Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    01/09/2018    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Bartolomeo sentiva ancora le parole di suo nipote Carlo che gli dava del pazzo. Il dolore che provava ancora all'addome, in parte, dava ragione all'Orsini.

Tuttavia l'Alviano aveva voluto combattere e nessuno, tra gli altri comandanti dei Serenissimi, aveva osato opporsi alla sua decisione. Il cerusico che l'aveva curato l'aveva messo in guardia sui pericoli che la ferita si riaprisse, era troppo fresca, sosteneva, e sarebbe bastato un colpo anche lieve per causare un forte sanguinamento e magari farlo morire.

Bartolomeo si era accorto, nel momento stesso in cui gli veniva posta davanti quella possibilità, che avrebbe preferito mille volte morire così su un campo di battaglia, sotto la neve, le urla della guerra nelle orecchie, piuttosto che dover tornare da Pantasilea Baglioni.

Non aveva nulla contro di lei, ma già il fatto che la sua mente gli stesse riproponendo le immagini confuse della loro prima notte di nozze lo rendeva furioso. Mentre saliva sulla scala adesa alle mura della rocchetta che stavano espugnando, risentire addosso la sensazione vivida e atroce di aver tradito Bartolomea lo rese una bestia.

Con un colpo di reni, che gli fece quasi mancare il fiato dal male che gli procurò alla ferita ancora fasciata, l'Alviano si issò oltre il bordo delle merlature, finalmente in cima alla sua scalata, e, brandendo la spada, trafisse il primo arciere che gli capitò a tiro e da lì, seguito dai suoi, si fece strada buttando giù dai camminamenti soldati e cadaveri.

E in tutto quel dolore e quella rabbia, non vedeva altro davanti a sé se non il viso della Baglioni e il modo in cui l'aveva guardato, quando lui, così ubriaco da stare a mala pena in piedi, si era infilato nel suo letto, per il diletto di quelli che erano accorsi a guardare.

Sapeva che altri l'avrebbero compatito per la sua avversione verso quella nuova moglie. Pantasilea era giovane, non era nemmeno brutta, dicevano anche che avesse modi affabili.

'Ma non è Bartolomea' pensò lapidario il condottiero, tranciando il braccio armato di mazza che stava per calare sulla sua testa.

Aveva quasi raggiunto le scale, e da lì avrebbe poi voluto raggiungere il cuore pulsante di quella rocca e prenderlo.

Diede un grido ai suoi, levandosi l'elmo. La neve stava vorticando così forte che, infilandosi nella celata, gli impediva di vedere anche a un metro da sé. Quello, pensava, era uno dei motivi per cui sarebbe stato sensato interrompere gli scontro almeno in pieno inverno. A lui, in realtà, importava poco, ma gli rodeva pensare che molti dei suoi uomini – tra cui tanti giovani che avevano ancora una vita e degli affetti – sarebbero morti più per colpa di quel clima che della guerra in sé.

Arrivato in fondo alle scale, un energumeno cercò di fermarlo dandogli un pugno in viso con la mano coperta di ferro.

Bartolomeo barcollò. Sentì un subitaneo sapore di sangue e la bocca riempirsi di liquido caldo e viscido. Cercando di non vomitare per quella sensazione che aveva sempre odiato, fina dalla prima volta in cui un colpo sui denti gliene aveva fatto perdere uno, l'Alviano sputò in terra.

Con la coda dell'occhio vide che ben due denti erano caduti nella piccola chiazza di sangue, bianchi come la neve che li circondava, ma non ebbe tempo di pensare a quello che aveva perso con quel pugno, perchè arrivò subito un altro colpo, ancora più forte e quella volta a farne le spese fu la sua lingua.

La sentì stretta tra i denti rimasti, un dolore atroce, quasi o forse più forte di quello che aveva provato nel sentirsi trafiggere la pancia.

Si portò istintivamente entrambe le mani al volto, lasciando la presa sulla spada, mentre i suoi facevano quadrato attorno a lui. Aveva la rada barba completamente inzaccherata di sangue, ma non del nemico, questa volta.

Passò almeno un minuto, e finalmente Bartolomeo non ebbe più la sensazione di essere sul punto di svenire. Si sfiorò la mandibola e non gli parve rotta. Faticava a respirare. Il sangue continuava a scivolargli in gola e gli dava l'impressione di annegare.

