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Autore: Saelde_und_Ehre    03/09/2018    1 recensioni
[Questa storia è uno spin-off di "Das Lied der Vergessenen Helden". È ambientata tra i venti e i dodici anni prima dell'inizio delle vicende narrate nella suddetta storia e riguarda un personaggio non inserito nella trama principale, pertanto può essere letta senza temere spoiler.]
Il conte Friedrich von Peilstein detto Langschwert, è un giovane cavaliere austriaco rinomato in patria per la sua vita avventurosa e ricca d'azione. Alla corte viennese egli è ricordato, insieme a suo fratello Siegfried, per aver giocato un ruolo decisivo durante le guerre tra Sacro Romano Impero e comuni italiani.
Le fanciulle sospirano nell'udir decantare le sue prodezze, i giovani cavalieri cercano di emulare le sue gesta.
Ma dietro tutto questo, si nasconde un uomo come tanti altri…
*ATTENZIONE: la storia, originariamente concepita come una one-shot, è stata divisa in tre parti
Genere: Avventura, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Sælde und êre'
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Mediolanum, A.D. MCLXII

Dopo l'esperienza milanese di quattro anni prima, le truppe del Barbarossa erano scese in Italia altre volte, già a partire dall'anno immediatamente successivo, cingendo la città di Crema di un cruento assedio che durò nove mesi. Nel frattempo, papa Adriano IV era morto, e al suo posto era subentrato Rolando Bandinelli sotto il nome di Alessandro III. Fin da subito egli ingaggiò una lotta serrata a suon di investiture e scomuniche con l'imperatore, già impegnato contro l'inarrestabile ribellione delle città italiane, che nonostante i divieti di Roncaglia s'erano unite in una lega benedetta dal papa [17].
Friedrich e Siegfried von Peilstein parteciparono a ogni spedizione, mentre il fratello maggiore Konrad restava in Austria insieme all'ormai anziano padre: si poteva dire che trascorressero più tempo in Italia che in madrepatria, e che conoscessero le terre lombarde molto meglio di certi abitanti del luogo poco avvezzi a muoversi sulle lunghe distanze. Il ministeriale Ludwig von Schaunberg, neanche a dirlo, aveva ormai conquistato del tutto il favore e la fiducia del conte Siegfried, un uomo affabile e generoso per natura, che lo considerava senza riserve uno dei suoi più fedeli uomini.

