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Autore: Adeia Di Elferas    23/08/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Gli appartamenti Borja erano illuminati a giorno, benché stesse cominciando la notte. Polidoro Tiberti, con una guardia per parte, arrivò fino alla camera in cui lo aspettava il Santo Padre tanto frastornato dal fasto e dalla magnificenza che aveva incontrato lungo il suo percorso che, per qualche minuto, non riuscì ad aprire bocca.

Alessandro VI indossava i suoi abiti da papa, ma c'era un che, nel suo modo di atteggiarsi, che lo faceva sembrare un uomo comune che accogliesse in casa propria un vecchio amico.

Dopo averlo salutato come un fratello, esigendo solo il bacio all'anello come unica formalità, Rodrigo chiese ai suoi servi di portare cibo e vino e così il cesenate, per almeno un'ora, non poté far altro che mangiare e bere.

Quando quei convenevoli – esagerati agli occhi di Tiberti – si furono conclusi, il papa chiese a tutti i presenti di lasciarlo solo con il suo ospite e in un lampo tutti quanti si eclissarono, chiudendosi le porte alle spalle.

Il Borja parve rilassarsi tutto di colpo. Il sorriso allegro si spense un po', i modi eccessivamente vitali si fecero più pacati e quando si sedette sul suo scranno accanto al camino, lo fece con una pesantezza che fece scricchiolare sinistramente il legno della poltroncina imbottita.

“Prego, venite qui e discutiamo di quel che si deve.” fece il papa, indicando una sedia un po' meno elegante, ma altrettanto comoda.

Polidoro la prese e si mise davanti al Santo Padre. Il viso del pontefice era molto particolare, secondo lui. Il naso importante e il mento mascherato dal grasso, forse, ne facevano un'immagina un po' stereotipata di papa, ma i suoi occhi svegli e rapaci e il guizzo delle sue labbra, quando accennava un sorriso, ne facevano un uomo come pochi.

Appena il messo della Sforza si fu sistemato a dovere, Rodrigo congiunse la mani e chiese, con un tono anche troppo terreno, per uscire dalla labbra di un papa: “E dunque come sta la Contessa? Si mantiene ancor tanto bella?”

Polidoro, serio, aggrottò un momento la fronte e rispose: “Sì, Santità, è sempre una donna bellissima.”

Gli occhi di Rodrigo si illuminarono per un istante della luce dei ricordi. Anche se con lei si era sempre scontrato e l'aveva sempre trovata odiosa e scomoda, pericolosa anche più di una vipera, doveva confessare di averla sempre trovata la donna più bella che avesse mai visto. Ormai doveva avere passato i trenta da qualche anno, ma se aveva conservato anche solo la metà del fascino che aveva a vent'anni...

“Bene, bene...” annuì il papa, compiaciuto: “E il suo Stato? Lo mantiene bene?”

“Ottimamente. Meglio che si possa.” rispose Tiberti, sulla fiducia, non conoscendo appieno il governo della Tigre.

“Lo immaginavo.” commentò il pontefice, continuando poi: “La rocca è ben fornita di uomini e armi? La Contessa ha i soldi necessari per tenere tutto in suo pugno?”

“La rocca e le città tutte sono ottimamente rifornite e sicure.” confermò Polidoro, senza esitazioni, come la Leonessa stessa gli aveva detto di fare in caso di domande: “E i soldi sono l'ultimo dei problemi di madonna.”

Il Santo Padre annuì di nuovo, poi, battendosi le mani sulle ginocchia coperte dalla tunica da papa, domandò: “E quanti figli ha, al momento? Ho perso il conto... E come sono? Avanti, raccontate, raccontate...”

Polidoro, che pur non conosceva troppo bene la famiglia della Contessa, ripercorse mentalmente l'elenco che aveva pressoché imparato a memoria. Gli era chiaro, ora, che la Tigre conoscesse davvero bene il papa, benché non si fossero più incontrati, da che lei era stata cacciata da Roma.

Aveva infatti previsto quelle domande e aveva anche studiato attentamente le risposte, per farle poi ripetere pedissequamente dal Tiberti.