Riprese ugualmente la spada, ma da quel momento si limitò a difendere la propria vita nel modo più onorevole possibile, lasciando agli altri il compito di cercare la gloria.

 

Caterina era appena tornata da una perlustrazione lungo il confine con Faenza. Il fatto occorso non era dei più gravi, perché quando si è in guerra episodi simili si mettono sempre in conto, ma la Tigre stava ragionando su un modo per girare la cosa a suo favore.

Passando sul limitare delle sue terre, alcuni soldati faentini avevano incendiato alcune case, malmenato alcuni contadini e usato violenza alle loro donne. Di per sé si trattava di crimini che la Leonessa avrebbe voluto punire con la morte, ma non sarebbe servito a nulla chiedere ad Astorre Manfredi di consegnarle i colpevoli che, subito dopo il breve attacco, erano ripartiti, quasi per certo alla volta del Casentino.

L'unica cosa che poteva fare, a parte cercare di risarcire per quanto possibile le vittime, era sfruttare quell'incidente come meglio poteva.

Toltasi il mantello, la Contessa si andò a sistemare nella stanza di Giovannino, per pensare. Una volta assicuratasi che i suoi abiti non fossero troppo freddi, prese il figlio in braccio e si sedette sulla poltrona, congedando la balia.

“Se ci fosse ancora tuo padre – sussurrò con un sospiro al piccolo, guardandone gli occhi dal taglio allungato – saprebbe come fare...”

Il bambino, in tutta risposta, le si accoccolò sul petto, la fronte contro il collo, il suo respiro leggero che le solleticava la pelle, e si addormentò.

Caterina fece del suo meglio per non muoversi, per lasciarlo dormire. Quel bambino, a detta di tutte le balie, era un disperato e un esagitato, eppure, appena era lei – o Bianca – a prenderlo tra le braccia, diventava docile come un agnellino e si rilassava.

La tranquillità che Giovannino le stava trasmettendo, mise, senza che la Leonessa se ne accorgesse, un gran sonno anche a lei, tanto che finì per assopirsi.

Quando Cesare Feo entrò nella stanza per consegnarle la lettera urgente che era stata recapitata alla rocca, fu quasi tentato di attendere che madre e figlio si svegliassero da soli. Tuttavia la missiva era di Ottaviano Manfredi, arrivata direttamente dal fronte, e il castellano sapeva benissimo che la sua signora aspettava quel messaggio dal momento stesso in cui il suo giovane amante aveva lasciato Forlì.

Perciò, con una sorta di dolce cautela, le si avvicinò e le sussurrò: “Contessa? Contessa...”

La Sforza, che per la prima volta da parecchio si stava godendo un sonno pacifico, senza incubi, ma solo con sogni banali e senza tragedie, aprì lentamente gli occhi, quasi confusa da quella voce che la chiamava.

“Oh, siete voi...” fece la Tigre, schiarendosi un po' la voce arrochita dal sonno: “Ditemi...”

Cesare chinò appena il capo, mentre Giovannino si svegliava come la madre e, stringendo gli occhi, si aggrappava di più a lei, come a chiederle di restare lì con lui e continuare a dormire.

“Questa è appena arrivata. Ve la manda messer Ottaviano Manfredi.” spiegò il castellano, porgendole la lettera.

La donna prese subito il messaggio, ma non lo aprì: “Andate a cercare le balie, che si occupino di mio figlio...”

Il Feo annuì e in meno di cinque minuti tornò scortato da due delle bambinaie. Un po' a malincuore, Caterina affidò a una di loro il bambino che già minacciava di scoppiare in lacrime, e uscì dalla stanza assieme al castellano.

“Il messaggero aspetta risposta?” gli chiese.

“Sì, se ne avete una.” precisò Cesare.

La Sforza strinse il foglio un po' di più nella mano e poi lo congedò: “Dite al messaggero che gli consegnerò a breve la mia risposta.” in fondo, pensò, anche se forse Manfredi si fosse solo soffermato a dirle che stava bene e che la campagna andava avanti come doveva, voleva rispondergli, per dirgli che lo aspettava.

Senza riuscire più ad attendere, appena il castellano l'ebbe lasciata, la Contessa, approfittando del fatto che all'orizzonte non c'era nessuno, si andò a sistemare in un punto tranquillo del corridoio e, la schiena appoggiata alla parete, aprì la lettera.