Correva l'anno del Signore 1160, e come già previsto prima della dieta di Roncaglia, i milanesi vennero nuovamente alle armi coi tedeschi. Attaccarono prima diversi castelli della Lombardia, espugnandoli e riducendoli all'obbedienza, e infine furono sconfitti sul campo dalle truppe imperiali, che catturarono e oltraggiarono il Carroccio. Tuttavia, la sorte ebbe un rapido rivolgimento, perché i milanesi attaccarono l'accampamento dove il Barbarossa e i suoi uomini erano riuniti a festeggiare la vittoria, e cogliendoli di sorpresa li misero in fuga. Trionfanti, inebriati dal successo della loro sortita, rivolsero poi le armi contro i cremonesi e i lodigiani, sconfiggendo anch'essi, e si diedero da fare per ricostruire la città.
Nove mesi dopo, nel maggio dell'anno 1161, Federico Barbarossa marciò contro Milano dando il via a una violenta controffensiva, accompagnato da un numero ragguardevole di uomini giunti da ogni contrada dell'impero. L'intera regione fu messa a ferro e fuoco e tutte le vie commerciali furono bloccate nella speranza che la città, isolata su tutti i fronti, proclamasse la resa senza ulteriore spargimento di sangue.
Ma dovettero passare ancora molti mesi prima che i milanesi, stretti in una morsa di ferro, decidessero di inviare i loro consoli a negoziare la resa. Era il mese di febbraio dell'anno 1162.
L'imperatore, che in quel lungo tempo aveva svernato a Lodi insieme alla moglie e ai suoi più autorevoli consiglieri, ricevette gli otto milanesi in presenza di più di cento tra nobili tedeschi e consoli delle città alleate. Costoro, accompagnati da venti soldati e dalle bandiere con la Croce di San Giorgio, si presentarono uno dopo l'altro: Ottone Visconti, Anselmo dall'Orto, Aliprando Giudice, Anderico Cassina, Amizone da Porta Romana, Anselmo da Mondello, Anderico da Bonate e Goffredo Mainerio. Alcuni di essi, dedusse Friedrich, dovevano essere nobili, perché oltre alle insegne della città recavano anche stemmi personali; su tutti spiccava il Visconti, sui cui bianchi vessilli campeggiava una specie di drago, o serpente [18] in azzurro, che teneva tra le fauci un saraceno.
"Vipereos mores non violabo", sillabò Ludwig, all'orecchio di Friedrich. "Non... violavo... le usanze dei serpenti?"
"Violerò."
"Questo sì che è un motto interessante."
"Preferisco i draghi ai serpenti, tu lo sai bene", disse Friedrich con un sorrisetto. "Il drago non è solo portatore di caos, ma anche garante di ordine e prosperità. Un dualismo indissolubile."
Quando il Visconti distaccò il gruppetto di qualche passo e pose un ginocchio a terra di fronte allo sguardo imperturbabile di Federico Barbarossa, tutti gli altri tacquero.
"Vossignoria", esordì. "La nostra città è allo stremo. Il popolo milanese, piagato dalle carestie e dal rigore dell'inverno, invoca la resa. La plebe è in tumulto, le milizie cittadine gettano le armi, e a nulla valgono i nostri sforzi di ridurle all'obbedienza..."
"Un terribile flagello!", rincarò Anderico Cassina, le mani tra i capelli.
Anselmo dall'Orto crollò in ginocchio, scuotendo la testa. "Ahimé! Come può una città resistere a lungo, se i suoi figli si rifiutano di difenderla? Ahi, Milano, mia dolente Milano... dov'è finita la tua gloria?"
"Basta così", intimò Federico Barbarossa, levando una mano. "Alzatevi, tutti quanti. Proclamate dunque la resa?"
Amizone da Porta Romana avanzò di un passo. "È così, vossignoria, non desideriamo altro che la pace."
"Ad alcune condizioni." Goffredo, che fino a quel momento era rimasto impettito e in silenzio, si pose ossequiosamente a fianco del concittadino e srotolò una pergamena. "Riempiremo i fossi che abbiamo scavato e apriremo le mura per permettere il passaggio delle milizie imperiali; promettiamo di costruire in città, a nostre spese, un palazzo per la gloria dell'imperatore; inoltre siamo disposti a rassegnare i nostri incarichi e accettare un podestà di nomina imperiale, sia pure di stirpe tedesca."
"Come garanzia per il rispetto dei patti, consegneremo per tre anni trecento ostaggi", concluse Aliprando Giudice.
"Come sarebbe?" L'imperatore sobbalzò sulla sedia. "Siete venuti per arrendervi o negoziare?"
"Ma, vossignoria, vi preghiamo di...", tentò di giustificarsi il Visconti.
"Signor console, non tentate di blandirmi con le vostre suppliche", lo redarguì il sovrano. "Se sperate di ottenere da me una qualche grazia, dovrete consegnarmi la città senza alcuna condizione. Altrimenti la mia ira e quella dei vostri fratelli si abbatteranno implacabili sulla vostra riottosa progenie."

Congedati gli otto consoli, si decise all'unanimità di assaltare la città, e due giorni dopo l'esercito imperiale stava montando le tende e dispiegando le macchine da guerra intorno alle sue possenti mura.