“Ha sette figli, Vostra Santità. Ne avrebbe otto, ma come forse ricordate uno di loro è morto qualche anno fa per delle febbri.” disse il cesenate, osservando un istante di silenzio.

Rodrigo annuì pesantemente e commentò: “So anche troppo bene quanto sia difficile perdere un figlio. Mi duole di cuore pensare che anche la vostra signora abbia dovuto provare un dolore così immenso. Ma adesso ditemi: com'è ora il mio figlioccio, il Conte Ottaviano?”

Polidoro rispose, atono: “Ogni giorno è sempre più simile a suo padre.”

Il Borja sollevò un sopracciglio e alzò appena le spalle: “Ebbene, ognuno ha le sue croci da portare... E degli altri che mi dite?”

“Il più piccolo, messer Giovannino, figlio di Giovanni Medici è appena un lattante, ma è roseo e in salute.” cominciò Polidoro, seguendo volutamente un ordine inverso rispetto a quello che forse il papa si sarebbe atteso: “Messer Bernardino, poi, figlio del Barone Feo, è un bambino di otto anni davvero di rara bellezza. Francesco Sforza, che tutti alla rocca chiamano Sforzino, ha undici anni e studia la teologia con grande diletto e profitto. Galeazzo è il pupillo della Contessa e a soli tredici anni non ancora compiuti mostra già di poter diventare un uomo d'armi eccelso. Madonna Bianca, bellissima giovane di diciassette anni, è di bellezza paragonabile solo a sua madre in tutta Italia e ha modi impeccabili e un'intelligenza rara. E infine vi è Cesare, colui di cui sono venuto a parlarvi. Ha già diciotto anni, un uomo fatto, e arde dal desiderio di seguire Santa Madre Chiesa e divenirne un araldo. È pieno di ogni virtù e sapienza e la madre pensa che la strada per lui sia la milizia ecclesiastica, come la chiama lei, giacché in quella militare un santo giovane del genere sarebbe sprecato.”

Alessandro VI aveva ascoltato tutto senza fare una piega. Si era aspettato che su Cesare il messo della Tigre avrebbe calcato molto la mano.

Con un sorriso affabile, il papa disse: “Sono certo che quello che mi dite sui figli di madonna Sforza è pura verità. Dunque, se volete dirmi cosa vorrebbe la vostra signora da un umile pontefice quale sono io...”

Polidoro sapeva che finalmente si era giunti al momento della verità. Con un sospiro un po' stentato, prese fiato e si apprestò a fare il suo affondo, sperando che le sue parole, miste agli interessi dello stesso Rodrigo, potessero dare alla Leonessa quello che chiedeva.

 

Ottaviano Manfredi si tolse la berretta con un colpo secco, facendo cadere in terra la neve che vi si era accumulata sopra. Era notte fonda, ma aveva comunque voluto rientrare alla rocca.

L'ultimo incontro con il messo veneziano l'aveva messo in guardia e anche negli ultimi giorni, quando aveva dovuto fermarsi in qualche locanda per la notte, aveva sempre dormito con un occhio mezzo aperto, per paura di vedersi arrivare un sicario a ucciderlo.

Non credeva, in realtà, di essere ritenuto dal Doge tanto importante da meritare una spesa come l'assoldare un assassino professionista, ma non si poteva mai sapere.

Anche se il portavoce della Serenissima pareva essersi convinto della sua buona volontà, Manfredi temeva che avesse intuito la sua riluttanza ad accettare un simile incarico.

“Ah, e così la Tigre mi ha cercato?” chiese il faentino, ancora troppo concentrato sulla propria situazione per riuscire a moderare le sue parole e suonare meno sgarbato: “Dobbiamo essere tutti ai suoi ordini sempre, vero?”

Il castellano – che indossava una spessa vestaglia da notte sopra agli abiti da camera – lo guardo con tanto d'occhi e ribatté: “La Contessa con voi è stata molto ospitale, più di quanto credo meritiate. Vi ha anche dato il libero accesso alla rocca, cosa da non sottovalutare, sappiatelo.”

Ottaviano strinse i denti e tentò di tornare presente a se stesso: “Avete ragione. Perdonatemi. Il viaggio sotto la neve mi ha innervosito.” si scusò.

