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Autore: Adeia Di Elferas    27/08/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Ottaviano Manfredi quella mattina pareva un fantasma, per il modo in cui vagava per la rocca senza requie e con uno sguardo spettrale che avrebbe fatto impallidire chiunque.

Stava aspettando che la Contessa tornasse dalla caccia, ma l'attesa pareva potersi fare molto lunga e lui non aveva altro tempo da perdere.

Quella mattina, per tramite dell'ambasciatore fiorentino Andrea Pazzi, la Signoria gli aveva fatto sapere che era richiesto il suo intervento nel Casentino. Era ovvio che a Firenze non servissero i venti uomini che avrebbero accompagnato il faentino, ma era altrettanto chiaro che a quell'ordine non poteva disubbidire.

Quasi per certo si trattava solo di un modo per ricordargli che era la Signoria a dargli ordini e non la Tigre di Forlì. In fondo, da che era arrivato in città, in pratica non aveva fatto nulla per Firenze, ma aveva continuato a percepire lo stipendio che la città gli versava. Forse era anche giusto, rimettersi l'armatura e correre a rischiare la vita per quelli che lo pagavano.

Tuttavia le disposizioni erano molto rigide e gli veniva intimato di partire all'istante, non oltre quello stesso pomeriggio e Ottaviano voleva a tutti i costi avere il modo di salutare la Contessa, prima di tornare al fronte.

Gli ultimi giorni erano stati molto concitati, tra lui e Caterina. Quando lei decideva di incontrarlo di notte, dapprima si scambiavano mille promesse, poi si amavano e, invariabilmente, finivano per litigare, in una sorta di danza continua che non dava loro tregua. E in mezzo c'era sempre la presenza ingombrante di Giovanni da Casale che, con la sua statuaria serietà, appariva sempre migliore di quello che – secondo Manfredi – era in realtà.

“State aspettando qualcuno?” chiese Bianca, incontrando Manfredi non molto lontano dalle scale che portavano alle cucine.

Da quando l'aveva scoperto con la madre, la Riario aveva trovato molto più difficile rivolgersi a lui senza arrossire, e quella volta non gli avrebbe nemmeno rivolto la parola, se non gli fosse parso tanto sperso e agitato.

“Sì, sì, ma non preoccupatevi...” disse il faentino, gli occhietti azzurri che si posavano di quando in quando sulla figlia della Tigre: “Mi hanno detto che è uscita a caccia prima dell'alba... Spero che torni presto...”

La ragazza, capendo benissimo quale fosse il soggetto della frase, sospirò e, andando verso le scale, disse: “Se è uscita a caccia è probabile che non torni prima di sera. Quando sente il richiamo del sangue, mia madre perde la cognizione del tempo.”

Ottaviano annuì nervosamente e soggiunse, mentre Bianca si allontanava: “Se non dovessi fare in tempo a vederla, potreste dirle che l'ho cercata e che mi scriva?”

“Perché?” chiese la Riario, fermandosi di colpo: “State partendo?”

“Sì. Con venti uomini. Raggiungerò il campo fiorentino nel Casentino.” confermò l'uomo, annuendo con gravità.

La giovane valutò un momento le parole dell'uomo e ciò che avrebbero implicato nei giorni a venire. Non era certa che sua madre avrebbe preso bene la partenza di uno dei suoi amanti prediletti.

“Salutate mio fratello, dunque, se lo incontrerete.” fu l'unica cosa che uscì dalle labbra della ragazza.

“Non mancherò di farlo.” rispose Manfredi, in automatico, inchinandosi appena mentre l'altra riprendeva a camminare, questa volta rapida, come se stesse scappando da qualcosa.

 

Il castello di Rassina stava finalmente per cedere e conquistarlo pareva ormai un gioco da ragazzi.

Bartolomeo d'Alviano e Guidobaldo Maria da Montefeltro si erano divisi i compiti in modo egregio, riuscendo ad aver finalmente ragione delle difese fiorentine dopo quasi sei ore di battaglia.

Le porte erano state aperte e ormai quei pochi che rimanevano a lottare erano demotivati e senza più una guida.

La desolazione e il terrore che i veneziani avevano disseminato dopo la disfatta di Poppi aveva avuto una grande eco anche a Rassina, eppure i soldati del castello avevano resistito fino all'ultimo, dando prova di coraggio e abnegazione.

Bartolomeo era riuscito a farsi strada nel cortile, dove si erano assiepati alcuni tra gli ultimi uomini davvero in forze tra i fiorentini, e, seguito da alcuni suoi fedelissimi, stava facendo del suo meglio per mandarne all'inferno il maggior numero possibile.