***

Milano era assediata da almeno due settimane. A ogni ora del giorno e della notte, il boato delle pietre scagliate contro le mura, la deflagrazione dei proiettili incendiari, i colpi secchi e decisi degli arieti e dei gatti che si abbattevano incessantemente contro le mura sovrastavano le urla e il cozzare delle armi.
Sembrava che l'assedio, nonostante le offerte di resa e i tumulti interni, fosse destinato a tirare avanti per le lunghe: le mura, ricostruite in appena otto mesi, erano più robuste delle precedenti, e i pochi difensori che ancora resistevano avevano giurato solennemente che, pur di non inginocchiarsi di fronte al sovrano che aveva così sdegnosamente rifiutato le loro offerte, sarebbero morti sotto le rovine della città.
"Maledetti!", ruggì Otto von Wittelsbach in risposta alle urla dei milanesi, agitando la spada. Era un uomo basso di statura, con le guance perennemente arrossate e folti riccioli neri, che aveva fama di essere cordiale con gli alleati e spietato coi nemici. "Desiderano la morte, quegli scellerati, e chi siamo noi per negargliela? Mi auguro che abbiano già ricevuto l'assoluzione per tutti i peccati che hanno commesso!"
Enrico d'Austria, invece, aveva lunghi capelli biondi che portava sciolti sulle spalle, e nonostante le sue doti di guerriero, aveva un fisico snello e le spalle strette. "Joch sam mir got helfe!" [19], esclamò, appoggiato al suo scudo.

In quei giorni, Siegfried von Peilstein aveva ricevuto un'inaspettata visita da parte di sua moglie Hildegard, e sfruttava ogni momento di riposo per stare insieme a lei. Il figlio di quattro anni era rimasto in Austria: il conte non lo vedeva dall'estate precedente, e se non fosse arrivata Hildegard ad allietarlo con la sua compagnia, Friedrich era sicuro che suo fratello, benché cercasse di non darlo a vedere, non avrebbe resistito ancora a lungo. La differenza più lampante tra loro due, o almeno così pareva a Friedrich, era che Siegfried ormai aveva piantato le proprie radici in Austria, mentre lui, abituato a una vita da cavaliere errante, come suo unico punto fisso aveva l'amato Ludwig.
Instancabilmente, terminato l'assalto Friedrich e Ludwig si rifocillavano e tornavano ad allenare gli scudieri e gli armigeri più giovani, distogliendo Siegfried da quel gravoso compito. Molti di quei ragazzi stravedevano per il Langschwert, di cui decantavano le mirabolanti prodezze e le numerose vittorie, ed erano onorati di tirare di scherma insieme a lui.
"E anche oggi abbiamo finito", disse Friedrich, rivolto al suo compagno.
Ludwig sorrise. "Pare di sì. Andiamo a riposarci e a bere un bicchiere di buon vino?"
Tornati al padiglione, Friedrich scostò cautamente il drappo posto all'entrata e si insinuò all'interno.
Siegfried gli dava le spalle, ed era curvo su una carta che teneva spiegata sul tavolo. Stava parlando ad alta voce, mentre Hildegard, seduta di fronte a lui, lo ascoltava in silenzio. Avevano entrambi i capelli scompigliati e le vesti stropicciate.
Friedrich, seguito da Ludwig, fece per recarsi nell'angolo opposto della tenda, dove tenevano i loro scanni e la scacchiera, ma la donna fece cenno a entrambi di avvicinarsi. Siegfried alzò la testa e si rimise a sedere con un sospiro.
Sul tavolo c'era una mappa della città di Milano, tracciata a inchiostro nero, su cui qualcuno aveva scarabocchiato delle linee rosse e scritto alcune parole che da quella distanza Friedrich non riusciva a leggere. Dopo averla osservata per qualche istante, rivolse al fratello uno sguardo interrogativo.
"Sedetevi, perché sarà una spiegazione molto lunga", disse l'altro.
I due non tardarono a esaudire la sua richiesta.
"Allora..." Siegfried si alzò di nuovo, e indicò una torre intorno alla quale erano state tracciate linee rosse e appunti in tedesco. "Questa è la torre sotto la quale siamo appostati. Poco distante, come voi ben sapete, c'è Porta Romana, che è quella che gli arieti e i gatti martellano invano da due settimane..." Tacque per un istante, indicando la direzione da cui proveniva il rumore. "Se continuiamo così, e se davvero i milanesi sono determinati a perire insieme alla loro città pur di non consegnarsi nelle nostre mani, sa Dio quando, volenti o nolenti, finiranno per crollare..."
"In effetti, a Crema sono durati per nove mesi", commentò Friedrich.
"Tuttavia", continuò Siegfried, in tono allusivo, "se noi riuscissimo a entrare di nascosto in questa torre, avremmo accesso all'argano che regola l'apertura della porta..."
Ludwig si grattò la barba pensieroso. "Il dilemma è: come sperate di entrare in quella torre, herre? Se non sbaglio ci sono quaranta uomini a sorvegliarla giorno e notte, e tra il nostro accampamento e i suoi bastioni c'è un fossato profondo almeno dieci cubiti e largo il doppio."
Il conte trasse fuori un'altra mappa e gliela fece scivolare sotto il naso, sogghignando compiaciuto. "C'è un pertugio sotterraneo, da qualche parte, che conduce esattamente all'interno della torre."
"E come vi si accede?"
"Non lo so, ma è collegato con l'esterno: ci resta solo scoprire dove si trova l'entrata e ingegnarci per trovare un modo di forzarla. Il cunicolo è molto stretto, tanto da permettere a un solo uomo alla volta di avanzare carponi, ma conduce proprio al piano più basso della torre. Al primo piano c'è l'alloggio delle guardie - sarà quella la rogna peggiore - al secondo la sala dell'argano e all'ultimo il cammino di ronda, che come sempre è presidiato da quei venti uomini di ricambio."
Friedrich lo guardò dritto negli occhi. "Quindi, basterebbe che qualcuno si infiltrasse all'interno della torre e azionasse l'argano..."
"Non qualcuno. Lo farò io."
Hildegard sobbalzò e lo afferrò per un braccio, accigliata. "Tu da solo? Oh, Sigi, tu devi aver perso il senno!"
L'altro rise, attirandola a sé. "Stai tranquilla, Hilde, anche se volessi non potrei andare da solo. Ho necessariamente bisogno dell'aiuto di un paio di uomini robusti per aiutarmi ad azionare la leva, e di almeno una dozzina di armigeri per tenere a bada le guardie..."
"Verremo noi", concluse Friedrich risoluto, battendo una pacca sulla spalla di Ludwig.
"E sia", accordò Siegfried. "Domani notte andremo a cercare l'entrata. E quando l'avremo trovata, coordineremo le azioni: è necessario agire nottetempo."