Il faentino, come previsto, per tutta la prima parte della lettera le diceva solamente di essere in salute e che il campo era ben organizzato. Le riferiva del freddo e della neve, ma senza sottolineare troppo il certo incomodo che ne derivava.

Ciò che attrasse davvero l'attenzione della Leonessa, quindi, fu l'ultima parte. Cambiando radicalmente argomento, quasi senza che vi fosse un collegamento logico valido, Manfredi le aveva scritto: 'Ben sarebbe se il Conte andasse sostituito al campo al breve, più breve che possa'. Però, a quella che pareva una richiesta perentoria, più che un consiglio, non seguiva alcuna spiegazione.

Seguivano dichiarazioni degne di un uomo innamorato, richieste ennesime di perdono per quello che era successo poche notti prima che lasciasse Forlì, e anche una raccomandazione in merito alla questione di Faenza.

Ottaviano la incitava a essere paziente e a prendere tempo e non urtarsi per nessun motivo con Astorre. 'Quando havrò che tornare – aveva aggiunto – havrà da dire e molto su come il fare'.

Dopo un lungo momento passato a riflettere su quanto letto, Caterina ripigò la lettera e rimase un po' contro al muro, sentendo la pietra fredda attraverso la stoffa abbastanza sottile dell'abito che portava.

Con passo lento, poi, mentre nella sua testa si mettevano in ordine un po' di cose, andò nella sua stanza e redasse tre lettere.

La prima era per Astorre Manfredi in persona. Lo metteva a parte – come se già il governo di Faenza non sapesse quanto combinato dai loro soldati – di quello che era successo sul confine e gli riferì che era ben disposta a un accomodamento, per il pagamento dei danni arretrati. Fu molto cordiale e conciliante, anzi, quasi troppo magnanima con le parole, ma le fu necessario per poter mettere sul finale una mezza frase che lasciasse intendere quanto, con quell'incidente diplomatico tra loro, fosse prematuro pensare che Bianca si recasse dal suo consorte già in gennaio, quando ancora i debiti di quell'aggressione immotivata, di certo, non sarebbero ancora stati saldati.

La seconda, invece, era diretta a suo zio Ludovico. All'inizio la Contessa si dichiarava docile e dispostissima a far quello che lui chiedeva, e non si lamentava per nulla né dell'incomodo di avere in casa il malato Giovan Francesco Sanseverino, né della partenza repentina e inattesa di Giovanni da Casale. Da lì, poi, trovava modo di mettere la pulce nell'orecchio del Duca, suggerendo come dietro a Faenza e alla sua amicizia con Venezia altro non vi fosse che Giovanni Bentivoglio, tesi avvalorata dai grandi danni che Annibale Bentivoglio stava facendo nelle campagne della Romagna, stando al soldo del Doge.

Le era stato detto che Ludovico si era fatto, dalla morte di Beatrice, meno propenso a seguire le direttive degli astrologi, ma molto più incline a cedere alle proprie paure e ai propri sospetti. Se, forse, avesse cominciato a dubitare di Bologna, avrebbe finalmente aperto gli occhi anche su Mantova e Ferrara, due finte alleate che, secondo Caterina, avrebbero potuto fare facilmente blocco con Faenza, quando il Doge fosse riuscito a prendere terreno in modo stabile in centro Italia e, da lì, conquistare l'intera Romagna e risalire perfino verso Milano.

La terza, invece, era una lettera rivolta a Ottaviano Manfredi. Non ne uscì un messaggio molto lungo. Per quanto la Sforza avrebbe voluto profondersi in raccomandazioni e ricordi delle notti passate assieme, alla fine non riuscì ad andare oltre a un paio di frasi formali. La verità era che nemmeno lei capiva cosa ci fosse tra lei e il faentino e quella cosa la spaventava.

Dopo la morte di Giovanni aveva capito subito che non avrebbe mai più trovato l'amore, non quello pieno e forte che aveva provato per i suoi ultimi due mariti – gli unici che, nella sua ottica, potessero davvero essere considerati tali – ma tanto con Manfredi quanto con Giovanni da Casale sentiva che a muoverla era qualcosa di più trascinante del mero desiderio fisico.

Malgrado ciò, dopo aver assicurato che avrebbe provveduto subito a richiamare suo figlio, aggiunse che non vedeva l'ora di poter discutere nuovamente a quattr'occhi della questione di Faenza, sperando che il suo amante scorgesse in quelle parole una promessa ben più personale rispetto a quella politica.