Al contrario di Guidobaldo, che, non più dal fisico perfetto, aveva preferito le retrovie, l'Alviano si era lanciato in prima linea, mettendo a repentaglio la propria vita e sfogando una violenza che in pochi, persino tra i militari di professione, avevano conosciuto.

Era sudato fradicio, coperto di sangue dei nemici che aveva mutilato e ucciso, e aveva il fiato grosso. Dal cielo cominciava a scendere una pesante pioggia mista neve che gli annebbiava la vista.

Colto da uno slancio di rabbia, si tolse con sprezzo l'elmo e continuò a lottare a viso scoperto. Si trovò accanto un nemico – poco più che un ragazzo – armato solo di un forcone. Probabilmente era un garzone di stalla. Non gli importava. Lo passò da una parte all'altra con la spada.

Colpì in modo preciso e spietato tutti quelli che gli si pararono davanti e solo quando uno lo attaccò in modo diverso – non con le armi, ma correndogli incontro a testa bassa – si lasciò trovare impreparato.

Il fiorentino lo gettò in terra, e i suoi commilitoni non se ne avvidero, presi com'erano a dar battaglia agli altri nemici, e, tenendogli bloccata la mano della spada, permise a un altro di avvicinarsi e infilzarlo nel ventre, laddove il piastrone unico dell'armatura lo lasciava un po' scoperto.

La lama impattò prima con la cotta di maglia, che però era troppo leggera per fermare del tutto il fendente.

Bartolomeo gridò di dolore, sentendo subito il sangue rovente uscire dalla ferita e così, accecato come non mai dal male e dalla rabbia, ripescò dentro di sé una forza sovraumana che gli permise di scrollarsi di dosso i due nemici.

Gettatili a gambe all'aria, incurante dello squarcio che continuava a sanguinare, impugnò con decisione la sua spada e tranciò di netto la testa a entrambi.

Tuttavia, appena riabbassò l'arma, sentì le forze venire meno e, svenendo, cadde in terra con un tonfo sordo.

 

Quando tornò alla rocca, Caterina era appiedata, e portava il cavallo tenendolo per le redini. Il suo posto in sella era stato temporaneamente rubato dalla carcassa di un grosso cinghiale e, nel passare in mezzo ad alcune strade di Forlì, la donna notò che la sua preda stava destando non poca curiosità.

“Mi spiaceva lasciarlo in pasto ai lupi.” spiegava, con un mezzo sorriso, a chi la fissava con troppa insistenza.

La bestia, già scuoiata e macellata, era divisa in due, per permettere un trasporto più semplice, ma era ancora ben riconoscibile. Gli abiti della Tigre, poi, recavano i segni indelebili del lavoro da macellaio che aveva fatto e quella visione pareva lavorare molto a fondo nell'immaginario collettivo.

Anche il castellano, nel vedere rientrare a Ravaldino la sua signora con quel trofeo, la fissò per un istante stordito, come chiedendosi come avesse fatto quella donna a uccidere una simile bestia e macellarla in modo tanto preciso da sola.

“È una cosa che mi rilassa.” si era schermita lei, prima di lasciare il cavallo a uno degli stallieri, l'animale morto ai cuochi e la sua lancia da cinghiale – perfettamente ripulita, come suo usuale costume – al maestro d'armi.

“Ottaviano Manfredi vi cercava con grande insistenza...” disse piano Cesare Feo, mentre la donna imboccava le scale per andarsi a cambiare: “Ma adesso non so dove sia.”

Tra il sangue del cinghiale e l'umidità della breve nevicata di quella mattina, gli abiti della Contessa si erano fatti impossibili da tenere addosso, ma quelle parole la fecero fermare subito, completamente dimentica del suo desiderio di cambiarsi.

“Perché mi cercava?” chiese la donna, accigliandosi.

“Non lo so di preciso, ma mi è parso fosse urgente.” rispose il castellano.

La Sforza aveva il terrore di sapere quale fosse il motivo dell'insistenza del faentino nel volerla vedere e così chiese: “I suoi venti uomini... Dove li abbiamo sistemati di preciso?”

Cesare le indicò il baraccamento – al Quartiere Militare – dove erano stati alloggiati gli uomini di Manfredi e, senza aggiungere altro, corse nelle stalle, si fece ridare il cavallo a cui ancora non era stata tolta la sella, e uscì di nuovo dalla rocca.

