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Autore: Adeia Di Elferas    03/09/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Albertino Boschetti, con un piccolo manipolo di soldati che dessero ricambio ai più provati tra quelli al fronte, era partito quella mattina di buon'ora da Forlì.

Caterina gli aveva dato ordine di lasciar tornare Ottaviano solo dopo essersi fatto passare formalmente il comando delle truppe, in modo da non incappare in possibili ritorsioni degli armigeri più turbolenti.

Poco dopo la partenza di Boschetti, poi, era arrivato in città Polidoro Tiberti, tornato dalla sua missione a Roma. La Sforza lo aveva voluto incontrare all'istante e gli aveva chiesto a voce delucidazioni in merito a ciò che lui aveva già dichiarato per lettera.

“Come immaginavo.” aveva commentato a denti stretti la donna, quando il suo emissario le aveva fatto presente come la loro unica speranza fosse Raffaele Sansoni Riario.

“Mi pare ben intenzionato, ma, e credo abbia ragione – aveva soggiunto Polidoro, con una certa cautela – chiede a Vostra Signoria di non lasciar ancora partire messer Cesare alla volta di Roma, perché il papa potrebbe leggerla come una pressione non necessaria.”

'Ma io, in casa, non me lo voglio tenere più...' aveva pensato la Tigre, ricordandosi come anche quel giorno lei e suo figlio si fossero incrociati per caso, si fossero scambiati un paio di battute pungenti e poi si fossero allontanati, ognuno dei due sperando che la loro separazione avvenisse il prima possibile.

“Magari – aveva suggerito Tiberti, notando l'insofferenza della Contessa – potreste prima farlo partire per un viaggio presso qualche parente. Ma fossi in voi, aspetterei di avere uno straccio di promessa almeno ufficiosa in merito al suo futuro...”

La Leonessa gli aveva dato ragione, senza, però, dirgli quel che pensava davvero e poi gli aveva chiesto come stesse il Cardinale Sansoni Riario e come fosse il suo palazzo che, almeno sulla carta, era proprietà di Ottaviano.

“Un magazzino di statue e tele, mia signora.” aveva risposto con un vago disgusto il soldato, che di quelle cose proprio non ne capiva l'utilità: “Con tutto il denaro che vostro cugino sta seppellendo in quella casa, voi e io, mia signora, potremmo comprarci un esercito bastevole a conquistare Venezia, Firenze e Roma tutte in un'unica campagna.”

Quella costatazione aveva accompagnato Caterina per il resto della giornata e, arrivata la sera, quando aveva incontrato per caso Michele Marulli a tavola, le erano tornate in mente alcune conversazioni fatte con il suo Giovanni, quando ancora stavano imparando a conoscersi.

Il bizantino era alla rocca perché aveva aiutato il castellano con alcune carte importanti, forte della sua cultura solidissima, e si era fermato a cena solo per l'insistenza di Cesare Feo, ripromettendosi, però, di tornare al suo alloggio in città prima di notte.

Quando vide la Sforza sedersi accanto a lui, l'uomo la ossequiò con un cenno del capo e le spiegò in breve come mai lo trovava lì, ma ella non pareva interessata a quel genere di argomenti.

“Firenze è piena di opere d'arte, vero?” gli chiese, a bruciapelo, mentre cominciava a versarsi da bere.

Michele deglutì il boccone che stava mangiando e poi, la voce sottile che si faceva strada nel chiacchiericcio della sala, che a quell'ora era abbastanza affollata, annuì: “Sì, sì, mia signora. A Firenze non si può fare un passo, senza respirare l'arte.”

“Anche dopo Savonarola?” chiese Caterina, ricordandosi di quanto suo marito avesse sofferto, nel leggere le notizie che arrivavano dalla sua patria, durante i tribolati mesi di dominio del domenicano.

Marulli sospirò e convenne: “Molte cose, moltissime davvero, sono andate perse per la follia di pochi... Ma molte si sono salvate e Firenze rifiorirà, fedele a se stessa, come ha sempre fatto.”

La Tigre bevve un po' di vino e poi, incurante della spina nel cuore che scavava nella sua carne ogni volta che qualche parole del bizantino le riportava alla mente Giovanni e il suo amore per la sua terra, gli chiese: “Potreste parlarmi di più di Firenze e dei suoi artisti? Ditemi quello che sapete e quello che avete visto...”

Michele non trovò la richiesta facile, ma, ben deciso a dimostrarsi valevole della fiducia che la Contessa gli aveva accordato fin dal primo giorno, si impegnò al massimo per descrivere a parole quello che la sua memoria gli suggeriva.

Passarono oltre due ore, durante le quali i commensali andarono e vennero, mentre la milanese e il fiorentino d'adozione continuavano il loro discorso immersi in una sorta di mondo parallelo, fatto di immagini e sensazioni molto distanti da ciò che era la rocca in cui si trovavano.

“Qui – fece alla fine Marulli, quasi arrivando proprio a quella conclusione – si respira un clima molto diverso, da quello di Firenze. Ma vi capisco. State già facendo anche troppo e prima della bellezza e dell'arte, bisogna pensare a salvarsi la pelle.”

Siccome in quelle parole non c'era traccia di rimprovero o sarcasmo, Caterina le apprezzò profondamente e commentò: “Giovanni avrebbe voluto portare un po' della sua Firenze anche qui, ma non ne abbiamo avuto il modo.”

Michele si morse un momento il labbro, notando distrattamente come per tutto il tempo la sua interlocutrice avesse solo bevuto, assaggiando appena lo stufato che si trovava davanti, e poi sospirò: “Lo ripeto, mia signora: avete già fatto più del possibile, per questa terra.”

“Sapete, questa rocca...” la Sforza, istintivamente, giocherellando con il calice, indicò le pareti spesse e il soffitto alto: “Rispetto ai palazzi che mi descrivete voi è un posto orribile, ma per me è casa mia, ormai.”

“Non è troppo inospitale, per essere una rocca.” la blandì il bizantino, con un sorriso pacato.

“A quello che so, gli Ordelaffi, una cinquantina di anni fa, la usavano per rinchiuderci i prigionieri più pericolosi e quelli a cui volevano infliggere le pene peggiori.” spiegò la donna, vuotando il bicchiere con un sorso unico: “Questo vi lascia immaginare quanto sia ritenuta ospitale, questa rocca.”

“Ma voi, vivendoci, l'avete addomesticata.” provò a dire l'uomo, il sorriso che si spegneva un po', man mano che la voce della Contessa si faceva amara.

“Se si gira per le strade di Forlì, si vedono solo soldati, armi, e teste impalate sulle picche, sulla Torre del Pubblico.” brontolò la Sforza, scuotendo appena il capo: “Altro che le statue e gli eleganti palazzi di cui mi parlate voi...”

“Mia signora...” disse piano Marulli, avvertendo che qualcosa nella Tigre si stava alterando.

“Lasciate perdere, non è colpa vostra.” tagliò corto lei, alzandosi: “Solo... Parlare di queste cose alla fine mi ha messa davanti una volta di più a una realtà che non vorrei.”

Il bizantino la salutò, non appena lei gli augurò una santa notte, e poi rimase ancora qualche minuto seduto, immobile, chiedendosi se quella donna fosse così anche quando il suo amico Giovanni Medici l'aveva conosciuta, amata e sposata. Se la era, allora lui doveva averla proprio amata profondamente per riuscire a gestirla.

Non era solo per la conclusione affrettata e secca che la Leonessa aveva dato a quella discussione, ma anche per come si comportava, giorno e notte, con i suoi soldati e con la sua gente. C'era qualcosa, nella Contessa, di talmente irrequieto che, a parere di Marulli, nel volerle vivere accanto doveva essere molto difficile da sopportare.

 

Ludovico stava ripensando alla lettera che aveva scritto quel pomeriggio e spedito alla volta di Forlì. Calco e perfino Ermes lo stavano mettendo in guardia sul suo modo di gestire quella situazione, ma il Duca non voleva per nessun modo cedere.

Così aveva scritto in risposta alle ultime lamentele della Tigre dicendo che gli spiaceva se i fiorentini non stavano usando Achille Tiberti come lei voleva e che l'avrebbe preso subito al suo soldo, se solo non fosse stato un uomo di tali pretese.

Di contro alle richieste di Caterina di avere altri aiuti militari – sosteneva di non aver visto nemmeno un cavallo di tutti quelli che suo zio le aveva promesso – il Moro era stato anche più categorico, dicendo che non gli pareva il caso di mandarle altri soldati e che, anzi, probabilmente presto i veneziani si sarebbero ritirati per l'inverno e dunque per lui non sarebbe stato che una spesa inutile, spedire uomini e mezzi in Romagna.

Calco, che aveva letto la missiva appena prima che lo Sforza la chiudesse, aveva commentato, aspro: “I veneziani si ritireranno per l'inverno... Non voglio sapere se siete tanto ingenuo da crederci davvero o tanto viscido da fingerlo e basta.”

“Perché non torni a letto? Fa freddo...” la voce di Lucrezia Crivelli fece voltare appena Ludovico, che si era messo vicino alla finestra, a scrutare l'orizzonte scuro.

“Arrivo, arrivo... Un momento.” disse l'uomo, mentre nelle orecchie ancora sentiva rimbombare l'accusa di Calco.

Se perfino lui aveva osato parlargli così, cosa avrebbero potuto fare gli altri?

Si diceva la verità, quando si sosteneva che il re di Francia si sentisse pronto a scendere in Italia al solo scopo di strappare allo Sforza il Ducato?

Era vero che per le strade si inneggiava al figlio di Isabella d'Aragona? Non era bastato allontanare quel bambino da sua madre? Proprio ora, che per colpa del papa gli Aragona stavano riguadagnando terreno in politica? Cosa doveva fare? Ucciderlo davvero, come anni prima aveva suggerito Beatrice..?

“Ludovico...” chiamò ancora la Crivelli, che stava morendo di sonno e sentiva il morso freddo della notte di fine novembre baciarle la pelle: “Avanti... Torna qui da me...”

L'uomo sospiro, una mano dalle grosse dita premuta sugli occhi, quasi a volersi levare dalla testa tutte le preoccupazioni usando la forza.

“Stai pensando a Beatrice?” chiese infine la sua amante, risvegliandosi del tutto.

Poche ore prima non gli era parso tanto affranto per la defunta moglie, quando era corso a cercarla e se l'era portata in camera, ma in quel momento, complice forse la luce spettrale che arrivava dalle finestre e quella tremula del camino, il viso del Moro pareva davvero quella di un fantasma.

“Sì.” rispose lui, senza però spiegare in che modo i suoi pensieri gli avevano riproposto l'immagine di Beatrice.

L'avevano vista tutti come una ragazzina, come una bambina, quasi, capace di grandi capricci e di travolgenti entusiasmi, ma solo lui l'aveva conosciuta davvero. La Beatrice scaltra e senza scrupoli, quella capace di spingerlo anche oltre le sue remore. Insieme, si rammaricava Ludovico, pensando a quello che aveva perso, avrebbero potuto conquistare il mondo.

“Vieni... Ti consolo io.” la quarantaseienne – sua coetanea – allungò le braccia in sua direzione, lasciando che le coperte scivolassero e mettessero in mostra la parte superiore del suo corpo, cercando di convincerlo una buona volta.

Lo Sforza fissò Lucrezia. Anche con quella poca luce, poteva vedere molto bene le sue grazie. Le conosceva bene e spesso si trovava a desiderarle. Non era più giovane, ma era ancora bellissima.

“No... No, non ne ho voglia.” soffiò l'uomo, scuotendo il capo.

Si infilò una pesante vestaglia da camera, a coprire gli abiti da notte, e poi andò verso la porta, dicendo: “Resta pure qui, se vuoi. Io... Ho bisogno di un po' d'aria.”

La Crivelli, dopo che il Duca l'ebbe lasciata sola, restò qualche minuto in silenzio a fissare l'oscurità oltre le finestre del palazzo di Porta Giovia. Sapeva di non doversi offendere per quel genere di rifiuto. Ludovico era fatto così e da quando aveva perso Beatrice era diventato scostante come un temporale estivo. Però non le piaceva, il tono mesto che aveva usato. Era stato come se la sua voce uscisse da una tomba.

La stessa tomba, pensò con amarezza Lucrezia, coprendosi di nuovo fino al mento e cercando di addormentarsi, in cui era stata sepolta anche Beatrice, figlia di Ercole Este e Duchessa di Milano.

 

La Tigre, una volta uscita dalla sala delle armi, aveva preso a vagare per la rocca senza una vera meta. Anche se parlare di Firenze e ripensare a Giovanni all'inizio le aveva fatto piacere, per quanto le avesse messo tristezza, dopo un po' aveva cominciato a sentire la malinconia trasformarsi in dolore.

La sera era scivolata in notte e continuava a nevicare. Il silenzio era quasi totale e l'unico suono che rimbombava nelle orecchie di Caterina era lo scoppiettare delle torce sui camminamenti e qualche battuta scambiata dai soldati di ronda che dicevano una parola ogni tanto giusto per scaldarsi un po'.

Cercando i punti più solitari, evitando chiunque, alla fine la donna si rese conto che quella passeggiata notturna non avrebbe fatto altro se non farle prendere qualche malanno.

Salendo in fretta le scale, passò davanti alla porta della camera di Giovannino e andò oltre. Anche se aveva voglia di stare un po' con suo figlio, non trovava il caso di presentarsi da lui in piena notte.

Immaginava già che le balie trovassero strani certi suoi comportamenti, dunque non era il caso di alimentare ulteriormente le loro chiacchiere.

Passò anche davanti alla stanza di Bianca. Si chiese se sua figlia fosse ancora sveglia e si rispose che probabilmente dormiva, ormai. Non sapeva nemmeno che cosa le avrebbe detto, se avesse trovato lo spirito di bussare e chiederle di parlare un po'.

L'argomento più logico, sarebbe stata la questione di Astorre Manfredi, ma in quei giorni nemmeno la Sforza sapeva più cosa pensare. Ormai sciogliere quel matrimonio non era nemmeno più solo una questione di protezione verso sua figlia, ma anche verso lo Stato.

La pace mantenuta con Faenza in quegli anni era stata una manna e anche adesso, con una guerra in corso, sentirsi abbastanza tranquilli di non venir attaccati da una striscia di terra inclusa tra Imola e Forlì era un vantaggio indiscutibile. Però, Caterina se lo sentiva, se Bianca fosse davvero diventata la moglie di Astorre, e fosse andata a Faenza, di certo Castagnino, mosso da Giovanni Bentivoglio, avrebbe immediatamente puntato i cannoni e avrebbe cercato il colpo di mano contro di lei, complici i veneziani.

Così, non volendo affrontare un discorso tanto spigoloso, la Leonessa proseguì fino alla sua stanza.

Entrò, riattizzò il camino e poi si sedette sul letto. Ripensò alle parole di Marulli e al modo in cui aveva descritto Firenze. Le aveva ricordato molto da vicino il modo in cui lo aveva fatto tante volta Giovanni.

Sfiorò con indice e medio il nodo nuziale che portava all'anulare sinistro e si ricordò di come suo marito, a un certo punto, aveva smesso di raccontarle di casa sua. Non aveva mai capito se l'avesse fatto perché parlare di Firenze stava diventando troppo doloroso, o se ormai pensava di non tornarvi più e pensava alla rocca di Ravaldino come casa propria.

Abbassò lo sguardo sulle sue mani – sempre bianche e morbide grazie alle sue creme – e si rese conto che tremavano.

La partenza di Giovanni da Casale e di Ottaviano Manfredi a poca distanza l'una dall'altra la stava mettendo ancora alla prova.

In quel momento sentiva la mancanza del Medici e – inutile negarlo – anche di Giacomo. Aveva cercato di trattenersi, da quando Manfredi e Pirovano avevano lasciato la rocca, ma in quel momento avrebbe dato qualsiasi cosa, per la compagnia di un uomo.

Sentiva lo stomaco bruciare, probabilmente per colpa del troppo vino e del poco cibo che aveva mangiato a cena. Chiuse un momento gli occhi, cercando di calmarsi. Sentiva il bisogno di piangere, ma non voleva farlo.

Quando riaprì le palpebre, vedere i libri di Giovanni sulla scrivania e la sua cassapanca contro al muro furono la goccia che fece traboccare il vaso.

Come le era successo alla morte di Giacomo, in lei si stavano mescolando due tipi diversi di desiderio. L'uno chiamava sangue e vendetta, l'altro voleva qualcuno tra le lenzuola per essere soddisfatto.

Per un fugace istante, fu tentata di andare nella sua alcova da strega e annebbiare i propri sensi con la sua pozione a far dormire. Così, pensava, sarebbe stata innocua, almeno per quella notte. Ma il timore di non riuscire più, poi, a liberarsi dalla dipendenza di quel senso di irrealtà che le dava la sua mistura, la trattenne.

Ragionò un istante e alla fine optò per la soluzione più indolore. Avrebbe potuto andare nei baraccamenti dei soldati e sceglierne uno, come faceva spesso. Ma quella sera, forse per colpa dei calici di troppo, sapeva di non essere abbastanza vigile, quindi era meglio rivolgersi a qualcuno disposto a stare attento anche per lei.

Andò alla scrivania, preparò uno stringato messaggio e poi, richiudendo il biglietto, uscì dalla stanza e cercò un servo.

Ne trovò uno solo vicino agli alloggi della servitù. Era un mingherlino, abbastanza giovane. Le venne da sorridere, quasi con cattiveria, nell'immaginare la faccia che avrebbe fatto quando avesse saputo dove doveva andare.

“Porta questo al bordello – gli disse, godendosi l'espressione atterrita del ragazzo, e gli spiegò in quale postribolo di preciso dovesse andare – hai capito quale?”

Il giovane annuì, prendendo il biglietto e così la Tigre proseguì: “Se dici a qualcuno di questa cosa, ti faccio staccare la testa dal collo, intesi?”

L'altro fece di nuovo segno di sì con il capo e poi, a un cenno secco della sua padrona, scattò subito a far quello che gli era stato chiesto di fare.

Caterina, allora, andò nella sua tana, la camera in cui portava le sue prede, e si mise ad aspettare, cercando, invano, di provare di nuovo a calmarsi un po'. Quando finalmente il ragazzo del lupanare arrivò, la Tigre gli corse immediatamente incontro, senza nemmeno un cenno di saluto, felice di avere finalmente qualcuno con cui sfogare il tormento che aveva dentro di sé.

 

Ottaviano Riario stava finendo di preparare i bagagli. Albertino Boschetti gli aveva, finalmente, dato il cambio in modo ufficiale e quindi all'alba sarebbe partito per tornare alla volta di Forlì.

“Posso?” Manfredi, il suo unico amico lì al campo, si affacciò sulla porta del padiglione.

Il figlio della Tigre gli fece segno di entrare pure e poi, riuscendo perfino a sorridere, gli disse: “Io sarei passato alla tua tenda appena prima di partire...”

Le labbra del faentino non ricambiarono il sorriso, anzi. Il suo volto, coperto da un velo di barba bionda e incorniciato dai capelli lunghi e sciolti, tradiva una profonda preoccupazione.

“È successo qualcosa?” chiese a quel punto il Riario, capendo che qualcosa non andava: “Hai avuto notizie da mia madre, per caso..?” indagò, credendo possibile che la Tigre scrivesse prima a Manfredi che non a lui.

L'altro, però, scosse il capo e poi sussurrò, appena udibile: “Arrivo dal padiglione di Paolo Vitelli e hanno detto che i pisani hanno riconquistato il bastione di Stagno.”

Il forlivese parve rilassarsi tutto di colpo, nel sentire che era quello, il motivo della preoccupazione dell'amico: “Ah, temevo fosse successo qualcosa di grave!”

Manfredi, le lunghe braccia incrociate sul petto, guardò i bagagli dell'altro e commentò: “Già, ma a te che te ne importa delle sorti della guerra e delle minacce di Vitelli di lasciare il comando...”

“Se Vitelli lasciasse il comando – fece notare il Riario – stai tranquillo che daranno l'ingaggio a qualcun altro. Magari qualcuno migliore di lui.”

Il faentino non disse nulla, restando serio e mesto, e poi, vedendo come l'amico paresse intenzionato a non scomporsi in nessun modo per le sorti della guerra, tornò verso l'uscita del tendone e gli disse solo: “Prega che Firenze vinca questa guerra, o potrai dire addio alle tue città e anche a tua madre.”

Ottaviano, nel sentirsi dire queste parole, sollevò lo sguardo, finalmente teso, e chiese: “Che intendi dire?”

“Se non capisci da solo che tua madre si sta giocando tutto per difendere la terra del tuo patrigno e di tuo fratello Giovannino, io non posso farci nulla...” tagliò corto Manfredi, sollevando una mano e lasciandolo solo con le sue nuove angosce.

 

“Sei arrivato in fretta.” commentò piano Caterina, stringendo a sé il ragazzo del bordello, una presenza, in quella stanza un po' fredda, sicura e viva come un faro in mezzo a un mare nero pece.

“È stata una fortuna che quel servo che hai mandato sia arrivato in tempo...” fece lui, la voce sottile, quasi un sussurro, mentre con le dita sfiorava lentamente la schiena della Tigre, sotto alle coperte: “Mi hai permesso di evitare un cliente che proprio non sopporto.”

La Sforza rafforzò un po' la presa sul corpo giovane dell'uomo e convenne: “Meglio, allora, se ho pensato di chiamare te.”

“Non mi è mai piaciuto – spiegò il ragazzo, sistemandosi un po', quasi a disagio – usare con gli uomini. Però è una cosa che mi hanno fatto fare fin da bambino, alla fine mi sono abituato. Quando mi capita di poter avere una donna, però, mi sembra di rinascere.”

La Contessa non sapeva cosa dire. Avvertiva una profonda sofferenza, in quelle parole, ma si sentiva la persona meno indicata per dire qualcosa di consolatorio.

Sapeva che avrebbe potuto riscattare quel giovane e farlo lavorare alla rocca. L'aveva fatto con tante ragazze, in fondo. Però c'era qualcosa che la frenava.

“Dite che questa guerra finirà presto?” chiese il ragazzo, cambiando apparentemente discorso.

“Non lo so – confessò la donna, che sentiva ormai il vino del tutto svanito dal suo sangue e i suoi sensi di nuovo tranquilli, placati dalla battaglia conclusa da poco – ma temo che non sarà questione di giorni.”

L'altro chiuse un momento gli occhi, con un sospiro. Poi si passò una mano tra i capelli biondi. Il suo pensiero stava correndo alla quantità di clienti che si erano riversati nei bordelli di tutta la città, da quando le fila dell'esercito si erano ingrossate e, soprattutto gli ultimi, quelli rientrati coi salvacondotti della Leonessa e quelli presi con la forza dalle campagne, sapevano essere delle bestie.

Ci sarebbe mancato solo il ritorno di Ottaviano Riario – noto in tutte le case di tolleranza di Forlì per la sua propensione ad alzare le mani e lasciare le donne mezze morte dopo averle prese con la forza – e fare il lavoro che faceva lui sarebbe diventato un autentico incubo.

Soprappensiero, il ragazzo sfiorò la mano della donna e notò per la prima volta il nodo nuziale che portava all'anulare: “Vi manca molto?” chiese, sentendola fremere sotto al suo tocco.

“Mi mancano tutti e due.” rispose Caterina.

Al giovane non servirono spiegazioni. Ricordava benissimo la prima volta che la Sforza l'aveva chiamato alla rocca: il Barone Feo era morto da poco e la voragine che aveva lasciato in lei era così profonda che non era stato facile, riuscire ad avvicinarsi senza esserne inghiottiti.

Poi c'era stato il Medici ed era morto molto prima che la Tigre potesse guarire dalla sua prima profondissima ferita.

“E adesso anche Manfredi e Pirovano sono lontani...” soffiò la milanese, affondando un po' il viso nel petto del giovane, quasi a volersi dimenticare dei suoi due amanti annusando il profumo degli oli con cui si era cosparso prima di andare da lei.

Meditando sul fatto che anche la donna che stringeva tra le braccia aveva una vita difficile e che quella guerra le stava togliendo quel poco che, a fatica, stava cercando di riavere, il ragazzo le baciò la fronte e le sussurrò: “Manca ancora un po' all'alba...”

La Sforza colse l'antifona e si trovò d'accordo con lui: “Dobbiamo consolarci come possiamo.” e ne cercò le labbra, baciandolo con intensità, prima di cercare di più e farlo suo ancora una volta.

 
   
 
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