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Autore: Adeia Di Elferas    25/08/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Ottaviano Manfredi non riusciva a prendere sonno. Anche se il viaggio di ritorno a Forlì gli aveva lasciato le ossa rotte e la Tigre l'aveva poi sfinito, il faentino aveva la testa ancora così piena di interrogativi da non riuscire a prendere sonno.

Stava quasi albeggiando, anche se la notte di neve stava lasciando il posto a un cielo livido e probabilmente anche quel giorno di sole non se ne sarebbe visto.

La Sforza dormiva, silenziosa e ferma, quasi più la statua di una dea che una donna, e il suo amante non sapeva fare altro che guardarla.

Il camino era quasi spento e non c'erano altre fonti di luce, a parte le sue tremule fiammelle e il riverbero della neve che rifletteva l'arrivo della nuova mattina.

Mentre la fissava, così inerme e indifesa, a Ottaviano passò per la mente un pensiero improvviso e fulminante. Ripensò alle parole del portavoce veneziano, alle sue promesse e si rese conto che, in effetti, se l'avesse uccisa in quel momento, non solo ci sarebbe riuscito, ma avrebbe anche potuto scappare prima che qualcuno si accorgesse del misfatto e lo catturasse.

Si trattò di un momento di debolezza che fece breccia in una scalfittura appena visibile della sua anima, ma che bastò ad aprire per qualche minuto un vero e proprio squarcio. All'improvviso gli parve che la soluzione a tutte le sue tribolazioni fosse a portata di mano. Tanto vicina che sarebbe bastato un respiro a dargli quello che cercava da anni.

Lentamente, come mosso da qualcuno di estraneo a sé, l'uomo si alzò dal letto. Si passò una mano tra i lunghi capelli e guardò ancora la Contessa, coperta solo in parte dalle lenzuola.

Avrebbe potuto strangolarla. O soffocarla. Ma si sarebbe svegliata e con la sua forza fisica e la sua prontezza avrebbe potuto resistergli e magari arrivare a invertire le parti e passare da vittima ad assassina.

Manfredi si guardò attorno, corrucciato. Avrebbe potuto darle un colpo in testa con il pietrone che usava come fermacarte – probabilmente un pezzo della parte smantellata del palazzo dei Riario – e poi finirla con calma.

Ma non avrebbe mai avuto il cuore di spaccarle il cranio. Era troppo bella, per finire a quel modo.

Alla fine vide il suo pugnale, quello che lei stessa teneva sempre celato tra le sottane, per difendersi in caso di agguato improvviso.

Con mano incerta Ottaviano lo prese per l'impugnatura e poi lo strinse più saldamente, tornando verso il letto. La Tigre era sul lato, mostrando involontariamente tanto la gola quanto il fianco. Un colpo preciso in uno dei due punti e l'avrebbe uccisa come nulla. Doveva solo decidere se insozzare tutto di sangue tagliandole la gola o cercare la finezza e colpirle il rene, facendola morire per un'emorragia interna.

Teso e con la bocca secca, l'uomo si passò una mano sul petto disseminato di cicatrici di ogni forma e grandezza, trovandosi più sudato di quanto avrebbe pensato con quel freddo. Aveva tutti i peli ritti, segno della paura che stava provando.

Era ormai accanto al talamo e stava per sollevare il colpo. L'avrebbe presa nel fianco, in alto, dove il sangue scorreva a fiumi. Così avrebbe sporcato meno e l'avrebbe lasciata lì come fosse davvero la statua di una divinità dannata...

Appena il muscolo del suo braccio guizzò, però, la Leonessa si agitò nel sonno. Paralizzato, Manfredi rimase in attesa. La donna si mosse e borbottò qualcosa, il volto che si corrugava e la fronte che si imperlava di sudore.

Chiamò qualche volta 'Giovanni' e Ottaviano volle pensare che fosse il suo terzo marito e non Pirovano, e poi ripetè in modo ossessivo il nome Ludovico.