Dopo aver attraversato a spron battuto la città, la Tigre arrivò al Quartiere appena in tempo per vedere Ottaviano fare un cenno ai suoi per ordinare loro di mettersi in sella.

Smontando ancora in corsa, la donna gli andò incontro e gridò: “Manfredi!”

Quel tono, quasi intimidatorio, fece sorridere il faentino che si voltò, già sapendo chi si sarebbe trovato davanti.

“Che state facendo?” chiese la Contessa, guardando i venti soldati che portavano anche qualche bagaglio, come se si stessero preparando per partire.

L'uomo, che già aveva rischiato a sufficienza ad aspettare tanto, sapeva di non poter ritardare ancora di molto. Però non poteva lasciarla solo con due parole.

Così, guardandola di sottecchi e parlando a bassa voce, le chiese: “Dove possiamo andare un momento per discutere tranquilli?”

La Leonessa colse nella sua voce una nota stonata e seppe in anticipo di avere ragione: il suo amante se ne stava andando e, se lei non fosse tornata prima del previsto dai boschi, l'avrebbe fatto comunque anche senza essere riuscito a salutarla.

“Vieni con me.” gli disse, e, affidato il cavallo a uno dei soldati di Manfredi, la donna lo prese per un braccio e lo portò fino alla locanda più vicina.

Chiese all'oste se ci fosse una stanza libera e l'uomo indicò subito loro quella più tranquilla. Non appena ebbero chiuso la porta, Caterina incrociò le braccia sul petto e chiese a Ottaviano di dirle quel che doveva dirle.

Il faentino sollevò gli occhietti azzurri su di lei e poi, mesto, spiegò: “Mi è arrivato un ordine perentorio da Firenze. Mi hanno assegnato al Casentino e devo partire subito. Volevo vederti ancora una volta, ma ho temuto di non riuscirci...”

La Sforza annuì, trovando conferma delle sue paure, e, senza preavviso, si tuffò tra le braccia del giovane e gli disse: “Ti prego, Manfredi, stai attento. E torna da me.”

“Credici, se ti dico che tornare da te è l'unica cosa che mi fa desiderare di non morire nella prossima battaglia a cui prenderò parte.” fu il commento del faentino.

Colta da una sensazione di vuoto che la pervase con forza, la mente della Tigre fu attraversata da un pensiero improvviso. In quella locanda, anzi, proprio in quella camera, c'era stata anche con il suo Giovanni.

Il collegamento fu rapido e quasi scontato. Non voleva perdere un altro uomo a cui teneva. Anche se con Ottaviano le cose erano molto diverse rispetto a come erano state con il Medici, sapeva che se non l'avesse più visto tornare, per il suo cuore sarebbe stato l'ennesimo duro colpo da assorbire e dimenticare e non sapeva se ci sarebbe riuscita.

Lo baciò con lentezza e poi lo prese per una mano, cercando di portarlo verso il letto, ma Manfredi, per quanto in quel momento non desiderasse altro che perdersi in lei e dimenticarsi di tutto il resto, fece segno di no con la testa.

“Adesso devo andare. Non posso fare tardi, ho già atteso troppo.” le disse, deglutendo a fatica, tentato come non mai di mandare tutto all'aria solo per poter restare con lei: “Dovremo aspettare il giorno in cui tornerò qui a Forlì. Almeno avrai un motivo per aspettarmi.”

“Ti prego, non lasciarmi così...” provò a dire Caterina, stringendo le mani del faentino nelle sue.

Ottaviano scosse ancora il capo, i capelli lunghi e biondi che si muovevano di concerto: “No, non posso. Se adesso restasse con te in questa stanza anche solo un'ora di più, poi non riuscirei più a partire. Non essere così crudele, con me.”

A quelle parole, la donna lasciò la presa e, guardandolo con un'espressione strana, ribatté: “Non voglio essere crudele con te. Quindi vattene, ora. Se tornerai, ci rivedremo.”

Manfredi annuì, chinò il capo e, non osando neppure sfiorarle le labbra per un'ultima volta, andò alla porta e la salutò: “Ci vediamo, Tigre.”

La Sforza attese per un po', sperando di non incrociarlo più. Scese al piano di sotto e chiese all'oste se doveva qualcosa per la stanza.

“Ci siete rimasti per pochi istanti...” fece l'uomo, sollevando una spalla: “Non faccio pagare la gente per due minuti di chiacchiere in una stanza.”

