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Autore: Adeia Di Elferas    29/08/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il Moro aveva ascoltato con un'espressione annoiata il resoconto di Galeazzo Visconti ed Erasmo Brasca. Non lo sorprendeva più di tanto il modo brusco e indisponente con cui il Marchese di Mantova aveva accettato l'incarico di Capitano Generale. Sapeva benissimo che al Gonzaga pesava molto, l'essere tornato agli stipendi di Milano, e, conoscendolo, sapeva anche che sarebbe stato da utopisti aspettarsi da lui dei modi più concilianti.

Se non fosse stato per Isabella, pensava Ludovico, non gli avrebbe nemmeno concesso quel titolo, figuriamoci tutti i soldi che gli aveva promesso...

“Va bene, va bene...” fece il Duca, mentre Erasmo ancora insisteva su come il Marchese avesse mancato di rispetto, nel non volerli nemmeno accoglierli per un momento in casa propria: “Ho capito: Francesco Gonzaga è un uomo impossibile. Però ci servono i suoi soldati, i suoi cavalli e l'alleanza con il suo Stato.”

I due diplomatici non osarono dire altro e quando il loro padrone li congedò, si inchinarono e se ne andarono senza dire più nulla.

“Ermes...” chiamò Ludovico, facendo segno al nipote di avvicinarsi.

L'uomo, tanto simile allo zio da poterne sembrare il fratello, mosse qualche passo pesante fino al suo scranno, con il cancelliere Calco che osservava in silenzio i due dalla sua piccola scrivania.

“Hai già parlato a Galeazzo Sanseverino di quella cosa che voglio fare in dicembre?” chiese il Moro, accigliandosi un po'.

Passando la carica che formalmente era stata del Sanseverino al Gonzaga, lo Sforza voleva dare al suo ex genero qualcosa di concreto a cui pensare. Anche se ufficialmente lo teneva a Milano come un parente amato, in realtà le sue perplessità in merito alla morta di Bianca Giovanna non erano mai sparite e così aveva voluto tenerselo vicino proprio per poterlo controllare meglio.

Tuttavia, ora che lo vedeva senza un'occupazione reale, temeva che potesse ricominciare a farsi lusingare da qualcuno che volesse sfruttarlo per ledere il Ducato – magari addirittura i francesi – e dunque andava impiegato in qualche modo per distoglierlo dalla noia, fonte di ogni congiura.

“Non ancora, perché prima ho voluto tastare il terreno con gli ambasciatori, per essere certo che sarebbero disposti a partecipare.” spiegò Ermes, a voce bassa.

“Mi raccomando, quello veneziano non è invitato. Siamo in guerra, con Venezia. Non deve vedere le nostre stalle, tantomeno i nostri cavalieri.” gli ricordò lo zio.

“Certo.” convenne il nipote, ossequioso.

“Ah, e vedi di far sì che il Sanseverino richiami a Milano anche Giovanni da Casale, nel caso in cui sopravviva agli scontri di questi giorni nell'aretino...” soggiunse il Duca, facendosi scuro in volto, la voce appena più aspra: “Deve capire che sono io, il suo padrone, e non mia nipote.”

Ermes annuì e Calco, dal suo angolino, sollevò appena un sopracciglio, e la cosa al Moro non sfuggì.

“Lo so cosa pensate, Bartolomeo.” fece l'uomo, alzandosi e posandosi una mano sul ventre prominente: “Pensate che è stato un errore davvero grave, da parte mia, mandare quel giovane comandante in Romagna.”

“Mio signore...” prese a dire il cancelliere, sollevando appena le mani, come a volersi difendere da quell'accusa: “Io penso solo che messer da Casale sia ben noto a tutti per la sua avvenenza e mandarlo presso vostra nipote...”

Il Duca sapeva di aver commesso uno sbaglio, ma se n'era accorto troppo tardi. Aveva pensato fin da subito che Pirovano avrebbe potuto dimostrarsi una tentazione troppo grande per sua nipote Caterina, ma si era pure detto che, se anche lei l'avesse preso come amante per un paio di notti, non sarebbe poi stato un dramma. Non aveva per nulla calcolato l'ascendente che quella donna sapeva avere sugli uomini che conquistava...