Svegliandosi di scatto, saltando a sedere come una molla, Caterina si trovò davanti il faentino con il pugnale sollevato e la sua reazione fu tanto pronta che, anche volendo, Manfredi non avrebbe potuto contrastarla.

Strappatogli il coltello di mano, la Tigre gli diede un colpo che lo allontanò dal letto e mentre lei saltava in terra e gli si avvicinava con l'arma puntata gli chiese: “Perché?”

Ottaviano non provò nemmeno a difendersi. Sollevò le braccia e scosse il capo. Non sapeva dire nemmeno lui se fosse un tentativo di negare o l'estremo tentativo di chiedere perdono.

“Venezia mi ha chiesto di ucciderti per avere Faenza. Avevo scartato l'idea immediatamente, non so adesso che cosa mi sia preso...” soffiò l'uomo, mentre la Tigre continuava a tenerlo a tiro di punta, il corpo nudo che riluceva alle fiammelle del camino.

“Spiegati meglio.” lo invitò la Sforza, il cuore che ritornava lentamente al suo ritmo naturale.

Il faentino non cercò alibi e raccontò tutto, per filo e per segno, compresa la sua insofferenza nel trovarla assieme a Giovanni da Casale. Fu convincente e Caterina si rese conto con disappunto che, come era successo anni addietro quando Giacomo le aveva fatto una confessione vagamente simile, anche con Ottaviano si trovava propensa a un perdono cieco e sordo.

“Ti credo.” disse alla fine, dopo che Manfredi giurò che alla fine non l'avrebbe uccisa, che non ne avrebbe mai avuto il coraggio e che, se l'avesse fatto davvero, lui l'avrebbe seguita subito dopo, appena si fosse reso conto dell'enormità del suo errore: “Ma da stanotte non dormiremo mai più assieme, dopo i nostri incontri.”

Ottaviano avrebbe voluto opporsi, ma gli pareva di essersela cavata già troppo a buon mercato per potersi permettere di protestare, così annuì e, in segno di buona volontà, raccolse i suoi abiti e cominciò a vestirsi: “Me ne vado subito.”

La Sforza lo osservò mente infilava le brache e poi la camicia, tenendo sul braccio gli altri indumenti. Avrebbe dovuto odiarlo e cacciarlo non solo da quella stanza, ma da Forlì, per quello che aveva cercato di fare. Ma non voleva e così non lo fece.

“Posso chiederti solo una cosa?” fece l'uomo, mentre andava alla porta.

La Leonessa non rispose, ma lasciò intendere che poteva.

“Chi è il Ludovico che chiamavi nel sonno? Un altro uomo con cui devo spartirti?” chiese Ottaviano, gli occhi azzurri che si tingevano ancora una volta di gelosia.

“Ludovico Marcobelli – spiegò la donna, deglutendo nel fare quel nome – è il nome di un uomo che ho ucciso.”

A quelle parole il faentino si grattò la nuca e la mise in guardia, sommesso: “Ascoltami, Tigre, ormai tutti, perfino il Doge, sanno quale sia il tuo peggior punto debole: la tua liberalità nell'amore carnale. Ci hanno provato con me, ma potrei non essere l'unico sicario che ti infilano nel letto. Stai attenta agli uomini che ti scegli.”

“Di te adesso mi posso fidare?” chiese Caterina, gli occhi verdi che tradivano un'inquietudine tanto profonda da far desiderare a Manfredi di non aver mai preso in mano quel pugnale, nemmeno per scherzo.

“Sì. Da questa notte ho capito che non posso che considerarmi tuo.” rispose il giovane, gonfiando un po' il petto.

“Adesso vattene.” lo cacciò la Leonessa, riappoggiando finalmente il pugnale alla scrivania.