Siglate tutte e tre le lettere, la Sforza si abbandonò contro lo schienale e fissò per un po' il soffitto.

Restava la questione di suo figlio Ottaviano. Se Manfredi le aveva scritto quelle parole su di lui, significava che davvero fosse necessario sostituirlo. Le sarebbe piaciuto sapere se solo per capriccio del diretto interessato o se per qualche motivo molto più grave.

Quale che fosse la reale ragione, quando uscì dalla sua stanza per consegnare le lettere – una da spedire subito alla volta di Milano e una da consegnare al messaggero mandato da Ottaviano Manfredi – Caterina disse al castellano: “Convocate per domani mattina presto un Consiglio militare. Dobbiamo discutere del comando della nostre truppe nel Casentino. Dobbiamo votare il ritorno di mio figlio e la sua sostituzione immediata con Albertino Boschetti.” spiegò, facendo il nome dell'unico soldato di professione che, secondo lei, in quel momento avrebbe potuto prendere in mano le redini della campagna senza fare troppo fracasso.

“Capisco, mia signora.” fece Cesare, chinando il capo.

 

“Finalmente sei tornato!” esclamò Semiramide, correndo incontro a Lorenzo e abbracciandolo.

L'uomo tentò di scostarsi, ma la presa della moglie era tanto ferrea, che alla fine dovette cedere e attendere che fosse lei a staccarsi.

La donna, che nello stringere a sé il Medici si era infradiciata tutta, colpa degli abiti gocciolanti di lui, lo prese per mano e lo condusse davanti al primo camino acceso a disposizione.

Fuori, nel buio della sera che scivolava nella notte, i tuoni e i lampi facevano a gara a chi fosse il più spaventoso e l'acqua scrosciava a dirotto, quasi si trattasse di un temporale estivo.

“Non sai quanta paura ho avuto...” fece ancora l'Appiani, quasi senza voce: “Non avere tue notizie da stamattina...”

“Volevo dare una mano.” disse freddo Lorenzo, allungando le braccia e lasciando che il tepore delle fiamme lo riscaldasse un po'.

Erano due giorni che su Firenze cadeva una pioggia fittissima, mista a un vento fortissimo e a saette. L'Arno si era fatto così grosso che quel giorno la città era stata in agitazione fin dall'alba, per paura che uscisse dai suoi argini.

Il Popolano, sentendosi investito di una pesante responsabilità nei confronti dei suoi concittadini, non si era risparmiato un momento ed era corso da un lato all'altro della città, senza un momento di sosta.

“Hai fame? Aspetta... Ti faccio portare dei vestiti asciutti... Se vuoi andare in camera, io...” prese a dire Semiramide, passandogli una mano tra i capelli bagnati, con fare protettivo, malgrado il marito si fosse scostato con un gesto stizzito.

“Posso andare a cambiarmi anche da solo, senza che tu mi faccia da balia!” sbottò l'uomo, alzandosi e andando a passo spedito verso la sua camera da letto.

La donna non disse nulla. Non voleva essere trattata così da lui. Lorenzo era sempre stato gentile e innamorato, ma da quando era morto prima suo figlio Averardo e poi, soprattutto, suo fratello Giovanni, era diventato un altro uomo.

Così Semiramide attese per un po', le mani strette l'una nell'altra. Aveva lo stomaco che borbottava, perché per tutto il giorno, riarsa dall'attesa e dal terrore di scoprire che suo marito non tornava perché rimasto vittima di qualche tragedia legata a quel nubifragio, non aveva toccato cibo.

Tuttavia la fame era l'ultimo dei suoi problemi in quel momento. Non sapeva come gestire Lorenzo, quando faceva così.

Non riuscendo più a stare immobile a far niente, andò negli alloggi della servitù a cercare uno dei domestici che aveva seguito il Popolano nel suo peregrinare di quel giorno. Lo trovò in abiti da camera, seduto davanti al fuoco, con una spessa coperta sulle spalle che, per quanto calda, non riusciva a togliergli di dosso un fremito continuo e profondo.

“Madre santa, quanto freddo e acqua ci si è presi oggi...” fece l'uomo, quando la sua padrona gli chiese notizie della giornata: “Messer Medici non s'è risparmiato nulla, mia signora, nulla. Si è andati perfino al ponte crollato, quello tra la Porta a Prato e la Porticciuola.”