“Se mia sorella fosse un uomo – prese la parola Ermes, sentendosi in dovere di dire la sua, visto che era il fratello della Tigre – al massimo avrebbe potuto, seducendole, influenzare qualche dama di compagnia o, al peggio, la moglie di qualche uomo importante. Essendo invece lei una donna, i suoi amanti rischiano di essere politici, ambasciatori, comandanti dell'esercito e di conseguenza la sua influenza va a ricadere su punti chiave del potere...”

Ludovico freddò il nipote con uno sguardo di ghiaccio e, tanto per togliersi dall'impaccio, sbottò, le grosse mani al cielo: “E va bene! Sono stato un superficiale, lo ammetto! Se ci fosse stata Beatrice, so che lei non avrebbe commesso una simile leggerezza... In ogni caso, Giovanni da Casale è un comandante valido come pochi e se è arrivato a esserlo è grazie ai miei soldi e ai miei incoraggiamenti. Quindi, sia chiaro a tutti, non tollererò che mi venga portato via da una sottana!”

Calco abbassò lo sguardo, mentre Ermes sostenne quello dello zio mantenendo un'espressione placida che lo fece andare su tutte le furie.

“Sanseverino gli darà ordine di essere qui per lo spettacolo equestre di dicembre e quando sarà a Milano, vedrete che saprò io come tenerlo legato a me!” sbraitò il Moro e poi uscì dal salone senza aggiungere altro.

“Pareva quasi un innamorato geloso...” commentò il cancelliere, con una risatina.

Di rado si permetteva certe considerazioni verso il suo signore, ma quella volta non era riuscito a trattenersi.

“Peggio, Bartolomeo – lo corresse Ermes – è come un cane che, dopo aver custodito un osso per anni, se lo vede sottrarre da una cagnetta che quell'osso, probabilmente, nemmeno lo vuole davvero...”

 

La neve che cadeva sul cortile d'addestramento catturava lo sguardo della Tigre molto più di quanto non stesse facendo la lettera di Polidoro Tiberti che stringeva tra le mani.

Quella missiva da Roma era arrivata con un certo ritardo, ma Caterina, nel leggerla la prima volta, aveva capito che se anche l'avesse ricevuta all'istante, non avrebbe fatto differenza. Il papa, con i suoi modi anche troppo cordiali, lasciava intendere che in realtà di compiacere lei – tanto meno suo figlio – non gliele poteva importare di meno.

L'unica speranza, brutto da dire, restava ormai riposta in Raffaele, che anni prima aveva promesso di lasciare al cugino il necessario per vivere, carica ecclesiastica compresa.

La Contessa era seduta in una delle alcove chiuse che si affacciavano sul cortile e il vetro che la separava dall'aria gelida del novembre era tutto appannato.

Avrebbe voluto che la neve smettesse di cadere in quel preciso istante. Non sapeva dire altrove che tempo facesse, ma la faceva star male il pensare che Giovanni da Casale fosse in viaggio con quel clima e che Ottaviano Manfredi si trovasse al riparo solo di una misera tenda da campo.

“Vi stavo cercando...” Luffo Numai, appena scorse Caterina sul sedile di pietra, si fermò di colpo.

La donna si accigliò e, ripiegando la lettera di Tiberti, si alzò lentamente, chiedendo: “Che è successo?”

“Ci è giunta una notizia dal fronte che potrebbe interessarci molto...” iniziò a dire l'uomo, mentre la sua signora si avvicinava: “Pare che Bartolomeo d'Alviano sia rimasto ferito durante uno scontro, a Rassina.”

La Leonessa incrociò le braccia sul petto: “E si riprenderà?”

“Purtroppo di questo non si sa ancora nulla, ma pare sia stata una ferita abbastanza importante, all'addome...” precisò Luffo.

“Tenetemi informata man mano che arriveranno notizie.” si raccomandò la Sforza.

L'Alviano era forse l'unico vero uomo valido nei quadri di comando di Venezia. Il Doge, fino a quel momento, stava prendendo terreno più per la quantità di soldati schierati che non per le capacità dei suoi comandanti. Se per caso il marito della defunta Bartolomea Orsini avesse davvero perso la vita a seguito di quella ferita, l'attacco dei Serenissimi sarebbe rimasto decapitato.

“Non mancherò.” confermò Numai, per poi soggiungere: “Al Quartiere Militare stanno arrivando quelli che hanno avuto il salvacondotto... Non tutti, i primi. Volete andare a dire loro qualcosa?”

Caterina lanciò uno sguardo alla neve che cadeva copiosa dal cielo e poi, stringendosi un po' nelle spalle, benché non avesse alcuna voglia di uscire con quel tempo, annuì: “Sì, sì... Il tempo di farli sistemare e tra un paio d'ore sarò là.”