La Contessa lo ringraziò, anche se lo sguardo un po' impietosito che le stava rivolgendo le dava fastidio, e decise di attendere ancora un po' nella locanda, per dare il tempo a Manfredi di partire in tranquillità, e per impedirsi di correre a fermarlo.

“Avete del vino nero?” chiese, appoggiandosi al bancone.

“Sia caldo che freddo, mia signora.” annuì subito l'oste.

“E allora portatemene una brocchetta di caldo a quel tavolo.” disse la donna, indicando un angolino tranquillo in fondo alla locanda: “Ho bisogno di scaldarmi un po'...”

 

Polidoro Tiberti stava aspettando, anche quella volta, e si chiedeva se la sua spedizione a Roma potesse dirsi più un allenarsi all'attesa o una missione diplomatica.

Siccome stava per ripartire alla volta di Forlì – sperando di avere un viaggio agevole, malgrado si dicesse che le strade fossero rallentate, in Romagna – aveva già preparato i bagagli ed era stanco di starsene nell'Urbe. Gli capitava sempre, quando sapeva di essere in procinto di andarsene, di non soffrire più il posto in cui si trovava.

Anche quei palazzi così opulenti e ricchi di affreschi e stucchi cominciavano a dargli sui nervi. Se anche era nato da una famiglia abbiente e potente, preferiva di gran lunga il suo misero padiglione da guerra che quelle domus che parevano finte per quanto erano decorate.

Il palazzo Riario – tecnicamente di proprietà di Ottaviano Riario – era la dimora del Cardinale Raffaele Sansoni Riario, ma più che una casa a Polidoro sembrava la bottega di un artista.

Gli avevano lasciato vedere pochi ambienti, appena quelli che aveva dovuto attraversare per giungere nella saletta in cui doveva attendere il Cardinale, ma gli era bastato per capire come il valore di quell'edificio ormai fosse più legato al suo contenuto che non ai suoi muri.

“Messer Tiberti...” fece Raffaele, quando arrivò al suo cospetto.

Il cesenate lo salutò come si conveniva, baciando perfino l'anello cardinalizio, e si sedette tutto impuntilato, quando il porporato gli indicò l'ottomana coperta di seta che fronteggiava la poltrona che aveva tenuto per sé.

Il camino era acceso e nella stanza la temperatura era ideale. Il Cardinale fece servire qualcosa da bere e fece anche portare un piccolo vassoio con frutta secca e formaggio.

Polidoro bevve un sorso di vino appena e rifiutò tutto il resto, a costo di apparire sgarbato: “Devo mettermi in viaggio presto, e preferirei farlo a stomaco leggero.” si scusò.

Raffaele non era molto d'accordo con quell'idea. Ricordava anche lui i viaggi lunghi – come quella volta che da Roma era andato a Firenze, per quella maledetta Messa di Pasqua durante la quale era stato assassinato Giuliano Medici – e riteneva che fosse meglio affrontarli dopo un buon pasto, non sapendo quando e se ci si sarebbe potuti rifocillare...

Tuttavia fece un sorriso e, sistemandosi le ampie maniche del suo abito, iniziò: “Ho parlato con Sua Santità, ieri...”

Tiberti rimase in attesa. Siccome la Tigre non gli aveva ancora risposto, credeva che o la lettera non le fosse ancora arrivata o che non la ritenesse degna di controbattuta. Non avendo comunque da lei alcun riscontro per le parole di Alessandro VI, ora Polidoro temeva di non sapere come gestire eventuali proposte del Cardinale.

“In tutta onestà, temo che sistemare mio cugino Cesare non sia la sua priorità...” il naso lungo di Raffaele ebbe un fremito e le labbra sottili si sollevarono appena in una smorfia: “Al momento è troppo impegnato a pensare ai suoi, di figli...”

Il cesenate mosse appena il capo, come a dire che aveva inteso e così il Cardinale sospirò e scoprì finalmente le sue carte.

“Vedete, io ho molte cariche, in Vaticano – disse Sansoni Riario, abbassando un po' la voce, quasi non volesse farsi sentire dai due servi che stavano accanto alla porta in attesa di ordini – e l'Arcivescovato di Pisa comincia a pesarmi... Credo che per Cesare, che mi dite è divenuto un uomo di Chiesa come pochi, sarebbe una missione apostolica perfetta. Gli permetterebbe di provvedere a se stesso, non gravando più sulle povere spalle della Contessa mia cugina, e di mettere alla prova la sua chiarissima fece. Senza contare che, per quello, il papa mi avrebbe già dato la sua autorizzazione quattro anni fa.”

