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Autore: Nina Ninetta    31/08/2018    6 recensioni
Viola è una ragazza disposta a tutto pur di conquistare il cuore della persona che ama, anche fare qualcosa di stupido come fraternizzare con il "nemico", ma talvolta ciò che noi detestiamo può rivelarsi un'autentica benedizione. La giovane si ritroverà a fare i conti con i problemi tipici degli adolescenti, un amore a due facce, un'amicizia persa e una madre emotivamente scompensata.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 22
Sangue

 
Il professore Andrea De Martino si spense lentamente fra le braccia della sua amata Jenny, in una stanza calda e afosa dell’Ospedale Castor, a 100 chilometri circa dal villaggio di cui io e Willy avevamo preso le redini in quel periodo, e come lui continuò a fare dopo.
Il dottore esalò docilmente davanti agli occhi della fidanzata, più giovane di trentotto anni che sarebbe potuta essere sua nipote. Credo che il rapporto tra loro, sul finire, fosse appunto tale. Andrea non aveva mai avuto una famiglia propria: né una moglie, né tantomeno dei figli. Unico figlio di un noto chirurgo estetico e di una famosa scrittrice francese, era cresciuto nell’agio, ma totalmente solo come un iceberg in mezzo al mare. I genitori, troppo presi dalle rispettive carriere per occuparsi di un bambino, ben presto si erano fatti delle vite parallele nelle quali la presenza del piccolo Andrea non era neanche lontanamente presa in considerazione. La sua unica compagna, in quei giorni di solitudine, fu l’anziana governante: una donnona mulatta che si prese cura di lui fin quando la morte non la sorprese nel sonno, a 89 anni suonati.
La prima notte che Jenny trascorse al capezzale del dottore, dissi a William che quei due dovevano amarsi come un padre amerebbe una figlia e viceversa. Lui mi rimproverò, affermando che non potevo leggere nel cuore della gente e che di conseguenza non sapevo l’affetto che li legava. Lo guardai male e in tutta risposta esclamai che era lui a non capire un’acca! Sapevo quel che dicevo perché avevo notato gli sguardi ammiccanti fra Jenny e il ragazzone nero,  Jack, che la seguiva come un segugio, rischiando di perdere quel già precario posto di lavoro che possedeva per prendere parte alle sue lezioni, e che comunque perse del tutto quando si offrì di accompagnarla all’ospedale.
Il giorno dopo la morte del professore seguimmo alla lettera il suo ultimo desiderio: gettare le proprie ceneri nel fiume che lambiva le coste del villaggio.
Solo qualche ore prima avevo osservato in silenzio il corpo del dottore, coperto da un sudario nero, scorrere nel forno crematorio, senza toglierli un attimo gli occhi di dosso, mentre Matteo se ne stava avvinghiato a me, il suo viso schiacciato contro il mio addome. Rivolsi al professore De Martino il mio ultimo e commosso addio; stringendo ancor di più il nipote di Willy a me, lo ringraziai per tutto. Se non l’avessi conosciuto molto probabilmente non sarei qui a scrivere questo diario, intanto che Matteo dorme beatamente nel lettone alle mie spalle e William di fianco a lui.
Né io, né Willy avremmo voluto portare il piccolo Matteo con noi quel giorno, per ovvi motivi, ma alla fine il ragazzo si aggrappò letteralmente a me, in lacrime, supplicandomi di non lasciarlo solo, promettendomi di non fare il “bambino” e sopportando tutto quanto senza piangere o svenire.
In effetti mantenne la promessa.
Dal momento in cui ci venne porto il vaso contenente quel che rimaneva di Andrea – ovvero una manciata di polvere – Jenny non lo lasciò neanche per un attimo. Viaggiò con l’urna funeraria sulle gambe fino al villaggio, gli occhiali da sole calati su occhi gonfi e rossi, senza dire mezza parola.