Cesare Feo fece un cenno, come a dire che era scusato, e poi gli disse: “Se volete andare nella vostra camera, vi manderò subito qualcuno ad accendervi il camino.”

“Non serve.” disse subito Manfredi, alzando una mano e slacciandosi il mantello che cominciava a inumidirsi per colpa della neve sciolta: “Voglio vedere subito la Contessa. In fondo, avete detto voi che mi cerca da giorni. Che mi dica subito il perché di tanta insistenza.”

“Non credo sia il caso.” provò a opporsi il castellano: “La Contessa si sta riposando, in questo momento.”

“Allora la troverò nella sua camera.” riassunse Ottaviano, cominciando a camminare rapido.

Il Feo lo rincorse e lo bloccò: “Non credo sia da sola.”

Il faentino si fermò per qualche istante, come se stesse valutando qualcosa, poi fece spallucce e, serio, disse: “Allora la cercherò nella camera dove porta i suoi amanti.”

“Ma io credo che sia con...” iniziò a dire il castellano, nell'estremo tentativo di bloccare il biondo mercenario.

“Non me importa nulla di sapere con chi è.” tagliò corto l'altro, scrollandosi di dosso una volta per tutte Cesare: “Sia con chi sia, ho voglia di vederla e la vedrò, fosse anche con ancora uno dei suoi soldatucoli da strapazzo tra le cosce!”

“Sia chiaro che lo fate a vostro rischio.” disse il Feo, non provando più a bloccare la marcia del Manfredi.

 

La tana della Tigre era silenziosa e quasi del tutto immersa nel buio. Fuori la tempesta di neve continuava a imperversare, ma tra i due amanti era finalmente scesa una pace momentanea.

Giovanni da Casale era supino, le braccia allargate sul materasso, le dita che sfioravano appena le lenzuola soffici del letto della sua signora. Aveva sentito una volta una delle serve lamentarsi del fatto che quelle coperte erano ormai frustre, dovendole lavare spesso, su indicazione della Contessa, e Pirovano era certo che quella morbidezza derivasse proprio dai lavaggi continui.

In quel momento, però, il pensiero che tanta attenzione fosse legata alla girandola di uomini diversi che erano stati tra quelle lenzuola, lo sfiorava solo marginalmente. A interessargli, in quel momento, era quello che Caterina gli stava facendo.

Come se avesse tutto il tempo del mondo, la donna lo stava riempiendo di baci brevi e dotati di una strana dolcezza. Cominciava dalla fronte, poi scendeva fino al ventre e ritornava su. I lunghi capelli bianchi di lei, che servavano solo qualche filo ancora dorato, lo sfioravano, facendolo rabbrividire quando lambivano i punti più delicati. Era in parte stesa sopra di lui e il suo peso e il suo calore lo stavano soggiogando a tal punto che immaginava che presto sarebbero tornati alla loro personale campagna militare, fatta di assalti furenti, baci profondi e possessivi morsi.

La Sforza appena cominciato a carezzarlo anche con le mani, oltre che con le labbra, cercando di risvegliarne il più possibile i sensi, anche lei pronta a riprendere la battaglia, quando qualcuno bussò alla porta con insistenza.

Borbottando un paio di bestemmie tanto volgari da far spalancare gli occhi al suo amante, la donna si alzò dal letto e, infilatasi di malagrazia la vestaglia che teneva sull'inginocchiatoio, domandò: “E che c'è da fare tanto fracasso?!”

“Sono io.” rispose Manfredi dall'altro lato della porta.

Bastarono quelle due parole per far capire tanto alla Contessa, quanto a Giovanni chi fosse a bussare. Entrambi riconobbero al volo la sua voce. La prima perché da giorni aspettava di risentirla e il secondo perché da giorni aveva iniziato a sperare di non risentirla mai più.

Senza pensarci sopra nemmeno un istante, Caterina aprì la porta, incurante del fatto che Pirovano fosse ancora steso a letto, nudo e molto contrariato per quell'interruzione.

Ottaviano, appena si vide aprire, guardò la Tigre, bellissima, anche così scapigliata e con addosso una misera vestaglia da camera, e poi gettò l'occhio su Giovanni, che, capendo già come sarebbe proseguita la notte, si era alzato e si stava infilando le brache di lana cotta.

“Che vuoi?” chiese la Contessa, fissando Manfredi.

L'uomo, che portava al braccio mantello e berretta, emanava l'odore umido della notte da lupi in cui Forlì era immersa. Anche i capelli lunghi e biondi erano un po' bagnati, ma il calore del suo corpo, alla Leonessa, pareva palese anche sotto tutti quei vestiti impregnati di neve.

“Sono venuto perchè tu mi hai cercato in questi giorni. Non è così?” domandò il faentino, seguendo intanto con lo sguardo Pirovano, che finiva di rivestirsi, quasi non avesse fretta.

“Sì, ma non mi sembra questo il modo di...” provò a opporsi la donna, trovandosi molto più debole di quel che credeva, in quel frangente.

Non fece in tempo a finire la frase che Giovanni da Casale le passò accanto, facendosi spazio e uscì in corridoio, non prima di aver dato una mezza spallata a Manfredi, dicendo, secco: “Avanti, scommetto che adesso tocca a te. Il letto è ancora caldo.”

Prima che la Tigre riuscisse a fermare il milanese – avrebbe voluto farlo soprattutto per non lasciare un uomo furioso libero di aggirarsi per la rocca, con il rischio che facesse danni – Ottaviano la spinse di nuovo in camera e chiuse la porta.

“E così il letto è ancora caldo...” disse, ammiccante: “Meno male... Ho preso un freddo cane, mentre venivo qui...”

Le mani del faentino avevano iniziato a cercare i fianchi della Tigre, che, mezza svestita com'era, poteva sentire benissimo il tocco deciso di Manfredi sulla pelle.

Tuttavia lo allontanò con uno spintone, la rabbia che aveva provato verso di lui per colpa della sua assenza che usciva tutta d'un colpo: “Si può sapere dove sei stato in questi giorni?”

“Non sono affari tuoi.” rispose l'uomo, gli occhietti azzurri che rilucevano alle fiamme un po' stentate del camino.

“Voglio sapere dove sei stato.” rimarcò la donna, allontanandolo una seconda volta.

Manfredi fu tentato di vuotare il sacco. Se le avesse raccontato tutto, per filo e per segno, forse Caterina avrebbe saputo come aiutarlo. O forse si sarebbe adirata così tanto, nello scoprire che lui aveva trovato un contatto con Venezia che lei invece cercava inutilmente da mesi, da pugnalarlo a morte sul posto. Anche se era quasi nuda e non aveva il suo coltello alla gamba, di certo quella camera era zeppa di armi nascoste e lei avrebbe saputo come punirlo in modo esemplare.

“Sono andato a donne, va bene?!” sbottò Manfredi, perdendo la pazienza.

Tutto il nervosismo e la paura di quei giorni si stavano concretizzando in una sensazione molto più terrena e tangibile, rispetto all'inquietudine che lo aveva accompagnato durante il suo viaggio. Il trovarsi davanti la donna che sentiva di amare e non riuscire a dirle ciò che davvero lo angosciava lo stava corrodendo.

“Come se a Forlì non ci fossero postriboli!” esclamò la Sforza che, com'era da attendersi, non aveva creduto a quella scusa.

“Sono andato fuori città per non dovermi giustificare con te!” ribatté l'uomo, gettando sulla sedia della scrivania il mantello e la berretta e cominciando a camminare nervosamente: “Ma forse avrei fatto meglio a restare in città! In fondo vedo che nemmeno tu resti con le mani in mano, quando non ci sono.”

“Tra noi non ci sono impegni, Manfredi.” gli ricordò Caterina, facendosi più rigida: “Non devo rendere conto a te di quello che faccio e con chi lo faccio.”

“Certo, certo...” borbottò lui, appoggiandosi con una mano al bordo della scrivania, come se avesse bisogno di sorreggersi.

“Se sei in questo stato solo perché sei geloso, allora...” prese a dire la Contessa, ma il faentino la frenò subito.