Ottaviano non se lo fece ripetere e uscì sommessamente dalla camera. La Sforza, rimasta sola, si sedette sul letto. Soprappensiero, giocherellò con il nodo nuziale che portava all'anulare. Dopo le prime volte, aveva perso l'abitudine di toglierlo, quando incontrava uno dei suoi amanti. Le risultava più comodo così e, in un certo senso, tenere sempre addosso quella traccia del suo Giovanni le serviva a non perdersi. Poteva avere tutti gli uomini che voleva, ma...

Colta da una rabbia violenta a improvvisa, Caterina diede un pugno al materasso ed emise un urlo strozzato. Calmò a fatica il respiro e, quando ci riuscì, si rialzò e si rivestì lo stretto indispensabile per tornare nella sua altra camera.

Qui, dato che ormai era mattina, con alle spalle una notte difficile e impegnativa, si preparò per una giornata lunga e complicata e si trovò a pregare Dio affinché le desse la lucidità di non prendere di nuovo decisioni scorrette.

Per prima cosa, però, sfruttò le notizie che Manfredi le aveva indirettamente dato per scrivere una missiva a suo zio Ludovico.

Gli riferì i movimenti dei veneziani e l'esperimento del Doge, che aveva ingaggiato dei Turchi e li voleva usare in Romagna per vedere quello che avrebbero potuto fare in Italia. Terminava mettendolo in guardia e chiese – probabilmente inutilmente – altri rinforzi per cacciare i mille cavalieri che Ravenna, secondo Manfredi, era pronta a schierare contro di lei.

Concluse poi dicendo: 'al iuditio mio seria ad providere al tempo per obviare che non se perdesse, che volere poi recuperare le cose perdute; et io per me non voria perdere alcuno deli mei castelli per sperare di rehaverli cum parole non se possono defendere li Stati.', e sperò che il tracotante Duca di Milano si abbassasse, una volta tanto, a seguire il consiglio di una povera Contessa.

 

Francesco Gonzaga guardava torvo verso il cielo che suggeriva l'ennesima giornata di vento freddo e nevischio.

Era intabarrato come fosse già pieno dicembre e da lontano doveva apparire più simile a un orso che non a un uomo, con il mantello bordato di pelliccia e il cappellaccio che gli copriva la testa.

Era indeciso se provare una nuova battuta con il suo falcone o no. Il falconiere stava a breve distanza da lui, la bellissima bestia che il Marchese aveva cara come un figlio sul braccio, gli occhi ancora coperti dalla cuffietta e il becco appena aperto, quasi interrogativo.

Gonzaga sospirò, fiutando l'aria. Era quasi mezzogiorno, eppure l'aria frizzante e il sole coperto davano l'illusione che fosse da poco passata l'alba.

Quando l'uomo stava per dire qualcosa al suo falconiere, sentì in lontananza il battere di alcuni zoccoli sulla terra pesante e un po' scivolosa del sentiero che portava fino allo spiazzo in cui si era messo in osservazione.

Stringendo gli occhi contro i refoli freddi di quel novembre, cercò di scorgere quelli che stavano arrivando. Non ne riconobbe nessuno, ma vide distintamente lo stendardo che portavano.

La vipera – ingentilita dal Duca di Milano fino a farne un'innocua biscia – che portava in bocca un moretto, anche lui addomesticato, dalla pelle più chiara, innanzitutto, non più vittima delle spire della serpe, ma raggiante e vittorioso, quasi venisse portato in trionfo nelle fauci dell'animale.

“Aspettatemi qui.” soffiò l'eroe di Fornovo, alzando una mano verso il falconiere che, paziente, chinò il capo e restò immobile al suo posto.

Francesco, con lo stomaco un po' sottosopra, si avviò verso i cavalieri, per incontrarli a metà strada.

Sapeva che sua moglie in quei giorni si stava occupando delle noie burocratiche legate al suo ingaggio e, in tutta onestà, non avrebbe saputo dire se gli emissari del Moro fossero lì per dargli l'incarico o per chiedergli indietro i soldi e congedarlo.