L’intera popolazione del villaggio ci stava già attendendo. In corteo scemammo attraverso le capanne di paglia, fra le nostre tende, seguendo Jenny in capo alla fila che portava il cinerario di terracotta trionfante, come si farebbe con lo stendardo di un battaglione da guerra. Subito dietro di lei c’ero io, mano nella mano con Matteo, affiancato dall’altro lato da Willy e, a sua volta, da Jack. Le donne del villaggio intonarono per tutto il cammino il loro canto funebre che mi fece accapponare la pelle, sentii le loro voci struggenti rimbombarmi nella testa fino al giorno dopo. In riva al fiume Sangha la mia amica adagiò un bacio sul vaso, tolse il coperchio e lo rovesciò. Le ceneri si sparsero sull’acqua, qualcuna volò tra le foglie degli alberi, altre si librarono nell’aria, ma la maggior parte fu trascinata via dalla forza del fiume, tanto impetuosa come non l’avevo mai vista.
 
Con la scomparsa di Andrea venne a mancare l’asso della squadra, il nostro punto di riferimento, il collante che teneva su l’intera baracca. Era lui a coordinare ogni cosa, a far rispettare le scadenze burocratiche della nostra associazione, a preoccuparsi degli ordini dei medicinali, del cibo e dell’acqua, a trattare con l’amministrazione italiana e africana, a far combaciare i conti fiscali. Così, di comune accordo, ci spartimmo il lavoro che invece il professore aveva portato avanti da solo, fino a quando aveva potuto. Mentre io e Jenny ci occupavamo di tutto quello che riguardava provviste di vario genere, Willy si occupò del quadro formale, ovvero dei fogli da firmare e portare da un ufficio all’altro. Coinvolgemmo il piccolo Matteo nei lavori più semplici e leggeri, dal scaricare i Pick-up che arrivavano al villaggio colmi di aiuti umanitari, a quello di distrarre i bambini con facce buffe intanto che facevamo loro una puntura.
Nel tempo libero, in particolare di sera, quando il sole calava e il caldo allentava la sua morsa, William mise su una specie di scuola calcio. Dopo qualche giorno quel momento divenne una vera e propria smania fra gli adolescenti e non solo, tanto che sia Matteo, sia Jack, affiancarono il mister per tenere a bada il numero crescente di ragazzini che volevano allenarsi. Femmine comprese, almeno fino all’arrivo dei maschi adulti di ritorno dal lavoro nei campi.
Nonostante in pubblico io e Willy ci comportassimo come conoscenti e nient’altro, legati solo da un rapporto lavorativo, ci ritagliavamo diversi momenti della giornata per stare insieme, scoprirci e amarci. Soprattutto nelle giornate fiacche, quando a preoccupare noi medici era solo un banale mal di pancia, bastava scambiarci uno sguardo per ritrovarci dieci minuti dopo nella mia tenda – poiché nella sua c’era il piccolo Matteo che andava e veniva – con il cuore che martellava in petto e un unico, incessante pensiero nella mente...
Tra un bacio e un altro ci scambiavamo notizie e novità riguardanti l’associazione, cose più o meno importanti che, tuttavia, avevamo dimenticato dopo cinque secondi, completamente presi l’uno dall’altra. Era un vortice di passione, quasi un’esigenza, che aumentava quando percepivo in lui le stesse emozioni che stavo provando io, attraverso un bacio, alle sue mani che correvano sul mio corpo, al desiderio che sentivo crescere fremente.
A fine giornata, quando tutti dormivano, continuammo a vederci in riva al fiume, procedendo nella stesura della mia vita. Dopo aver scritto qualche riga e chiacchierato della giornata – com’è andata a te, com’è andata a me – finivamo di nuovo distesi e avvinghiati, ma il fresco della radura, il frusciare dell’erba alta e lo scorrere perpetuo dell’acqua avevano il potere di placare i nostri animi, permettendoci di familiarizzare con i nostri corpi, stuzzicarci e ridere.

Il primo anno dalla morte di Andrea passò piano. La sua mancanza pesava su tutti noi come un macigno, anche la gente del villaggio non riusciva a dimenticare la sua gentilezza e il suo acuto sesto senso per le malattie. Gli bastava scrutare le pupille per capire al volo di cosa soffrisse il paziente. Io e Jenny eravamo alle prime armi e spesso passavamo intere nottate a consultare libri di medicina e a scambiarci opinioni per arrivare al dunque.
In fondo non ce la cavavamo male.
Fu durante una di queste notti, mentre facevamo una pausa con il tè che l’anziana del villaggio ci aveva fatto ricevere a mezzanotte precisa da sua nipote, che Jenny mi confesso di essere felice per me.
Alzai gli occhi su di lei con fare interrogativo: ero completamente assorta nei miei pensieri da non riuscire a capire a cosa si riferisse. Allora lei me lo spiegò:
«Per te e per Willy, voglio dire. Sono felice che potete stare finalmente – e veramente – insieme» mi sfiorò il braccio sorridendo, alludendo ai nostri sedici anni e a quando io e Will eravamo solo dei finti fidanzatini. Abbassai lo sguardo, parlare di queste cose mi imbarazzava ancora.
«Grazie…» non sapevo se andare avanti, se continuare oppure no la discussione, ma alla fine lo feci, proseguii il mio discorso. «… come va con Jack?»
Jenny ritirò la mano dal mio braccio e guardò fuori, attraverso la piccola finestrella di nylon della tenda che aveva condiviso con Andrea e che adesso pareva troppo grande per una sola persona:
«Va di nascosto, Viola. Va che di giorno dobbiamo sembrare due estranei e poi di notte ci trasformiamo velocemente, recuperando il tempo perduto alla luce del sole.»
Pensai a me e a Willy. Al fatto che ci vedevamo di nascosto per evitare le male lingue del villaggio – una persona particolarmente legata alla sua cultura conservatrice probabilmente avrebbe rifiutato le cure di una donna che stava con un uomo senza essere sua moglie – e, perché no, lasciare quell’alone di mistero e desiderio che si prova per le cose belle ma proibite e che, a volte, accendeva le nostre fantasie.
Quella notte avrei voluto chiedere alla mia amica e collega di raccontarmi qualcosa in più sulla sua nuova storia d’amore, ma lei non mi sembrò disposta ad andare oltre quella minima confessione e decisi di rispettare il suo volere. Quando sarebbe stata pronta a parlarmene mi avrebbe cercata senza sotterfugi.

 

***** 


Un giorno Matteo scomparve e con lui la ventottesima nipote di mamà.
Li cercammo ovunque, per ore, munendoci di lanterne a olio e di pile elettriche a batteria, sebbene il sole fosse appena tramontato e il cielo non ancora del tutto buio, il rigoglioso fogliame del boschetto faceva cadere la penombra in alcune zone del luogo già molto prima del crepuscolo.
Ci dividemmo in gruppi. Da lontano potevamo udire l’eco degli uni e degli altri che invocavano il nome dei due scomparsi:
«Matteo! Dahlia!»
Fui io a trovarli per prima e quando li vidi ringraziai il cielo, sia perché erano sani e salvi, ma soprattutto perché se a trovarli fosse stato qualcuno del villaggio non oso neanche immaginare cosa avrebbe potuto fare ai due ragazzi così, su due piedi.
Matteo e Dahlia dormivano beati sulle sponde del fiume, poco più avanti dal luogo in cui mi recavo a scrivere e dove io e William avevamo fatto l’amore la prima volta. Erano entrambi distesi sul terriccio, lui sdraiato di schiena e lei adagiata con la testa sul suo petto nudo e glabro, lasciato in bella vista dalla camicia sbottonata, i folti e riccioluti capelli di Dahlia lo coprivano quasi per intero, come un mantello funereo. Le braccia di Matteo la cingevano con delicatezza, la somiglianza con lo zio mi tolse quasi del tutto il respiro.
Chiamai Willy che sapevo essere lì vicino, poi mi accostai a loro, tirando un sospiro di sollievo vedendoli, comunque, vestiti. Mi chinai sulle ginocchia e tenendo sempre la pila accesa, scossi piano la ragazzina, per non farle prendere uno spavento. Willy arrivò di corsa:
«Li hai trovati?» disse senza fiato, io mi scostai appena per mostrarglieli.
Una cosa è certa: non ebbe la reazione che mi sarei aspettata.
Si adirò come un folle. Afferrò il nipote per il polso e lo tirò su, costringendolo a svegliarsi di colpo, mentre Dahlia rotolava di lato e si aggrappava a me, riconoscendomi come il medico che l’aveva assistita durante una brutta influenza che l’aveva quasi mandata all’altro mondo.
«TI RENDI CONTO DI QUELLO CHE HAI FATTO?» urlava intanto Willy a un millimetro dal viso di Matteo, il quale in lacrime provava a difendersi dicendo che non aveva fatto niente.
Will sembrava impazzito, continuava a gridargli in faccia di quanto fosse scemo e incosciente, che era solo un bambino idiota e che non immaginava neanche lontanamente quello che sarebbe potuto succedere, continuava a tenerlo per il braccio mingherlino che si perdeva nella morsa della sua mano.
In ginocchio e tenendo Dahlia appiccicata addosso, gli intimai di lasciarlo stare, che gli stava facendo male. Alla fine fui costretta a strapparglielo letteralmente dalle grinfie, proteggendo lo stesso Matteo con il mio corpo. Puntai l’indice contro William:
«Non. Toccarlo. Più.»
«Non avete idea, nessuno di tutti e due, quello che molto probabilmente accadrà a questa bambina. Non ne avete la benché minima idea» solo allora Matteo sbucò da dietro la mia schiena. In un anno si era allungato molto, un altro paio di stagioni e sapevo mi avrebbe superato in altezza.
«Che cosa le accadrà, zio? Io, cioè noi, non abbiamo fatto niente!» la voce gli era diventata stridula, era tornata infantile. Willy non rispose, si passò una mano sul viso e sui capelli rasi. «Non è successo niente!» Matteo rimase in silenzio per un attimo, poi mi guardò, tremante di paura. «Solo un bacio. Ma niente di più, lo giuro!» gli accarezzai il viso, commossa da tutta quella ingenuità. Anche Dahlia confermò la versione dei fatti, entrambi così imbarazzati che pensai che due ragazzini di dodici anni non avrebbero dovuto confessare a due adulti del loro primo e innocuo bacetto.
William si incamminò per la strada del ritorno e io, con Matteo da una parte e Dahlia dall’altra, lo seguii a ruota, silenziosa. Lasciammo il nipote di Willy alle cure di Jenny, che intanto era rimasta all’accampamento in caso fossero rientrati, mentre io e Will accompagnammo Dahlia dalla sua famiglia.
Mi sarei aspettata manifestazioni di affetto per la figlia, la sorella o la nipote ritrovata, invece sua madre la guardò male e il fratello più grande, che faceva le veci dell’intera famigliola poiché il padre era morto poco dopo la nascita di Dahlia, la afferrò per un braccio e la trascinò all’interno dell’abitazione. Quando feci per chiedere un po’ di accortezza per quella bambina che aveva dormito all’addiaccio, spaventata e affamata – gonfiai un po’ la storia, lo ammetto – la nonna della stessa, la mamà che mi aveva offerto in dono il diario, mi spiegò che adesso Dahlia avrebbe dovuto scegliere il suo castigo.
«Qua-quale castigo? Si era persa e…»
«Suo fratello dovrà verificare che sia ancora vergine e quindi idonea a un matrimonio benedetto, o scegliere di subire in pubblico dieci frustate.»
«Sta-» deglutii, la gola secca e le lacrime agli angoli degli occhi. Piango sempre quando mi infurio. «Sta scherzando!?» Willy
mi prese per il braccio, con delicatezza, provando a tirarmi via.
«Dai, andiamo» bisbigliò e mi parve di sentirlo lontano anni luce. Lo spinsi via e ripresi a inveire contro l’anziana donna e alla mamma di Dahlia, quest’ultima rimasta fuori dalla capanna, lasciando che il fratello portasse via la sorellina per chissà quale motivo.
La testa mi esplodeva al solo pensiero.
«MA STIAMO SCHERZANDO? É UNA COSA RIDICOLA!» poiché nessuna delle due donne mi rispondeva, presi a battere i pugni contro la porta di bambù della capanna che l’uomo si era chiuso alle spalle, intenzionata a buttarla giù se necessario. Intanto anche gli altri abitanti del villaggio fecero capolino dalle proprie abitazioni. Nessuno si mosse. «APRI! APRI HO DETTO!»
 Niente.
«LASCIALA STARE, HAI CAPITO?! MERDA! NON TI PERMETTERE DI TOCCARLA O GIURO SU QUANTO HO DI PIU’ CARO AL MONDO CHE CHIAMO L’ESERCITO, LA POLIZIA E IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA! ANZI, NO, CHIAMO IL PAPA! MI SENTI, FIGLIO DI PUTTANA! APRI LA PORTA SE HAI LE PAL...» allora Will mi prese di peso e mi portò in spalla fino alla nostra tenda, mi gettò sul materasso e chiuse ogni spiraglio di luce, dalla porta alle finestre. L’aria era irrespirabile lì dentro, mi sembrava di stare sotto una serra. Scesi dal letto e feci per uscire, ma lui mi fermò di nuovo, tenendomi per i polsi.
«Hai capito ora perché mi sono arrabbiato quando li ho trovati al fiume?»
«Senti, per piacere, non dire idiozie pure tu! Ma ti pare una cosa normale? Una ragazzina scompare e la sua famiglia cosa fa? Controlla che sia ancora vergine? Oppure, se non vuole farsi ficcare due dita…»
«Viola!» Esclamò lui con quel suo tono di rimprovero che tuttavia questa volta non servì a riportarmi in me.
«… lì, si becca delle frustate?»
«É la loro religione, la loro cultura e tu non puoi farci niente.»
«E allora vuol dire che hanno una cultura di merda!» mi liberai della stretta ai polsi, iniziando a camminare su e giù per tutta la tenda.
«Ok, ma è comunque la loro cultura. Non puoi arrivare tu da un giorno all’altro e cambiare le
cose. Non è una malattia questa, non puoi curarla.»
«Invece sì, il sapere e la conoscenza possono guarire dall’ignoranza.»
«Viola, devi imparare ad accettare il pensiero degli altri, per quanto sbagliato ti possa sembrare loro non…»
«Io voglio solo che a quella ragazzina non venga fatto del male, per un reato tra l’altro che non ha commesso.»
«Che ne sai? Puoi metterci la mano sul fuoco ed essere sicura di non scottarti?»
«Oh, Will, per piacere. Sono due bambini.»
«Sai cosa significherebbe per quella ragazzina essere reputata dalla sua famiglia non più pura? L’alienazione totale dal suo villaggio e dal resto del Paese. Dovrà portare sulla fronte un simbolo che la marchierà a vita come un’indegna. In poche parole non avrà più un futuro, forse in un bordello, ma nulla di più.»
Ci guardammo per un po’, senza aggiungere altro. Sentivo la rabbia ribollirmi dentro come non succedeva da tempo, la sensazione di impotenza mi scorreva nel sangue e il terrore di quello che la piccola Dahlia stava probabilmente passando in quel preciso istante mi destabilizzava. Senza togliergli gli occhi di dosso mi sfilai la maglietta, le scarpe, il pantalone di cotone e mi infilai a letto. Ero arrabbiata con lui perché lui non era arrabbiato con quelli del villaggio, perché non provava neanche a cambiarle le cose, cercava di comprenderle sebbene fossero sbagliate e io questa cosa proprio non riuscivo a mandarla giù!
In cuor mio sperai che un giorno – non troppo lontano – quell’ignobile del fratello di Dahlia avesse avuto bisogno del mio aiuto medico e io, dall’alto del suo corpo agonizzante, gli avrei fatto scontare le stesse pene patite dalla sorella minore.
Lo giurai a me stessa!
Non so se Willy dormì quella notte, io no di sicuro, anche perché non ero più abituata a non sentire il suo corpo adagiato al mio, a riposare priva del suo calore contro la schiena: per la prima volta da quando ci eravamo ritrovati, dormimmo entrambi agli estremi del letto, senza neanche sfiorarci con le dita dei piedi.
 
Dovetti appisolarmi un po’ verso l’alba, perché quando Matteo entrò nella tenda urlando il mio nome come un pazzo, il sole era già abbastanza caldo. Mi misi a sedere al centro del letto coprendomi con il lenzuolo, un colpo d’occhio veloce e mi accorsi che Willy non c’era già più. Matteo raccolse al volo gli abiti che mi ero tolta la sera precedente e me li lanciò:
«Viola! Vogliono frustare Dahlia! La vogliono fru-sta-re!»
Imprecai perché la maglietta entrava sempre al contrario e perché il pantalone non scivolava sulle gambe come faceva di solito, improvvisamente sembrava che non sapessi più vestirmi. Infilai le scarpe basse senza allacciarle e correndo dietro al ragazzino mi legai i riccioli sulla sommità del capo, senza tuttavia riuscire a trattenerli del tutto.
Lo so che essere frustati non è la cosa più piacevole del mondo, eppure sapere che quella ragazzina aveva scelto le dieci frustate, anziché farsi violare l’intimità, mi aveva alleggerito l’animo.
Nella piazza del villaggio c’era un gruppo di persone, riconobbi alcuni di loro, molti li avevo aiutati a guarire da infezioni varie, tra questi spiccava il volto impassibile e rugoso dell’anziana sciamana e quello impassibile della mamma di Dahlia. Al seguito di Matteo, mi feci largo tra la folla, fino a giungere al centro del cerchio e allora mi resi conto che le persone erano molte di più di quello che avevo creduto a una prima occhiata.
Dahlia era raggomitolata nel mezzo, la fronte schiacciata sul terreno polveroso e secco, le braccia intrecciate a protegger la testa e la schiena nuda ricurva in avanti. L’abito che indossava era aperto fino al bacino, lasciandole scoperto l’intero torso, i piccoli seni spuntavano simili a boccioli. La schiena era purtroppo già stata percossa, la pelle lacerata in un paio di punti e un rivolo di sangue colava fino a sporcare il terriccio.
Su di lei troneggiava lo stesso omone nero che l’aveva trascinata in casa la notte precedente, ovvero suo fratello maggiore, con una frusta di cuoio scuro stretta nella mano destra. Teneva gli occhi chiusi e stava sciorinando una specie di preghiera nella sua lingua antica e incomprensibile. Sembrava in trance. Quando riaprì le palpebre lessi nei suoi occhi un profondo e incomprensibile odio per quella ragazzina chiusa a riccio, così orgogliosa che aveva preferito le frustate all’umiliazione, che non lo supplicava di fermarsi per non dargli soddisfazione. Sentii in sottofondo la voce della mamà intonare una sorta di canto triste, forse un’altra preghiera, e mi tornò in mente la vecchia seduta nella stanza di Lu che borbottava il Rosario. Vidi Lu. Vidi il suo sorriso. Vidi la sua sofferenza e poi sentii la mano di Matteo chiudersi intorno alla mia, mentre il fratello di Dahlia alzava il braccio per schioccare un’altra frustata.
Dahlia gridò. Un grido che mi lacerò i timpani; un urlo di dolore e di mortificazione che mi corse lungo tutto la spina dorsale e mi fece accapponare la pelle.
Mi scrollai di dosso Matteo per fronteggiare l’omone a testa alta e braccia aperte, lo guardai dritto negli occhi, era grosso tre volte me. Lui mi fece cenno di andare via.
«Non me ne vado! Hai capito?!» ovviamente non poteva capirmi, allora chiesi a Dahlia se riuscisse a tradurre lei per me e, con la voce rotta dalla lacrime e dal dolore, lo fece. Suo fratello disse qualcosa e io chiesi alla ragazzina cosa avesse detto:
«Se ne vada dottoressa Viola, se ne vada ora che è in tempo» la sua sembrava quasi una supplica e dubitavo che fosse stato lui a pronunciare quelle parole. Quando le ordinai di dirmi per filo e per segno cosa avesse detto quell’energumeno, Dahlia lo fece con un sospiro. «Che se vuole proteggermi può prendere il mio posto» tossì. «Se ne vada, dottoressa, per piacere…»
«Digli che se non si ferma subito io… oh, ma che fa?!»
Credo che l’omone nero si fosse stufato di non capire neanche una parola di quello che stavamo dicendo io e sua sorella, perché all’improvviso alzò il braccio destro pronto a sferzare ancora. D’istinto coprii il corpo di Dahlia con il mio, ma quella frustata non arrivò mai.
Sentii del liquido caldo e appiccicoso scorrermi per le gambe, chinai lo sguardo e vidi una pozza di sangue allargarsi sotto di me. Dahlia mi guardò preoccupata, acconciandosi come meglio poteva l’abito per nascondere i suoi piccoli seni da bambina. Io le sorrisi e prima di perdere i sensi le sussurrai:
«Visto tesoro? Mio figlio si è sacrificato per proteggerci.»
  
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