“E siete convinto che il papa sia disposto a rinverdire l'autorizzazione che vi aveva già concesso quattro anni fa?” chiese Polidoro, trovando che una simile conclusione sarebbe stata la migliore per tutti.

“Non vedo perché non dovrebbe...” allargò le braccia, lunghe e secche, il Cardinale: “In fondo, nemmeno al Santo Padre piace che un uomo che non sia lui tenga in mano troppe cariche. Sono certo che preferirà sapere Pisa a Cesare, piuttosto che a me.”

Quel piccolo attacco alla figura del papa, buttato lì con tanta leggerezza, era stato accompagnato da un brillio particolare degli occhi di Raffaele e Tiberti capì che quell'uomo doveva essere molto più sveglio di quanto sembrasse.

La stessa Tigre, prima di lasciarlo partire, ci aveva tenuto a dirgli: “E non sottovalutate il Cardinale Sansoni Riario... Se è riuscito a sopravvivere fino trentasette anni passandone la maggior parte in mezzo alle belve di Roma, significa che anche lui nasconde artigli affilati e zanne lunghe.”

“Quindi posso dire alla mia signora di ritenersi tranquilla?” chiese il cesenate, vedendo come l'altro non aggiunse altro.

Raffaele annuì e si alzò: “Sì. Ditele che, per quanto sarà in mio potere, farò di tutto per lavare le colpe mie e di mio cugino Girolamo. Ma che sappia che almeno fin dopo Natale questa questione andrà fatta sobbollire. A farla troppo in fretta, si rischia di attirare troppo l'attenzione di Sua Santità.”

“E noi invece vogliamo che pensi solo al suo caro figlio partito per la Francia.” parafrasò Tiberti.

“Credo che, al momento, sia la cosa migliore per tutti.” sorrise il Cardinale, mentre, con un ampio gesto della mano, invitava l'ospite a seguirlo fuori dalla saletta, in modo che potesse scortarlo verso l'uscita, passando accanto a una buona parte dei tesori artistici che aveva accumulato negli ultimi anni: “E mi raccomando: fate sapere a mio cugino Ottaviano che la sua casa sta diventando ogni giorno più bella, in attesa del suo ritorno a Roma.”

Polidoro abbozzò un sorriso e assicurò che l'avrebbe fatto, anche se nella sua testa pensò con una vaga ironia: 'Con l'esilio che pende sulla sua testa dai tempi in cui la Tigre aveva preso Castel Sant'Angelo, l'unico modo che avrebbe di tornare a Roma sarebbe in catene e a quel punto, di tutte queste statue e questi affreschi, dubito che gliene importerebbe qualcosa...'.

 

La partenza di Ottaviano Manfredi aveva lasciato la Contessa molto taciturna e più irritabile del solito. In tutta la rocca i soldati avevano capito che fosse meglio non darle motivo di adirarsi, e anche nel resto della città, i forlivesi sembravano aver intuito che qualcosa non quadrava.

Anche quella notte la Tigre non parlava. Giovanni da Casale aveva imparato, vivendo a Ravaldino, che quella donna era spesso di poche parole, ma dalla sera, quando si erano chiusi in camera, non aveva borbottato più di mezza frase.

Erano stretti l'una all'altro, entrambi insonni, e fissavano il camino, in silenzio. Pirovano doveva parlarle, era da tutto il giorno che si riprometteva di farlo, ma l'umore nero della Sforza l'aveva messo in difficoltà e anche in quel frangente, quando ormai il tempo era agli sgoccioli, l'uomo non sapeva da che parte prendere.

Nel Casentino e ad Arezzo le acque si stavano muovendo in fretta e, benché lui si sentisse in tutto e per tutto alle dipendenze di Caterina, l'ordine perentorio arrivato da Milano non poteva essere ignorato.

Era rivolto a Giovan Francesco Sanseverino, ma, essendo lui infermo e suo fratello già al fronte, le direttive del Moro erano state passate in automatico a Giovanni.

Così, da quando si era reso conto di non avere scelta, né possibilità concrete di tirarsi indietro senza incappare nell'accusa di diserzione e tradimento, il giovane era stato immerso in un tormento continuo, acuito dalla distanza della sua amante, che, per quanto l'avesse voluto per sé quella notte, pareva con la testa da tutt'altra parte.

“Caterina...” sussurrò Pirovano, accarezzandole lentamente la spalla: “Devo dirvi una cosa...”