“Quello sul Mugnone?” chiese l'Appiani, corrugando la fronte.

“Quello, mia signora. Il fiume s'è fatto tanto grosso che se l'è portato via quasi fosse fatto di segatura e sabbia, invece che di legno e pietra.” proseguì il servo, stringendosi un po' di più nelle spalle, il tremore che cominciava a placarsi: “E poi il Mugnone ha rotto l'argine e s'è infilato su per il borgo, sapete.”

“Ci sono stati morti, che voi sappiate?” domandò la donna, cercando di non pensare troppo al pericolo corso da suo marito, nel recarsi sul luogo del disastro.

“Sicuramente due. Abbiamo visto trascinato via dalla corrente e poi morto un mugnaio che portava con il suo cavallo della farina e poi una donna che era sul ponte.” rispose il domestico, facendosi scuro in viso: “Quella è proprio caduta nel fiume in piena... L'abbiamo sentita gridare, ma non c'è stato nulla da fare.”

Semiramide rimase per un po' in silenzio e poi ringraziò il servo: “Ora vi lascio libero di asciugarvi e riscaldarvi. Vi farò portare da mangiare qui in camera.”

“Siete troppo buona, mia signora.” ringraziò l'uomo, dedicandole un sorriso che, dopo quelle lunghe settimane di silenziosa guerra domestica con Lorenzo, le scaldò il cuore come non poco.

Le mani l'una nell'altra, Semiramide andò a passo svelto verso la stanza del marito. Probabilmente l'avrebbe trovato ancora intento a cambiarsi. Ne avrebbe potuto approfittare per aiutarlo. Magari, in quei gesti familiari, il Medici si sarebbe sciolto un po' e le avrebbe permesso di riavvicinarsi. La distanza che si era creata tra loro e che non diminuiva mai, se non a sprazzi e per pochissimo tempo, la stava distruggendo e doveva far qualcosa per rimediare. Non solo per se stessa – che comunque ne stava soffrendo in modo indicibile – ma anche per i loro figli che, spaventati dalla freddezza del padre, cominciavano a chiudersi persino con lei.

Prima di entrare in camera, l'Appiani si fermò un momento davanti a uno degli specchi che ornavano la via di passaggio. La luce lanciata da alcune candele infilate nel piccolo lampadario di ferro le pareva insufficiente per potersi sistemare a dovere, ma se la fece bastare.

Controllò che i capelli fossero acconciati per bene, senza ciocche ribelli che scivolassero a lato della reticella. Si passò poi una mano sulle pieghe della gammurra, assicurandosi che non fosse troppo stropicciata e infine bussò alla porta.

Quando dopo tre tentativi non ebbe risposta, decise di entrare comunque.

A dispetto di quanto si era attesa, Lorenzo non si stava cambiando. Aveva ancora addosso gli abiti fradici di pioggia di poco prima e stava seduto alla scrivania, la testa tra le mani e un libro aperto davanti a sé.

Siccome l'uomo pareva non essersi nemmeno accorto della presenza della moglie, la donna avanzò fino a lui e scorse da sopra la sua spalla quello che stava leggendo. Era il carme centouno di Catullo.

“Multas per gentes et multa per aequora vectus advenio has miseras, frater, ad inferias ut te postremo donarem munere mortis et mutam nequiquam alloquerer cinerem...” cominciò a leggere ad alta voce l'Appiani.

“Basta.” la fermò Lorenzo, con voce bassa e rabbiosa.

“Devi cambiarti o prenderai una polmonite.” gli disse lei, sorvolando sul tono aggressivo con cui le si era rivolto.

“Se anche mi venisse, ormai nessuno piangerebbe per me.” ribatté il Popolano, senza sollevare lo sguardo dalla poesia che Catullo aveva scritto per il fratello morto, la stessa a cui Michele Marulli si era ispirato per la sua composizione in onore della morte di Giovanni.

Appena dopo aver detto quelle parole, Lorenzo sentì le braccia di Semiramide stringerlo e il corpo della donna scosso da un pianto silenzioso, ma violento.

“Non devi dire così – lo rimproverò lei, la voce rotta dalle lacrime, ma molto chiara – se tu morissi, io non mi darei pace.”