“Non credere di poter sapere come mi sento, né perché mi sento così.” la redarguì, usando lo stesso tono con cui lei si era difesa poco prima.

I due si guardarono per un lungo momento. La Leonessa avrebbe voluto saper chiedere delucidazioni in modo più conciliante, per sapere cosa in realtà avesse teso tanto l'altro. Ottaviano, invece, avrebbe voluto trovare le parole per raccontarle dei veneziani e delle loro proposte, ma temeva troppo di essere frainteso.

Così, ognuno immerso nei suoi dubbi, nell'aria calda e che ancora portava in sé il sentore di Giovanni da Casale, i due si avvicinarono in silenzio e senza che vi fosse bisogno di parlarsi tanto, si strinsero in un abbraccio.

“Non vedevo l'ora di tornare.” disse piano Manfredi.

“Anche io non vedevo l'ora che tu tornassi da me.” fece eco Caterina.

Siccome l'abbraccio del faentino si stava facendo più insistente, e si stava trasformando da un gesto di sollievo in uno di desiderio difficile da mal interpretare, la Tigre lo fermò di nuovo.

Scostandolo un po' da sé, sussurrò: “Ma sono appena stata con...”

“Credi che me ne importi qualcosa che tu sia stata con quello? Che sia successo cinque minuti fa o cinque giorni fa non c'è differenza.” ribatté velenoso Manfredi, dando sfogo con quelle parole a tutta la frustrazione di quei giorni: “Quando vado al bordello a tarda ora so bene che la donna che mi scelgo ha già soddisfatto almeno una decina di clienti prima di me, quella notte, ma non mi faccio problemi. Perché per te dovrei fare diversamente?”

In quella domanda retorica era sottintesa un'offesa che la milanese non poté fargli passare liscia. Se anche lei stessa a volte si chiedeva che razza di donna fosse diventata – perché ormai la sua condotta privata era più simile a quella di un saccomanno che non di una nobildonna della sua risma e per di più vedova – quel parallelismo fatto dal suo giovane amante la fece infuriare.

Dapprima gli diede un forte schiaffo, che Ottaviano non fece in tempo a scansare, e poi gli saltò al collo, come se si stesse gettando nel messo di una rissa.

Esperto di quel particolare tipo di scontri com'era, al faentino bastò poco per immobilizzarla e, appena l'ebbe di nuovo stretta tra le sue braccia le sussurrò: “Forse ho parlato a sproposito, ma qui tra noi due sei tu quella che ha cominciato a farmi la guerra contro, quando, invece, dovremmo essere alleati e fidarci l'uno dell'altra.”

La Sforza, la cui vestaglia si era in parte aperta durante la breve colluttazione, decise che non era il caso di dare seguito a quella serie di stoccate che si erano scambiati. La verità pura e semplice era che aveva cercato Manfredi per giorni perché lo voleva e dunque lo avrebbe preso.

Cambiando del tutto atteggiamento, la donna parve calmarsi di colpo e disse: “Ebbene, se non ti fai problemi tu, allora non me ne faccio nemmeno io.”

Anche Ottaviano sembrava aver perso gran parte della sua aggressività all'improvviso, tanto che lasciò che la Contessa lo spogliasse senza far altro che lasciarla fare.

Mentre prendeva a baciarlo, riassaporando il gusto che aveva atteso per giorni di risentire, la Tigre si trovò a pensare in modo serio al fatto che fino a poco prima su quello stesso letto c'era stato Giovanni da Casale.

Quando, però, si sentì sul punto di vacillare, si disse che aveva già passato una notte assieme a due uomini diversi e che, anzi, quella volta i due amanti erano presenti contemporaneamente nella sua camera. In confronto, quella sorta di cambio di guardia che si erano dati Manfredi e Pirovano non pareva nulla di che.

 

Polidoro Tiberti tornò nel suo alloggio appena in tempo per sentire le campane rintoccare. Il sonno, che gli era stato ben lontano durante tutta quella nottata infinita stava arrivando a pungerlo proprio quando avrebbe voluto essere ancora abbastanza lucido da scrivere alla Contessa. Doveva raccontarle sia dell'abboccamento privato con il Borja sia di quello che era stato detto una volta chiamato in stanza anche il Cardinale Porosa.

