiva di dover lasciare Forlì in parte lo atterrisse.

“Ti facciano sagrestano, prete, Vescovo o Cardinale non me ne importa un accidente!” esclamò la Tigre, furiosa: “Mi basta solo che ti trovino un posto dove vivere che non sia casa mia!”

Il Riario fece per dire qualcosa, ma la madre lo frenò, sollevando una mano: “Hai perso la tua occasione di avere la mia pietà il giorno in cui hai deciso di uccidere il mio Giacomo. Ho aspettato anche troppo...” detto ciò, andò verso la porta e sottolineò: “Se oserai fare ancora qualcosa a Bernardino o a Giovannino, prima della tua partenza, sappi che questa volta ti ammazzerò con le mie mani.”

Uscita dalla camera, Caterina cercò di calmarsi e andò prima di tutto dal castellano. Gli disse di contattare Achille Tiberti, chiedendogli che procurasse loro un uomo fidato, di sana nobiltà e in grado di portare ambasciate importanti. Poi predispose che, fino alla partenza di Cesare, la porta di Giovannino venisse presidiata da guardie giorno e notte e che anche Bernardino, nei limiti del possibile, venisse tenuto d'occhio.

Cesare Feo annuì e si appuntò ogni cosa, e non fece domande, non volendo conoscere le risposte.

Passata solo in parte la furia che l'aveva spinta a quella serie di decisioni, la donna tornò da Bernardino e gli chiese se volesse fare il giro di ricognizione con lei e Galeazzo.

“Accompagneremo Giovanni da Casale tutt'attorno Forlì, per decidere dove piazzare le squadre di appostamento.” spiegò la Leonessa, quando il figlio le chiese che avrebbero fatto di preciso.

“Va bene, madre.” asserì a quel punto il Feo.

“E stai tranquillo, per quello che è successo prima. So che è stato Cesare a cominciare.” soggiunse la Contessa, prima di lasciarlo per andarsi a preparare.

Come aveva sperato, nel sentirsi sollevare dalla paura di una punizione, Bernardino si rasserenò e riuscì perfino a sorridere, ricordandole, con quell'espressione, il Giacomo dei primi tempi, il ragazzo spensierato ed entusiasta che le aveva concesso una boccata d'aria fresca dopo anni di oscura prigionia.

 
   
 
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