Fu solo un istante, ma, mentre lo guardava in viso, l'Appiani rivide nello sguardo del Medici il marito che le era stato scelto anni prima. I suoi occhi tradivano una bontà d'animo di fondo che, con gli anni e i dolori, era stata sepolta sotto cumuli di disprezzo e amarezza. Però quel fondo di purezza c'era ancora.

“Adesso lasciami in pace. Devo... Devo anche sbrigare della corrispondenza, che oggi con questa maledetta pioggia non ho...” iniziò a farfugliare Lorenzo, alzandosi dalla sedia e sciogliendo a quel modo l'abbraccio della moglie.

“Prima devi cambiarti.” insistette Semiramide, e, senza avere il permesso del marito, cominciò a spogliarlo.

Egli, dopotutto, non sopportava più quegli abiti fradici addosso e così la lasciò fare. Rimasto solo con le brachette, anch'esse ancora umide, fissò con insistenza la donna che aveva davanti e che si stava affaccendando accanto alla cassapanca, per cercagli gli abiti giusti per quella serata fredda.

Preso da una frenesia che non provava da tempo – anzi, forse tanto prepotentemente non l'aveva mai provata – l'uomo si avvicinò alla moglie, arrivandole alle spalle, e la strinse a sé.

Semiramide non era avvezza a simili gesti da parte del marito. Nemmeno quando il loro amore era stato all'apice lui si era mai dimostrato particolarmente ardito, nel suo comportamento. Il modo, però, in cui le sue mani la stavano indagando, le lasciava pochi dubbi in merito alle sue intenzioni.

Non sapeva se quello che lo animava fosse reale desiderio di averla o solo desiderio di evadere dai propri pensieri, tuttavia decise di non lasciare nessuna strada intentata. Suo marito le mancava, anche da quel punto di vista e quindi, decidendo di sfruttare l'occasione fin tanto che le veniva offerta, lasciò perdere gli abiti della cassapanca e pose le proprie mani su quelle di Lorenzo.

Prendendo quel gesto come un chiaro permesso di continuare, il Medici mosse assieme a lei qualche passo verso il letto e la fece stendere.

La gammorra indossata dalla donna era quanto di meno pratico vi fosse, in quel preciso caso, ma il Popolano non aveva pazienza e così, con pochi secchi movimenti, riuscì a sollevare tutti gli strati delle sottane, mentre Semiramide, il cuore che cominciava a battere veloce, si scioglieva i capelli.

Non la prese né con dolcezza né con gentilezza, ma l'Appiani l'apprezzò quasi di più che se si fosse lasciato condurre da lei.

Alla fine, dopo averle concesso un bacio appena, per quanto profondo, Lorenzo si sedette sul letto, dandole le spalle. Respirava ancora velocemente, e dal modo in cui poi le parlò, alla donna fu chiaro che quello che avevano appena fatto ancora lo trovava scosso.

L'unico suono nella camera, in quel momento, a parte il crepitare del camino acceso, era quello della tempesta che ancora si stava abbattendo su Firenze, illuminando la notte di lampi e facendola rimbombare con tuoni simili a colpi di cannone.

“Adesso vattene, per favore. Ho delle cose da fare.” le disse, in un filo di voce: “E non farmi portare nulla da mangiare. Non ho fame.”

L'Appiani deglutì. Anche lei aveva ancora il fiato corto e il sangue che bolliva, ma sapeva che se avesse indugiato troppo tra quelle lenzuola, probabilmente il marito si sarebbe ritrasformato nel cane rabbioso che era stato negli ultimi mesi.

Così, scuotendosi i capelli per renderli meno arruffati e sistemandosi la scollatura e i lacci anteriori dell'abito, allentati dal marito, che aveva voluto vedere e stringere il suo seno, come a reclamarne il possesso, la donna si alzò dal letto, si accomodò con cura le sottane e, senza dire più nemmeno mezza parola, se ne andò.

Lorenzo, le mani appoggiate alle ginocchia, sollevò gli occhi tondi solo quando sentì la porta chiudersi. Si lasciò ricadere coricato sul materasso, il viso premuto sul cuscino su cui poco prima aveva posato la testa sua moglie. Inspirò il suo sentore e poi, con un groviglio di emozioni confuse che si agitavano in lui rischiando di farlo impazzire, scoppiò a piangere senza riuscire a fermarsi se non quando, sfinito da quella giornata senza tregua, si addormentò.

 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas