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Autore: Adeia Di Elferas    23/08/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Stai lontana da quella camera – aveva intimato Caterina alle figlia, quando l'aveva vista andare verso la stanza di Giovan Francesco Sanseverino per portargli una brocca di vino, come da lui richiesto – quell'uomo non è una persona affidabile.”

“Madre...” aveva provato a ribattere Bianca: “Messer Sanseverino si regge a mala pena in piedi, non credo che possa essere un pericolo, per me.”

“Tu fai quello che ti dico e basta.” aveva decretato la Tigre, senza ammettere repliche: “Già si chiacchiera sul tuo conto per colpa mia, se ti sapessero chiusa in una stanza da sola con un uomo che ha persino espresso il desiderio di sposarti...”

Quella rivelazione aveva torto lo stomaco della Riario a tal punto che lei per prima aveva ceduto la brocca alla prima serva di passaggio e aveva assicurato che non avrebbe mai più cercato di avvicinare Giovan Francesco, se non per obbligo.

Da quel momento in poi la ragazza si era ben guardata anche solo di avvicinarsi a quell'ala della rocca e aveva preferito restare il più possibile nelle cucine o nella sala delle letture.

Il clima rigido le rendeva penoso l'uscire, anche solo in cortile, e così si stava dedicando a passatempi prettamente casalinghi, come il badare al fratello Giovannino, il cucinare e il cucire.

Vedeva attorno a sé tutti quanti pensare solo alla guerra – sua madre per prima – ma lei riusciva a estraniarsene abbastanza bene. Sapeva che crescere in una rocca abitata quasi solo da soldati e da servitù non era l'ideale, per una giovane della sua estrazione sociale, ma doveva confessare che le piaceva la libertà che quella vita le stava dando.

C'erano dei pericoli, quello era vero, e dei momenti difficili, ma di contro poteva godere di un'ampiezza di movimento che la maggior parte delle sue coetanee di uguale nobiltà non si sognavano nemmeno.

Quel pomeriggio, per esempio, era sfuggita alle sue lezioni di cucito e, assieme a un'amica che faceva la sguattera in cucina, era andata a nascondersi in un punto da cui si poteva vedere nei baraccamenti dei soldati della rocca.

Come sua madre aveva sancito da tempo, i soldati dovevano provvedere alla propria igiene in modo più rigoroso rispetto alla milizia straniera e quello era un giorno dedicato ai bagni. Invece di costringerli a recarsi ai bagni pubblici, come facevano gli altri, gli uomini di Ravaldino potevano usufruire dei vasconi di legno messi a disposizione proprio dalla Contessa.

Bianca e la sua amica, che aveva un paio d'anni meno di lei, conoscevano bene i calendari di quel tipo e si erano messe in un punto che permetteva loro di guardare indisturbate i soldati spogliarsi e mettersi nelle vasche. Non parlavano, mentre li spiavano, terrorizzate all'idea di essere scoperte, ma di solito, appena lasciavano la loro postazione, non facevano che commentare quanto visto fino a sera.

Quella volta, mentre erano appollaiate con il fiato sospeso nella loro alcova segreta, videro arrivare nel baraccamento anche Galeazzo.

La Riario si fece seria e lasciò intendere all'altra che volesse andarsene. Non sapeva che suo fratello aveva cominciato a seguire anche quelle usanze dei suoi soldati, e non ci teneva a vederlo mentre si faceva il bagno.

La sguattera, però, non si mosse, e così Bianca poté solo guardare altrove finché Galeazzo non si fu asciugato e rivestito.

“Niente male, tuo fratello...” commentò l'amica, quando ebbero lasciato il loro punto di osservazione.

“Ma è solo un ragazzino...” aveva sviato il discorso Bianca: “Farà tredici anni a dicembre...”

“A parte che certi a tredici anni si sposano...” aveva detto l'altra, con un sorrisetto che la diceva lunga sui suoi pensieri: “Se vuoi vederlo come un ragazzino... Allora ti dico solo che promette bene.”

Bianca non aveva voglia di discutere dell'aspetto di Galeazzo, perciò passò a commentare quello di altri soldati visti quel giorno, ma la sua amica, dopo un po', riportò il discorso dove voleva lei.

“Tua madre l'ha già promesso a qualcuna?” chiese la giovane, interessata.

“No, non che io sappia.” rispose la Riario, per poi soggiungere: “Lui è il suo preferito, dopo Giovannino. Immagino che lo lascerà libero di sposare chiunque vorrà, quando sarà il momento.”

La sguattera fece un'espressione colpita e poi rise, apparentemente già dimentica di tutto l'interessa provato per il figlio della Tigre: “Beato lui! Comunque, se potessi scegliere, quale sposeresti, tu, tra quelli che abbiamo visto oggi?”

Sorvolando volutamente sul fatto che per legge e per Dio lei era già sposata ad Astorre Manfredi e lo sarebbe stata finché sua madre non avesse trovato il modo di liberarla, Bianca si mise a ragionare ad alta voce e, riprendendo a ridere con la leggerezza dei suoi diciassette anni, seguì l'amica fin nelle cucine, dove andarono avanti a chiacchierare fino a sera inoltrata.

 

Giovanni Bentivoglio chiuse la missiva appena arrivata da Rimini, con cui gli si annunciava che sua figlia Violante aveva finalmente messo al mondo un figlio maschio e in ottima salute.

'Suo padre ha imposto a lui il nome di Sigismondo', spiegavano nella lettera.

Il signore di Bologna avrebbe preferito che suo nipote si chiamasse come lui, ma sapeva che non era il caso di sottilizzare. In fondo quel bambino era un Malatesta e dunque era giusto che portasse un nome malatestiano.

Il secondogenito, magari, quello sì che avrebbero potuto chiamarlo Giovanni.

“Rispondete – disse al suo cancelliere, ripiegando il messaggio e cominciando vagare per il salone con ampie falcate – che siamo molto felici di questo lieto evento e che speriamo che il governo di nostro genero Pandolfo possa trarre gran beneficio da questo erede. Non di meno, ricordiamogli anche che la guerra si sta facendo molto complicata e che noi ci auspichiamo che prima di ogni cosa il suo aiuto vada ai parenti.”

“Volete che specifichi qualcosa circa Faenza?” domandò il cancelliere, ben sapendo a che tipo di aiuti mirasse il suo signore.

Il Bentivoglio ci pensò a lungo. Se solo sua figlia Francesca non fosse praticamente uscita di senno, dopo aver ucciso il marito Galeotto, avrebbe potuto usarla per far da tramite con Violante e sfruttare le donne come canale di comunicazione. Sarebbe stato più sicuro, se non più facile.

“No. Per il momento restiamo sul vago.” decretò Giovanni, ma poi precisò: “Ma sul finale aggiungiamo una frase che paia banale... Qualcosa come: ci aspettiamo che presto anche mio nipote Astorre possa generare un erede assieme alla sua augusta sposa, madonna Bianca di Forlì. Pandolfo, se vorrà, capirà.”

“E se non volesse capire?” domandò il cancelliere, scettico.

“In tal caso, a guerra finita, ci ricorderemo di chi ci è stato utile e di chi ci è stato di peso.” sorrise mellifluo il signore di Bologna.

 

Polidoro Tiberti era appena partito da Forlì, sotto un cielo bianco, e su una via ancora coperta da un lieve strato di neve che minacciava di ghiacciarsi.

Caterina l'aveva guardato allontanarsi stando sulle merlature della rocca. Il piccolo corteo formato dal suo nuovo inviato e da un manipolo di soldati scelti che avrebbero dovuto salvaguardare la sua incolumità fino a Roma era sparito all'orizzonte abbastanza in fretta e così la donna era scesa dai camminamenti e aveva cominciato a dedicarsi agli impegni della giornata.

“Mia signora, ci sono notizie dal fronte.” la informò il castellano, appena la trovò.

Teneva in mano l'ultimo rapporto che era stato recapitato a Ravaldino pochi minuti addietro.

“Ebbene, che si dice di mio figlio? Si nasconde dietro Corradini come immagino o riesce anche a sembrare un uomo, di quando in quando?” chiese la Contessa, con una smorfia amara, dirigendosi alla sala delle armi.

Il castellano, seguendola, parafrasò il messaggio arrivato dal Casentino: “Vostro figlio è al seguito sempre di Paolo Vitelli, con ottanta lance e quaranta cavalleggeri, e dice che non ci sono problemi di sorta né con i nostri uomini né nella campagna.”

“Quindi sicuramente Vitelli lo sta tenendo nelle retrovie.” soppesò Caterina, andando ad aprire un armario e tirando fuori alcune spade corte.

Qualcuno la trovava eccessivamente pignola, in merito alla cura delle armi, ma la Tigre non si sentiva tranquilla se non sapeva ogni spada perfettamente affilata e ogni balestra del tutto funzionante e così, molto spesso, era lei stessa a occuparsi di filature e revisioni.

Mentre la Contessa si sedeva sullo sgabello e impugnava la pietra cote per dare il via al suo oculato lavoro, il castellano aggiunse: “Malgrado tutto vada per il meglio tra i nostri, però, messer Ottaviano sottolinea l'inquietudine di Paolo Vitelli. Dice che Firenze non lo paga e che lo sta menando per il naso e che ormai al campo l'hanno notato in molti.”

“L'avranno notato in molti davvero – commentò a denti stretti la donna – per arrivare a notarlo perfino mio figlio.”

Cesare Feo preferì non dire nulla in merito e appoggiò la lettera al tavolo, mentre la sua signora cominciava a passare la cote sulla lama di un piccolo gladio: “Nel caso vogliate leggerla...”

La Leonessa ringraziò, ma poi proseguì a fare il filo alla spada, congedandosi implicitamente con il castellano che, colto l'implicito, fece un rigido inchino e la lasciò in pace.

Caterina attese di vederlo uscire e di essere di nuovo sola, prima di smettere di passare la pietra sul ferro e restare un momento immobile, pensierosa. Per quanto non avesse voglia di leggere le parole vergate dalla mano nervosa e un po' incerta di Ottaviano, afferrò la lettera e la passò al setaccio.

Se era vero che Paolo Vitelli cominciava a essere scontento di Firenze, allora la situazione si faceva molto delicata. Le pareva impossibile che la Signoria si stesse permettendo di far adirare quello che era un po' la loro unica speranza, soprattutto sapendo i veneziani nel Casentino...

Riappoggiò la missiva al tavolo e, con lentezza, riprese in mano la cote. Ottaviano Manfredi non era ancora rientrato in Forlì e nessuno aveva saputo dirle dove fosse. Da un lato era preoccupata per lui. Poteva essere uscito a cavallo ed essere caduto, poteva essersi perso nei boschi, o essere stato assaltato da qualche ladro. Dall'altro, invece, era arrabbiata con lui. Poteva essere andato a fare la spia a qualcuno, o aver deciso che la campagna contro Faenza non era poi una sua priorità, e averla quindi abbandonata.

Caterina sospirò. Da un paio di notti faceva andare Giovanni da Casale nella sua stanza e si distraeva con lui. Le piaceva, non poteva negarlo, e più tempo passavano insieme, più le piaceva anche come uomo.

Nonostante il suo innegabile fascino e le sue innegabili capacità, Pirovano aveva sempre qualcosa di trattenuto, come se non fosse abituato ad avere a che fare con una donna. L'amava disperatamente, fino a stremarsi, ma non riusciva poi mai a sbilanciarsi più di tanto, come invece aveva avuto già più volte modo di fare Manfredi, che, dopo la schermaglia tra le lenzuola, spesso e volentieri proseguiva la sua campagna di conquista anche con gesti affettuosi e parole accattivanti.

Deglutendo, la Tigre pensò che tra i due non sapeva dire chi preferiva. In un modo o nell'altro, li voleva entrambi.

Forse erano pensieri futili, da fare con una guerra in atto, ma la Sforza non riusciva a evitare di pensarci. Giovanni era morto da un paio di mesi appena, eppure il vuoto che aveva lasciato era profondo come se le mancasse da secoli. Quello che stava facendo, quasi giocando con quei due uomini e cercandone altri, quando le dava noia sentirsi contesa tra loro, le dava solo la possibilità di non pensare troppo. E di placare almeno in parte la fame che la tormentava di continuo.

Dando una passata energica di cote sulla lama, la donna sussurrò tra sé: “Tanto se uno non torna, devo accontentarmi dell'altro...”

 

Isabella Este scosse il capo, rileggendo i conti che le erano stati posti davanti dal cancelliere. Suo marito, alla fine, si era dimostrato debole ancora una volta e aveva ceduto.

Il vicecollaterale veneziano Girolamo Del Monte l'aveva assillato per settimane, quello era vero, minacciandolo e seguendolo in modo ossessionante, ma Isabella era certa che, al posto di suo marito, non avrebbe mai ceduto.

“Mancano ancora tremila ducati.” fece presente il cancelliere, indicandola la sottrazione che aveva appuntato in mezzo alla pagina: “Per ora Del Monte ha detto che possiamo ritenerci a posto, ma ha anche aggiunto che il Doge non si accontenterà di ottomila ducati, soprattutto perché pare sappia quanto il Moro ha premesso al Marchese.”

L'Este si morse l'unghia del pollice e, per il nervosismo che stava accumulando, prese dal vassoio accanto a sé un altro pezzo di biscotto. Ormai erano più le volte che si trovava a mangiare tutto quello che le capitava a tiro rispetto a quelle in cui cercava di calmarsi usando il ragionamento. Di quel passo – e i suoi abiti già lo lasciavano intendere – sarebbe diventata una botticella.

Anche se quella volta riteneva che la colpa non fosse esclusivamente di Francesco, pensare a come suo marito stesse gestendo la questione la faceva andare su tutte le furie.

Saputo del suo ingaggio con Milano, ingaggio costato a Isabella molto, soprattutto in termini di orgoglio ferito, il Doge aveva ben pensato di chiedere indietro al Marchese gli undicimila ducati che gli erano stati consegnati quando aveva accettato una condotta da Venezia.

Se il Gonzaga all'inizio, spinto dalla moglie, non aveva ceduto, alla fine, non appena il Duca di Milano gli aveva versato i primi diecimila ducati, ne aveva subito girati ottomila alla Serenissima.

E adesso, invece di starsene a Mantova e curare i propri affari in attesa che Milano onorasse in toto i termini del loro contratto, Francesco aveva preso un cavallo, qualche cacciatore e il suo falcone preferito ed era andato a caccia a Marmirolo, a un paio d'ore di cavalcata dai suoi impegni.

“Scrivete di nuovo a mio marito, che inviti Ludovico Sforza a pagare il restante dell'ingaggio, cosicché noi potremo saldare il debito con Venezia.” disse Isabella, la bocca ancora mezza piena, troppo irritata per pensare alle buone maniere.

Quel giorno aveva anche scansato la compagnia di Pietro Bembo, pur di badare agli affari di suo marito. Voleva arrivare a un dunque, in modo da poter giustificare con se stessa quella giornata d'inferno.

Il cancelliere annuì e poi mostrò alla Marchesa qualche altro conto in sospeso, ben sapendo che sarebbe stato inutile aspettare il ritorno di Francesco Gonzaga, per quel genere di incombenze.

Finito il ragguaglio sulla situazione, l'Este lasciò l'uomo libero di tornare alle sue occupazioni e, prendendo il vassoio di biscotti ormai quasi vuoto, si avvicinò alla finestra.

“Quel maledetto idiota...” borbottò tra sé, l'accento ferrarese che si faceva più forte, come tutte le volte in cui si arrabbiava: “Che c'è andato a fare a Marmirolo, con questo tempo... A procacciarsi una bella polmonite, altro che uccellagione...”

Con un sospiro rotto, Isabella finì i biscotti, si pulì le mani nell'abito di seta finissima, approfittando dell'assenza di testimoni, e poi uscì dal salone, decisa a godersi le poche ore che restavano di quel gelido pomeriggio di nevischio.

 

Quel giorno Caterina aveva i nervi a fior di pelle. Erano arrivate le prime notizie da Dionigi Naldi che, arrivato a San Pietro in Bagno, aveva subito dovuto imbracciare le armi contro i veneziani.

Anche se il suo Capitano pareva fiducioso e sosteneva di poter reggere bene la situazione, sapere che i fiorentini avevano apertamente ignorato le sue richieste di sostegno aveva fatto andare la Sforza su tutte le furie.

A quello si era aggiunta la lamentosità di Giovan Francesco Sanseverino che, ancora infermo e ospite della rocca, pareva avere un gusto tutto particolare per i piatti difficili e sostanziosi, e così chiedeva sempre alle cucine ogni sorta di pietanza. Per non urtarsi con Milano – perché anche la Tigre aveva capito che il Moro e i Sanseverino andavano a braccetto – la Contessa aveva detto alla servitù di seguire le richieste del malato, ma cominciava a stufarsi.

Non era per la spesa in sé. In fondo Giovan Francesco era un solo uomo e non un esercito, ma per l'arroganza con cui stava imponendo il suo volere in casa d'altri.

Il bisogno costante di soldi, poi, le stava facendo perdere di vista molte altre cose. Era certa che se avesse potuto ottenere subito l'eredità di Giovanni, avrebbe potuto tappare molti buchi. Tuttavia discutere di quell'argomento con Lorenzo sembrava in quel momento impossibile. Era come rivolgersi a un muro di pietra spesso tre metri.

Quando aveva provato a parlarne con Andrea Pazzi, questo aveva commentato: “Non penso che vostro cognato sarà più incline ad assecondare le vostre richieste, sapendo che usereste i soldi destinati a vostro figlio non per lui, ma per foraggiare il vostro esercito.”

“Se non foraggiassi il mio esercito – aveva ribattuto la Sforza, quasi ringhiando – allora per mio figlio sarebbe meglio morire adesso dov'è, perché senza una difesa, finirebbe anche lui a fare lo schiavo.”

Persa nei suoi pensieri, Caterina stava raggiungendo la sala delle letture. Voleva distendersi un momento, prima di ottemperare alle ultime incombenze della giornata.

Mentre saliva le scale, il capo chino e la mente altrove, non si accorse che suo figlio Cesare le stava scendendo, a passo rapido, anch'egli disattento, immerso nella lettura di un libretto di preghiere che aveva la costa tutta consunta, per le volte in cui l'aveva aperto.

Fermandosi appena prima di scontrarsi l'uno contro l'altra, madre e figlio si fissarono per un lungo istante.

“Polidoro Tiberti è già arrivato a Roma?” chiese Cesare, guardandola quasi con aria di sfida.

La Sforza, che in quei giorni stava raggiungendo il limite della sopportazione, ricambiò l'occhiataccia e rispose: “Mi auguro di sì. Aspetto con ansia sue notizie, per sapere quando potrò farti partire.”

“Mi auguro sia molto presto.” fece il Riario, stringendo al petto il libro di preghiere.

“Me lo auguro anche io.” controbatté la donna, trattenendosi a stento dall'aggiungere qualche impropero.

Cesare chinò un istante solo il capo e poi riprese a scendere le scale, e così Caterina riprese a salirle.

Una volta arrivata al piano, la donna chiuse gli occhi e soffiò con forza. Era così nervosa da non poter nemmeno pensare di calmarsi, leggendo. Così lasciò perdere la sala delle letture e andò in cortile.

Seguì gli allenamenti di Galeazzo e quelli di Bernardino per un paio d'ore, e poi uscì in paese per una breve ispezione del Quartiere Militare.

Tornata a Ravaldino che ormai imbruniva, sotto un vento freddo che prometteva l'ennesima notte nevosa, la Contessa andò a cercare Giovanni da Casale. L'uomo, pur vedendola tanto fuori di sé, non protestò nemmeno quando capì che per seguirla in camera avrebbe saltato la cena.