Quando finalmente giunse a tiro d'orecchio degli uomini che portavano lo stemma degli Sforza perfino sulle parature dei cavalli, il Marchese domandò loro chi fossero e che volessero.

I due che erano in testa al piccolo corteo fecero segno agli altri di rallentare. Uno di loro, poi, smontò di sella, seguito subito dall'altro.

“Sono Galeazzo Visconti e lui è Erasmo Brasca.” disse l'uomo, facendo un mezzo inchino di prammatica: “Siamo qui per volere del Duca di Milano. Voi siete il Marchese di Mantova?”

Il Gonzaga fece segno di sì con il capo e soggiunse, secco: “Il solo e unico, se Dio vuole.”

“Allora dobbiamo consegnarvi queste.” disse Brasca, facendosi portare da uno degli accompagnatori due stendardi recanti il simbolo del Moro e un bastone d'argento, simbolo del comando: “Portiamo con noi anche seimila ducati, oltre alla carica di Capitano Generale delle truppe sforzesche.”

Il mantovano deglutì, prendendo subito il bastone e lasciando per il momento che le insegne le tenesse il soldato che gliele stava porgendo.

“Preferite andare in altro luogo, per ricevere i soldi?” chiese il Visconti, indicando con lo sguardo un piccolo forziere assicurato alla sella di un cavaliere armato fino ai denti.

Francesco disse subito: “No, no, i soldi datemeli e basta. Quanti avete detto che sono?”

“Seimila ducati.” ripeté Brasca, fissando un po' sconcertato il Marchese.

Per essere un uomo della sua levatura e della sua fama, il Gonzaga gli pareva poco più che un boscaiolo. Anche se il mantello che portava era bordato di pelo di ottima qualità e il suo cappellaccio era anch'esso di ottima foggia, l'insieme, unito ai suoi modi bruschi, dava l'impressione di parlare con un villico e non con un Marchese.

“Il Duca ne aveva promessi venticinquemila.” precisò il Gonzaga, stringendo gli occhi tondi, come se volesse difendersi da una fregatura.

“A dicembre ve ne farà recapitare altri novemila, come da accordi con vostro moglie.” fece presente Visconti.

Il mantovano incassò quelle parole con una smorfia e poi disse: “Ma gli altri diecimila?”

“Tempo al tempo, Marchese.” lo quietò Brasca, mentre faceva un cenno per farsi portare anche il forziere dei soldi: “Mi duole ricordarvelo, ma non avete la fama di uomo capace di rispettare impegni a lungo termine. Il Duca, prima di darvi l'intera cifra, vuole esser certo della vostra buona volontà, malgrado le ottime motivazioni che vostra moglie ha usato per fargli accettare la vostra candidatura come Capitano Generale.”

Gonzaga, nel sentirsi ricordare come Isabella si fosse prodigata per quella condotta, si sentì pervadere da una profonda gelosia, come non gli capitava da anni.

Prima di rovinare tutto come suo solito – perchè la tentazione di rispedire tutto, soldi compresi, al mittente era forte – fece un cenno burbero con il capo e borbottò: “Se è così, aspetterò. Lasciate pure tutto qui.”

Visconti e Brasca allora lasciarono in terra le insegne e il forziere e, dopo qualche brevissimo saluto d'obbligo, voltarono i cavalli e sparirono.

Francesco, il bastone d'argento del comando ancora in mano, si tirò ancora un po' il colletto sul collo, infastidito dal freddo pungente, e si voltò verso il suo falconiere: “Muovetevi! Venite qui ad aiutarmi!” sbottò.

Il giovane accorse, il falco sul braccio, e, con un po' di fatica e qualche protesta dell'animale che portava con sé, aiutò il Marchese a portare nel suo palazzotto di Marmirolo il denaro, gli stendardi e il bastone.