La Leonessa era preda dei suoi ricordi, in quel momento. Stava pensando, non sapeva dire bene il perché, alla strage di Mordano. Le sembrava che in quella guerra, seppur per motivi diversi e in forma differente, stesse facendo gli stessi errori fatti durante la calate dei francesi, quando al suo fianco c'era Giacomo.

Forse era stato il tentativo di ucciderla di Manfredi o la sua manifesta incapacità di resistere al fascino di due amanti che, volendolo o meno, stavano influenzando le sue scelte.

Ma in quel momento, tutto quello che i suoi occhi vedevano, non erano le fiamme del camino, ma i corpi straziati delle donne di Mordano. Le sue narici non annusavano il sentore sicuro e presente di Giovanni da Casale, ma il tanfo di morte e di marcio che riempiva la chiesa in cui i francesi – e i Sanseverino – avevano fatto scempio delle mordanesi. La sua pelle non avvertiva il calore rassicurante del suo amante, ma il freddo pungente di quel lontano ottobre, quando aveva vagato tra le rovine di un paese che era stato completamente distrutto e spazzato via.

“Caterina?” riprovò Pirovano, scuotendola appena.

Gli occhi verdi, vitrei, della Tigre finalmente si posarono su di lui: “Che c'è?” gli chiese, accigliandosi.

“Io... Dovevo dirvelo prima, lo so... Ma mi è mancato il coraggio.” iniziò lui e già la Sforza si mise sulla difensiva, spostandosi quel tanto che bastava per non essere più sotto la stretta del braccio di lui: “Mi è stato ordinato di partire per Arezzo entro e non oltre domattina.”

La Contessa sentì la bocca farsi asciutta e il cuore battere più veloce. Nel giro di un paio di giorni, stava per perdere i due uomini che, da quando erano entrati nella sua quotidianità, scandivano le sue giornate e le sue notti.

A quel punto, più che temere il dolore che sarebbe derivato dal perdere definitivamente anche solo uno di loro, a spaventarla era l'essere di nuovo lasciata a se stessa.

“Se te l'hanno ordinato – disse, rigida – allora devi andare.”

Giovanni la guardò per un lungo istante e poi chiese: “Tutto qui?”

“Che vuoi che ti dica? Di non partire?” fece allora lei, aggressiva: “Credi che mi inimicherei mio zio per te?”

Pirovano si passò la lingua sul labbro, sentendosi un povero illuso e anche ridicolo. Si mise a sedere sul letto, voltando le spalle alla donna e rimase lì per qualche istante.

“Non volevo affatto che mi chiedeste di restare, ma che almeno foste dispiaciuta di sapermi in partenza...” spiegò, il capo chino e i palmi delle mani appoggiati al materasso: “Ma in fondo mi hanno detto che non avete reso onore nemmeno alla partenza di Manfredi, e lui ha un cognome importante. A quel punto, io, che dovevo aspettarmi?”

Quella considerazione fece perdere un battito al cuore di Caterina. Quel senso di inadeguatezza che tante volte aveva trovato nel suo Giacomo, specie i primi tempi, la poteva risentire – seppur un po' mitigata e meno rabbiosa – anche nelle parole di Giovanni da Casale.

Gli posò una mano sull'ampia schiena, seguendo il profilo dei muscoli resi tonici da anni passati a manovrare armi pesanti, e gli sussurrò: “Ovviamente sono dispiaciuta di saperti in partenza, ma so che non posso fare nulla per fermarti.”

Pirovano la guardò di sguincio, da sopra la propria spalla: “Mi penserete, mentre sarò via?”

La Tigre annuì appena e poi, facendolo ricoricare con un gesto imperioso, gli disse: “Ma per stanotte sei ancora mio.”

L'uomo avrebbe tanto voluto fermarla e chiederle di parlare ancora per un po'. Voleva partire con meno confusione nella testa e sapere se davvero, nel caso fosse ritornato, lei sarebbe stata ancora lì ad aspettarlo.

Ma la paura della morte, nascosta a ogni angolo, soprattutto in guerra, lo rese affamato di vita e fino all'alba non pensò ad altro se non a godere della donna che teneva tra le braccia, a ricambiare i suoi baci, a mordere la sua pelle e a scolpirsi nella memoria il modo in cui chiamava il suo nome, in un misto di desiderio e disperazione, tanto da fargli chiedere quale Giovanni stesse chiamando, se lui o se quel terzo marito di cui, Pirovano l'aveva capito bene, Caterina ancora non aveva saputo accettare la morte.

 
   
 
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