Il Consigliere fece un breve sorriso e sussurrò, prima di lasciarla: “Fate bene. Sono uomini che hanno bisogno di essere motivati. Ricordiamoci che erano in esilio, dopotutto.”

La Leonessa tornò a sedersi un momento nell'alcova di pietra, gli occhi che indagavano il cortile bianco sotto di lei. Quel giorno i soldati in addestramento alla rocca erano impegnati al mastio. Si era deciso di trasportare lì alcuni pezzi di artiglieria e parte delle munizioni e quindi c'era bisogno di tutte le braccia disponibili.

In altri tempi, Caterina sarebbe stata in prima fila, nello spostare quei pesi assieme ai suoi soldati, ma quel giorno proprio non aveva alcuna voglia di mescolarsi alla gente. Già il dover andare al Quartiere Militare la infastidiva...

Con un sospiro pesante, pensò che anche suo figlio Galeazzo, probabilmente, stava aiutando con le operazioni di spostamento di quel giorno. A breve avrebbe compiuto tredici anni, ma per molti versi alla madre pareva già un uomo.

Rispetto ai suoi fratelli Cesare e Ottaviano, Galeazzo era responsabile e solido. Era già benvoluto dall'esercito e anche la popolazione di Forlì sembrava apprezzarlo. Forse era prematuro pensarci, ma la Contessa sapeva che a breve avrebbe dovuto pensare per lui a una moglie.

Avrebbe voluto lasciarlo libero di scegliere da solo, ma se i tempi fossero diventati difficili, forse avrebbe dovuto sacrificarlo per il bene dello Stato. In fondo, si diceva, essendo un uomo, avrebbe poi potuto avere tutte le amanti che desiderava senza doversi preoccupare nemmeno di nascondere i suoi tradimenti. Era un'ingiustizia, ma era così.

Bianca, invece, andava liberata da Astorre il prima possibile. Lei non lo voleva e, in tutta franchezza, anche la madre si era accorta di quanto il giovanissimo Manfredi fosse un tipo strano. In questo caso, la ragazza sarebbe rimasta schiava a vita di un uomo che non desiderava e per lei non sarebbe stato per nulla facile, crearsi degli affetti paralleli.

In più legarsi a Faenza, con lo spettro dei Bentivoglio che aleggiava su Astorre sarebbe stata una condanna, a lungo termine, anche per Imola e Forlì.

Gennaio era ormai dietro l'angolo, e Ottaviano Manfredi era partito e chissà quando sarebbe tornato. Malgrado tutte le sue belle parole, l'aveva lasciata sola proprio quando avrebbe avuto bisogno di qualcuno dalle spalle larghe pronto a combattere accanto a lei.

Dopo quasi un'ora di ragionamenti, valutando che fosse il caso, ormai, di andare a cambiarsi per recarsi al Quartiere Militare, la Tigre lasciò il suo sedile in pietra e, le mani allacciate dietro la schiena e lo sguardo basso, si chiese cosa le avrebbe consigliato suo marito Giovanni, se fosse stato ancora al suo fianco.

 

Ottaviano Manfredi si sedette con un tonfo pesante accanto a Ottaviano Riario e lo salutò: “Che serata gelida...”

Il figlio della Tigre annuì, distrattamente, e continuò a fissare il fuoco davanti a sé. Il piccolo braciere che il giovane aveva fatto accendere nel centro della sua tenda, proprio sotto al buco centrale, riscaldava il padiglione spandendo nell'aria l'odore casalingo del legno bruciato.

“Allora, che hai?” gli chiese il faentino, dandogli un colpetto con la spalla.

Sotto al tendone, in quel momento, c'erano solo loro due, perché gli attendenti del Riario erano usciti, su preciso ordine del loro signore, per lasciarlo in pace.

“È che mi ero illuso che in pieno inverno si sospendessero per un po' le ostilità...” disse piano il forlivese, le braccia strette attorno alle ginocchia: “Io...”

Si vergognava a dire quanto gli mancasse casa sua e anche quanta paura avesse. Aveva sentito dire che Paolo Vitelli, saputo di una grave ferita ai danni di Bartolomeo d'Alviano, stesse chiedendo a Firenze il permesso – e i fondi – per dare un attacco finale e massiccio alle roccaforti veneziane. Per lui, l'idea di una simile battaglia, era quasi l'equivalente di una condanna a morte.

“Be'...” provò Manfredi, per risollevare l'amico che, solo il giorno prima, era stato raggiante, nel riabbracciarlo: “Rallenteranno, magari. Ma fermarsi... Non siamo più agli inizi del secolo, amico mio. Adesso la guerra sembra non avere altra regola se non la moneta sonante.”

Il Riario strinse i denti, i capelli, molto ricresciuti da quando li aveva tagliati alla guisa dei soldati, gli ricadevano sul volto in anelli ampi, molto diversi da quelli fini e regolari che si faceva fare quando viveva alla rocca di sua madre.

In quel momento all'amico pareva un bambino e non un uomo di diciannove anni compiuti. Se da un lato gli faceva pena, dall'altro lo faceva innervosire.

“Manfredi...” disse il forlivese, gli occhi fissi al fuoco e la bocca che si seccava un po' per via della domanda umiliante che stava per fargli: “Faresti una cosa per me, se te la chiedessi?”

Sapeva – come molti altri – che il faentino era diventato intimo di sua madre. Immaginava fosse suo amante e da come la Tigre lo aveva tenuto a Ravaldino in quelle settimane gli pareva chiaro che quell'uomo avesse un certo ascendente su di lei.

“Se è in mio potere, di sicuro.” confermò all'istante Manfredi.

“Dato che le mie lettere non verrebbero nemmeno lette, da lei...” cominciò il figlio della Leonessa, con un respiro profondo: “Potresti scrivere tu a mia madre, dicendole che mi sostituisca? Io non voglio restare qui a combattere e lei farebbe solo una pessima figura, se io dovessi portare i colori della nostra famiglia un'altra volta in battaglia.”

Il faentino si passò una mano tra i lunghi capelli biondi e poi si morse il labbro. Sapeva bene quanto tormento avesse Caterina, per un figlio come il suo primogenito. Non aveva voluto chiederle apertamente cosa ne pensasse di lui, ma gli era bastata la reazione che aveva avuto quando le aveva chiesto come mai non avesse punito Ottaviano e Cesare, dopo averli scoperti colpevoli della congiura in cui era morto il Barone Feo.

“Scrivile pure quello che vuoi.” sottolineò il Riario: “Dille che sono un incapace, che sono una vergogna, che le consigli di chiudermi in una stanza e nascondermi al mondo... Sii pure duro nei miei confronti, ma fai in modo che mi ordini di tornare a casa, ti prego.”

Manfredi puntò gli occhietti azzurri sul profilo dell'amico. Quello che si trovò davanti era un Ottaviano distrutto e tormentato da fantasmi di ogni sorta.

“Va bene, lascia fare a me.” accettò, senza pensarci troppo.

Il Riario ricambiò il suo sguardo, pieno di riconoscenza, e poi gli offrì del vino, permettendosi, con un vago ottimismo, di essere già molto sollevato.

Mentre bevevano, guardando il braciere dinnanzi a loro e godendo del suo calore, Manfredi, scaldato da ciò che aveva nel calice e nello stomaco, disse, senza ragionare: “Potrebbe non sembrare, ma la Tigre è una donna incredibile. Non solo sa farsi rispettare... Lei è... Lei è diversa da tutte quante. Ha la forza e l'ardire di un uomo, ma è donna come poche. Quando poi ti porta a letto, non è sempre facile seguire il suo ritmo, è esigente come una regina, e sa fare cose che...”

Il Riario, che pure non avrebbe voluto suonare scortese con il suo amico, soprattutto dopo la promesso di soccorso che gli aveva fatto, smise di bere e si alzò: “Perdonami, io... Ho bisogno di un po' d'aria.”

Manfredi si morse la lingua. La sua amicizia con il forlivese gli aveva fatto scordare per qualche istante di chi fosse figlio.

“Perdonami, non volevo...” provò a dire, ma ormai il Riario era fuori dal padiglione, in cerca di qualcuno su cui sfogare la propria rabbia.

Sentire quei discorsi su sua madre lo aveva riportato indietro di anni, a quando la vedeva con Giacomo Feo, a quando si sentiva accantonare in favore dell'ultimo dei garzoni di stalla. Non sapeva come fare a superare quel suo scoglio mentale. Era sempre stato rifiutato dalla Tigre e per riflesso, lui aveva sempre fatto come se ricambiasse il rifiuto, quando, invece, l'unica cosa che avrebbe voluto, sarebbe stato il suo affetto.

Andato a cercare una donna nel caotico seguito dell'esercito fiorentino, la portò in un luogo appartato e, trattenendosi solo per pochi minuti, si trovò in breve a dare sfogo al demone che lo abitava, finendo per lasciarla in terra, ancora priva di coscienza, il viso tumefatto e un paio di monete sul petto, come ammenda per l'incomodo.

 

Caterina rientrò in città poco dopo mezzogiorno. Era stata dal piovano Francesco Fortunati che le aveva voluto parlare per alcune perplessità dimostrate da Leonardo, uomo al seguito di Ottaviano.

La Contessa, che aveva passato parte della mattina al Quartiere Militare, per dare disposizioni alle nuove reclute e controllare come si comportassero i fuoriusciti che avevano ottenuto il salvacondotto, aveva trovato molto irritanti le recriminazioni di quel Leonardo e aveva ribadito al piovano che non avrebbe tollerato altre lamentele di quel tipo.

“Abbiamo pochi soldi – gli aveva detto, mentre la sua voce rimbombava nella calma ovattata del chiostro del convento – e quei pochi vanno centellinati. Non posso sentirmi dire che è come seminare un campo con cento tipi di semi diversi! Le casse dello Stato al momento possono a mala pena buttar fuori un seme o due per volta, dunque suddividere la raccolta sarebbe facile anche per un incapace.”

Fortunati, mantenendo la sua nota calma, le aveva dato ragione a aveva promesso di riscrivere presto al loro uomo, pregandolo di essere più preciso nei suoi conteggi, piuttosto che prodigo di appunti stizziti.

Malgrado la compagnia del piovano l'avesse un po' calmata, alla Leonessa era bastata la strada dal convento alla città, per sentirsi di nuovo attanagliata da tutti i suoi problemi. La pace che si respirava nella pieve del suo amico non aveva nulla a che fare con l'aria tetra di Forlì, in quei giorni.

Portò il suo cavallo per vicoli stretti e periferici, per controllare come fosse la condizione di quei quartieri più popolani, poi ne approfittò per passare accanto alle più importanti osterie e ai bordelli, per chiedere se in quei giorni fossero scoppiate risse o altri disordini. Dopo quella breve ispezione capì che, come aveva previsto, da quando le truppe milanesi erano partite, la città era molto più tranquilla.

Si trovò, quasi per caso, davanti alla barberia del Novacula. La porta era chiusa e probabilmente Andrea stava mangiando. Lungi dal farsi problemi di sorta, la Tigre bussò con insistenza e quando alla fine l'uomo arrivò ad aprirle, la guardò con tanto d'occhi, stranito nel vederla a quell'ora, e le chiese cosa desiderasse.

“Avete un piatto di minestra anche per una vecchia amica?” gli chiese, sperando di non vedersi chiudere la porta in faccia.

Bernardi parve pensarci un po', poi, con un sospiro, le indicò uno degli anelli al muro, per legare il cavallo, e si fece da parte per lasciarla poi entrare: “Come foste a casa vostra, mia signora.”

“E così anche messer Pirovano è partito...” disse, tanto per non stare in silenzio, il Novacula.

I due erano a tavola, due piatti di minestrone fumante davanti al naso, e una brocchetta di vino già mezza vuota a dividerli.

La Sforza fece un accenno con il capo, ma non commentò. Il barbiere sapeva che faceva così quando non voleva nemmeno sfiorare un argomento, perciò lasciò perdere e tornò a immergere il cucchiaio nel brodo in silenzio.

“Ah, dimenticavo...” fece dopo un bel po' Andrea, alzandosi e andando al mobiletto, estraendone una lettera: “Vostro cognato Tommaso mi ha scritto che non è molto e credo che una parte di questa lettera interessi più voi che me.”

Caterina si accigliò. Si pulì le labbra con il dorso della mano e afferrò la missiva che l'uomo le stava porgendo.

Non si stupiva del fatto che il Feo avesse scritto al Novacula, ma non le quadrava il fatto che secondo il barbiere, nelle righe scritte dal suo ex Governatore vi fossero parole destinate a lei.

Spiegò con cura il foglio sul tavolo, accanto al piatto e Bernardi le indicò il punto che doveva leggere.

'A Imola, per quel c'ho girato maxime in strade et dimore, posso ben dire che la Tygre est extimatissima ogne dove et havendo gran fama est amatissima. Da che corse la piazza, Signoria Nostra est donna d'esta civita e null'altro signore. I Riario, di contra, expecialmente il Conte Octaviano, sono maxime detestati et havuti in odio et de questo me ramarico et reputo magno periculo omnis.'

La Sforza lesse nella mente, il viso che perdeva un po' di colore dopo ogni parola. Imola, una città che da sempre aveva ritenuto tranquilla e autosufficiente, secondo Tommaso dimostrava sì di amare lei, ma di detestare i suoi figli. Cosa sarebbe successo, se lei fosse morta all'improvviso? Imola si sarebbe sollevata contro Ottaviano o Galeazzo o chi per loro..?

“Non mangiate altro?” chiese il Novacula, preoccupato, vedendo come la Tigre avesse allontanato da sé il piatto, restituendogli la lettera.

“Mi si è chiuso lo stomaco.” rispose la donna: “E ora, perdonatemi, ma mi sono appena ricordata di avere un impegno.”

Il barbiere non provò a trattenerla, limitandosi ad accompagnarla alla porta e fissarla, mentre rimontava a cavallo.

Caterina partì a velocità sostenuta, non curandosi di creare un po' di scompiglio nel passare in mezzo alla gente riversata in strada per fare compere al mercato. Puntò quasi senza pensarci alla chiesa in cui era sepolto Giacomo.

Non sarebbe servito a nulla, lo sapeva, ma in un momento di smarrimento come quello pensò che aver di fronte il nome di uno dei due uomini che aveva amato più di se stessa, le sarebbe stato di conforto.

Legò il cavallo ed entrò nella chiesa di San Girolamo. Salutò con un cenno il prete che la vide entrare, e poi si recò subito alla cappella Feo.

Si fermò di colpo, però, quando vide che davanti alla tomba di Giacomo c'era già qualcuno.

Immobile come una statua, Bernardino fissava la lapide del padre – posta troppo in alto per lui perché la potesse avere all'altezza dello sguardo – le mani strette a pugno lungo i fianchi e le guance rigate di lacrime.

La Contessa fu tentata di andarsene e lasciarlo solo. Poi, però, vide le sue piccole spalle sollevarsi in un mezzo singhiozzo e le parve il bambino più indifeso e solo del mondo e si sentì in colpa nei suoi confronti. Lei per prima lo aveva abbandonato...

Mosse un paio di passi verso di lui e Bernardino venne attirato da quel rumore, per quanto leggero, e voltò il capo verso di lei. I loro occhi si incrociarono per un solo attimo, ma al bambino parve bastare per trasformare il pianto muto in uno molto più rumoroso.

Avvampando e sentendosi colmo di vergogna per essere scoppiato in lacrime davanti alla madre, che non aveva fatto altro, negli anni, se non incitarlo a essere forte e comportarsi da uomo, Bernardino prese a correre, passandole accanto, e uscì dalla chiesa senza voltarsi più.

Vedendo la scena, il prete che vagava tra le colonne si avvicinò alla Tigre, che, attonita, non era nemmeno stata in grado di provare a fermare il figlio.

“Viene qui spesso, sapete...” fece l'uomo, posando con fare paterno una mano sulla spalla della sua signora: “Ha bisogno di conforto e affetto.”

Caterina, gli occhi lucidi, ribatté: “Lo so.”

Il religioso non sapeva che altro dire, così provò a buttare la conversazione sul suo campo: “Vi andrebbe di pregare assieme per l'anima del Barone Feo?”

“Lasciami in pace, prete.” fu l'unica risposta che ebbe dalla Leonessa, che, sottraendo la spalla dal tocco dell'uomo, andò un momento solo davanti alla tomba del marito, baciò con lentezza il nome inciso nella pietra e poi si recò a passo svelto all'uscita.

Il prete, le mani congiunte sul crocifisso che portava al collo, scosse il capo e si disse che madre e figlio avevano molto più in comune di quanto non credessero. Anche Bernardino scappava dal dolore e cercava conforto laddove non lo poteva trovare.

Quelli erano tempi inquieti e le notizie della guerra, sempre più incerta e sempre più violenta, scuotevano nel profondo l'animo del religioso. Il suo pensiero, però, in quel momento, più che a se stesso, correva alla Contessa e a quel suo penultimo figlio. Se solo avessero trovato il modo di riavvicinarsi, prima che la vita, con le sue guerre e i suoi imprevisti, provvedesse a dividerli davvero...

 
   
 
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