Il modo in cui la Tigre lo cercò, quella sera, aveva addosso una violenza e una prepotenza che Pirovano quasi se ne spaventò. Si rese conto, mentre la Sforza lo spogliava e lo portava dove voleva lei, che conosceva ancora molto poco di quella donna. Forse aveva ragione, nel dire che era difficile da gestire, ma Giovanni voleva provare a dimostrarle che poteva riuscirci benissimo.

Così, non senza fatica, la seguì in tutto e per tutto e dopo un bel po' di fatica e sudore, riuscì a placarla quanto bastava per tornare a dettare un minimo di ritmi e di regole.

 

Polidoro aveva ringraziato il servo che lo aveva portato fino al suo alloggio, e poi si era chiuso dentro a tre mandate.

Non si fidava, a stare in mezzo a tanti preti. Nel corso della vita da soldato aveva imparato a guardarsi di più da una tonaca rossa che da una cotta di maglia. Veleno, sotterfugi, armi preziose e letali... Tutte cose facili da nascondere e che uccidevano tanto quanto una cara e vecchia spada, ecco qual era il modo di far la guerra dei religiosi.

Sistemati gli abiti indossati quel giorno, Tiberti si mise un momento sull'inginocchiatoio accanto al letto e pregò che tutto andasse per il meglio, il giorno appresso.

Gli era stato dato appuntamento con il papa negli appartamenti del Borja e già questo dettaglio lo aveva messo in allarme. Avrebbe preferito un'udienza pubblica, non una privata, soprattutto dopo che gli era stato negato di portare armi e soldati in Vaticano.

Fattosi il segno della croce, l'uomo si coricò, soffiò sulla candela, e rimase a guardare le ombre che si agitavano per via della luce inferma del camino. Le fiamme erano stentate e pareva che gli avessero messo volutamente anche del legno verde nel braciere, tanto per appestare la stanza con l'odore del fumo e riscaldarla di meno.

Quel giorno aveva incontrato il Cardinale Raffaele Sansoni Riario e gli era parso un uomo che viveva sulle nuvole. Gli aveva parlato di quadri e statue, apparendo quasi disinteressato al motivo per cui Tiberti era arrivato a Roma.

L'unica informazione utile che era stato in grado di dargli riguardava l'inclinazione del papa verso la Tigre e verso i suoi figli, Ottaviano in particolare.

“Ho sentito con queste mie orecchie – aveva raccontato Raffaele – che Sua Santità ha già dimenticato l'offesa recatagli dalla mia carissima cugina. Dice, anzi, di dover ringraziare Dio per aver scampato sua figlia dal matrimonio con Ottaviano, dato che con Alfonso d'Aragona, madonna Lucrecia è raggiante e piena d'amore, malgrado non abbia ancora concepito un figlio.”

Sentendo le campane di chissà quale chiesa battere l'ora, Polidoro sospirò e chiuse gli occhi, le mani dietro la nuca. Non si era nemmeno coperto. In fondo la temperatura di quella stanza gli stava bene. Rispetto al clima impietoso che aveva lasciato in Romagna, quello di Roma gli ricordava addirittura la primavera.

Stava per assopirsi, quando qualcuno bussò alla porta. L'uomo scattò in piedi subito, i riflessi da soldato ben addestrati a rispondere prontamente a quel genere di richiami.

“Che c'è?” chiese, da dietro il legno scuro.

“Sua Santità il papa dice di volervi vedere subito.” spiegò la voce di un servo: “Vi prego dunque di prepararvi e seguirmi poi fino agli appartamenti papali.”

Polidoro ci mise un secondo, prima di rispondere: “Arrivo subito.” e poi si rivestì in fretta, chiedendosi come mai Rodrigo Borja avesse deciso di incontrarlo a tarda sera.

Voleva essere certo che nessuno li ascoltasse, oppure, più banalmente, voleva toglierselo di torno il prima possibile?

 
   
 
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