Si versò un sorso da bere e poi, volendo essere ligio al suo dovere, ricacciò la stanchezza da dove era venuta, come faceva quando doveva sostenere un'azione militare notturna, e prese il necessario per scrivere.

'Giunto in Roma incontinente fui recevuto dal Papa in audientia dove stetti fino a quattro hore de notte' volle indicare l'ora precisa, in modo che la Tigre sapesse quanto si era prodigato per la sua causa: 'cum tante grate accoglientie et careze che non lo potria refierire, et facendo io le recomandationi et offerte debite per parte de Vostra excellentia Sua Santità lungamente me adimandò de Vostra Signoria commo si mantineva bella: comò stava contenta, comò si portava nel suo Stato, commo era forte e ben fornita la rocha de forli comò Vostra Excellentia havea dinari, et quanti fioli havea, e comò erano facti: a tutti li quisiti risposi, convenientemente cum multa satisfactione de la Sua Santità laudando Vostra Excellentia de optimo ingegnio et facendomi intendere che quella li era comare: et quando io iai alla refferenda del Signor Cesare dissi Padre Sancto, Madonna ha molta speranza in Vostra Santità però ha determinata che decto Signor Cesare pieno de ogni virtù e modestia sia prete, che la clementia di quella lo promova a qualche dignità ecclesiastica benché crede che el cardinale de San Giorgio sia recognoscente delli benefìtii recevuti, rispose el Papa: questo è rasone; e voltossi al cardinale de Porosa et disse che se rinunci e risero inseme in modo che ritrovai molto ben disposto Nostra Santità verso Vostra Ezcellentia e soi figlioli commo più diffusamente refferìro a bocca a Vostra Ezcellentia alla mia ritornata che spero sia presto. Appresso feci reverentia al Cardinale de San Giorgio, alla Signoria del quale accomodatamente feci longo rasonamento de quanto me rasonò Vostra Ezcellentia, et cum tale dezterita che rispondendo sua signoria fu costrecto aprire el core cum parole, cum optimo volto e cum affectionatissime promesse et in modo che io gli rimasi schiavo e servitore, et faro intendere a Vostra Ezcellentia el successo del parlare, che mi rendo certo sarà gratissimo a Vostra Signoria, et circha la particularita del Sig. Cesare ho ritrovata desiderata conclusione, e perche ogni cosa non si può ne debia scrivere concludo che il Cardinale non potria meglio esser disposto cum effecto e già semo resoluti inseme ch'el Signor Cesare non intri in Roma che abbia dignità episcopale cum bona entrada conveniente cum uno castello che fa trecento homini, alla mia venuta. Diro el tucto et chiarirò a parte per parte vostra Ezcellentia la quale credo remarà consolata e satisfacta: Me se offerto accompagnare el Signor Cesare a sua S.R. suo padre nel quale ha collocato tutta la sua speranza: el prefato Cardinale vole fare secura Vostra Ezcellentia in ogni modo del Vescovato del castello de la entrata fino in octocento ducati lanno ultra quello che, el signor Cesare permectendomi fra poco tempo dare molto magiore cose e fare in modo che non havera invidia ad altro episcopo cortisano et diceme volerlo tenere cum summo honore e farli preparare le stantie sue de tanti paramenti che in Roma non parerà Vescovo novo, ne di poche honore, et questo con tucto el core.'

Polidoro appoggiò un momento la penna alla scrivania e rilesse quanto aveva scritto. Gli pareva di non aver trascurato nulla e così si accinse a vergare l'ultima parte.

 'Besta che Vostra Ezcellentia se dispona e prepari mandare el Signor Cesare a Roma per suo presente e futuro honore et bene : et per ogni cosa che possa succedere di bono stato de vostra Ezcellentia e soi figlioli et se io parlo temerariamente la mia fede et servitù sono digne de ezcusatione e venia quella se digni referirsi allo animo mio vero affectionato a Vostra Ezcellentia alla quale vivo e morto me recomando et offero et feliz valeat. Rome xiii novembris 1498.'
 
   
 
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