 

Il Consiglio di guerra si era riunito di buon mattino, su ordine di Caterina. C'erano alcune cose da discutere, ma, soprattutto, la Contessa era interessata a sapere come stessero andando le cose nel Casentino e voleva valutare l'ipotesi di mandare un comandante alternativo a Ottaviano.

“Pare che Ranuccio da Marciano si stia spostando al limitare del Casentino, per l'arrivo di Vitelli, e stia per muovere verso Arezzo.” spiegò Luffo Numai, che aveva riordinato tutte le notizie arrivate dal fronte: “Ma non sappiamo ancora di preciso se il Vitelli vorrà o meno i nostri al suo fianco.”

“Mi pare ovvio che li voglia.” ribatté la Sforza, le mani appoggiate al tavolo con la mappa d'Italia e lo sguardo che valutava la distanza tra le sue città e quelle più martoriate dagli scontri: “E Dionigi Naldi? La situazione a San Pietro è migliorata?”

Le voci a riguardo parevano contrastare. La Tigre aveva ricevuto di persona solo un paio di lettere dal suo Capitano e in tutte l'uomo si diceva pronto a resistere, malgrado i suoi uomini fossero provati. I membri del Consiglio, invece, si schieravano su due posizioni diametralmente opposte. Se da un lato alcuni sostenevano che Naldi, coi suoi balestrieri, stava solo facendo un comodo lavoro di tamponamento, senza grosse difficoltà né grossi rischi, dall'altro alcuni chiamavano al disastro, sostenendo che Dionigi avrebbe combattuto fino alla morte, ma senza ricavarne nulla.

“Gherardo Gambacorti, il signore di San Pietro in Bagno – disse a un certo punto Ottaviano Manfredi, che aveva partecipato al Consiglio su espressa richiesta della Leonessa – è da sempre un doveroso alleato di Firenze. Trovo assurdo che non stia dando appoggio al vostro Naldi.”

“Non sta a me riprendere Gambacorti.” disse a voce bassa Caterina, ricordando di quando, il giorno in cui era morto Giovanni, aveva potuto saggiare di persona l'ospitalità di quell'uomo: “Casomai dovrebbero farlo i fiorentini. Ma mi pare ovvio che i fiorentini siano troppo impegnati a litigare tra loro, per seguire questa guerra.”

Il silenzio che seguì le fece capire che tutti erano d'accordo con lei. Il castellano Feo, addirittura, annuì vistosamente, evitando, tuttavia, di esprimere a parole il suo assenso.

“E di Milano cosa mi dite?” chiese la Contessa, indirizzandosi a Pirovano, ma senza guardarlo.

Con Fracassa lontano e Giovan Francesco Sanseverino infermo, Giovanni da Casale era l'unico comandante delle truppe del Moro presente alla rocca e dunque aveva dovuto far rientrare anche lui nel gruppo dei Consiglieri presenti.

“C'è una cosa, in effetti che sta cambiando, mia signora.” disse il milanese, restando serio e tenendo gli occhi puntati solo su di lei: “Ovvero Giovanni Bentivoglio pare si stia riavvicinando al Duca, tanto che i suoi uomini, quelli formalmente sotto i suoi stipendi, hanno abbandonato il campo veneziano, lasciando il seguito di Annibale Bentivoglio.”

Quella notizia fece rizzare le orecchie a Caterina, che s voltò di scattò verso l'Oliva, in cerca di conferme.

“In effetti Venezia comincia a nutrire dei dubbi verso Annibale Bentivoglio – confermò lui, pur stando sul cauto – e non solo per via degli uomini del padre che l'hanno abbandonato. Pare che si stia prodigando più a chiedere soldi al Doge che non a combattere e che stia mettendo zizzania tra Guidobaldo da Montefeltro e Giuliano Medici, che lo segue sempre da vicino. Questo potrebbe destabilizzare molto le truppe della Serenissima.”

“Perché non me l'avete detto prima?” s'informò la Sforza, fissando il capo delle sue spie.

Questi masticò l'aria un paio di volte e poi riparò: “Perché non ne ero ancora sufficientemente sicuro e quindi...”

“Ringraziamo messer Pirovano, allora, di essere stato meno prudente di voi.” lo zittì la Contessa, alzando la mano in un gesto imperioso: “Ma la prossima volta, se avete anche solo dei dubbi o dei sospetti vi prego di parlarmene subito. Valuterò poi io che farne, delle vostre informazioni.”

L'Oliva accennò un inchino, ritenendosi fortunato che i rimproveri si fossero fermati a un richiamo verbale.

“Però, se non si è certi...” prese a dire Manfredi, irritato oltre ogni dire dall'espressione compiaciuta che aveva illuminato il volto di Giovanni da Casale, di norma imperturbabile, alle parole della Tigre.

La donna, capendo all'istante il motivo di quel tentativo di opposizione da parte del faentino, lo fulminò con lo sguardo e passò oltre, fingendo di non averlo nemmeno sentito: “Quando verranno arruolati i fuoriusciti che hanno ottenuto il salvacondotto?” chiese, parlando a Mongardini, che si stava occupando anche di quella faccenda.

Mentre il Capitano le riassumeva la situazione, Caterina divideva la sua attenzione tra il suo discorso e gli atteggiamenti indisponenti che Pirovano e Manfredi si stavano dedicando l'un l'altro.

Quando finalmente la riunione poté dichiararsi conclusa, la donna prima fece un cenno tanto a Giovanni quanto a Ottaviano, per chiedere loro di aspettarla e poi si soffermò qualche istante discutere con il Capitano Rossetti in merito ad alcune migliorie che a suo parere andavano fatte al rivellino di San Pietro.

“Vi assicuro che quel rivellino è in ottime condizioni...” stava dicendo Rossetti, che l'aveva ispezionato giusto due giorni prima: “È congeniato in modo tanto ottimale che, una volta bloccato il portone, nessuno che ne sia fuori potrebbe entrare, né viceversa.”

“Conosco bene quel rivellino – assicurò la Leonessa – sono stata rinchiusa anche io lì, assieme a buona parte della mia famiglia, durante la rivolta degli Orsi, quindi so che avete ragione, ma so anche che si sta aprendo una crepa sul fianco e che va sistemata.”

Il Capitano, che non ricordava nessuna crepa, pensò comunque che la sua signora avesse ragiona e che lui non avesse prestato sufficiente attenzione. Tutti sapevano che la Sforza aveva a cuore le sue rocche, i suoi rivellini, le sue mura e le sue armi, molto più di quanto non avesse cari i suoi stessi figli, dunque non poteva che aver visto correttamente.

“Provvederò entro sera a far controllare tutto e sistemeremo ogni cosa al più presto.” disse quindi Rossetti, congedandosi con un cenno del capo.

“Andate pure nel vostro studiolo – soggiunse la Contessa, rivolgendosi al castellano, che l'attendeva con pazienza – arrivo subito, così sistemiamo la questione dei foraggiamenti...”

Cesare Feo guardò prima lei e poi i due uomini che aspettavano in un angolo. Pirovano e Manfredi sembravano quasi due scolari discoli messi in punizione. Il primo non doveva avere più di venticinque anni e il secondo ne aveva ventisei, ma in quel momento avevano gli occhi preoccupati di due bambini colti nel mezzo di qualche marachella.

Tuttavia, malgrado le sue perplessità, il castellano riuscì a essere ubbidiente come sempre e annuì, con una certa accondiscendenza: “Fate con calma. Per certe cose non ci vuole fretta.”

Uscito il Feo e chiusa la porta alle sue spalle, Caterina si voltò verso i suoi due amanti e iniziò a dire, con un tono che non ammetteva repliche: “Dovete smetterla di fare così, altrimenti dalla prossima riunione vieterò a entrambi il permesso di partecipare.”

“Non potete.” la contraddisse Giovanni da Casale, con durezza: “Io sono l'unico emissario di vostro zio che sia in grado di presenziare a questi Consigli.”

“Sono a casa mia e quindi posso eccome! E se mio zio davvero vuole uno dei suoi che gli riferisca per filo e per segno cosa dico, che decisioni prendo, quanti calici di vino bevo e perfino quante volte uso il vaso da notte, allora trascinerò giù dal suo letto di dolore Giovan Francesco Sanseverino, se necessario!” sbottò la Sforza, imponendosi sul milanese alzando la voce e l'indice.

“Forse lui puoi estrometterlo, Tigre, ma noi abbiamo un accordo.” le fece notare Manfredi, sperando a tal modo di prendersi una piccola rivincita sul suo rivale.

“Avremo un accordo quando parleremo di date e dettagli.” lo riprese lei, puntando questa volta il dito verso il faentino: “Non mi bastano promesse vaghe piene di forse e di però! Per il momento tu non sei altro che un uomo al servizio di Firenze, ospite in questa rocca per mia gentile concessione!”

I due uomini, fatti di nuovo silenziosi, non osavano più sollevare lo sguardo. Erano bastate poche frasi, alla Contessa, per rimetterli in riga. O, almeno, così si augurava.

Se fosse stata più forte e meno incline a cedere a un certo tipo di tentazione, avrebbe trovato gran giovamento nell'allontanare entrambi dalla propria corte, dimenticandoseli. E invece, anche in quel momento, appena dopo aver bacchettato entrambi e malgrado la rabbia che provava, sentiva che non sarebbe riuscita a rinunciare a nessuno dei due.

“E adesso levatevi di torno e non rompetemi più l'anima, almeno per oggi!” concluse, indicando loro la porta: “E vi avviso: se verrò a sapere che i vostri dissidi hanno creato confusione o, ancora peggio, hanno acceso risse e rivalità tra i soldati, prenderò dei provvedimenti che non piaceranno né a me né a voi.”

Giovanni e Ottaviano incassarono la minaccia con un certo stile e poi, una volta certi che la loro donna avesse finito, andarono all'uscio.

“Chiudete la porta! Ho bisogno di ragionare.” ordinò la Sforza, appena i due furono in corridoio e così fecero, mentre lei si lasciava andare a un paio di improperi ben assestati.

Prima di separarsi, però, la tentazione per Manfredi di infastidire di nuovo l'altro fu troppo forte e così gli sibilò: “Comunque sappiate che l'altra notte il letto era sì e no tiepido. Per fortuna sono arrivato io, a scaldarlo davvero. Forse dovreste trovare qualcuno che vi insegni come si fa, a soddisfare una donna...”

Pirovano avrebbe tanto voluto poter prendere a pugni il faentino, soprattutto dopo quel commento volgare e offensivo. Però la sua indole di soldato ligio agli incarichi gli impedì di agire d'istinto.

Caterina aveva intimato loro di non scontrarsi e lui avrebbe fatto del suo meglio per rispettare il suo volere.

Così, con un sospiro pesante e un po' spezzato, si toccò la fronte, mimando un saluto da gentiluomo e ribatté: “Se la nostra signora cerca anche me, significa che in fondo nemmeno voi siete in grado di soddisfarla appieno da solo.” e proprio mentre Manfredi metabolizzava la stoccata e diventava rosso d'ira, l'altro voltò i tacchi e si allontanò, preservando entrambi da una zuffa che probabilmente sarebbe costata la vita almeno a uno di loro, se nessuno li avesse visti e separati, o a entrambi, se la a vederli intenti a duellare fosse stata la loro Tigre.

 
   
 
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