***

Un gruppetto di venti uomini armati, guidati dai conti Siegfried e Friedrich von Peilstein, abbandonò di soppiatto l'accampamento degli austriaci, recando con sé lanterne e picconi.
La luna piena velava d'argento i contorni delle pietre dell'imponente fortificazione; i fuochi ardevano sugli spalti, e il tumulto delle macchine da guerra turbava la calma sussurrante dell'accampamento addormentato.
Furono necessari molti colpi di piccone per scardinare la grata posta a protezione della botola, accuratamente nascosta tra cespugli e pioppi dalle radici robuste, ma alla fine il passaggio fu aperto.
Siegfried puntò la propria lanterna contro la stretta apertura, rivelando una stretta scala a pioli che scendeva lungo un umido cunicolo di cui non si intravedeva la fine. "Vado prima io. Guardate dove mettete i piedi", disse, scivolando al suo interno. Subito dopo, anche Friedrich lo seguì, e le sue narici furono invase da un forte odore di umido. Terminata la scala, avanzarono un po' strisciando un po' gattonando, impediti dalle cotte di maglia e dalle spade che strusciavano per terra sferragliando. Pareva che quella galleria non finisse più.
Infine, la voce di Siegfried annunciò: "Siamo arrivati."
Gli uomini che erano rimasti dietro si fermarono per non finire loro addosso, e i due fratelli, sollevando le lanterne, videro una porticina di legno invasa dalle ragnatele, sprangata ma non particolarmente robusta, che sfondarono con una spallata ciascuno. Un topolino fuggì squittendo.
Salirono un'altra rampa di scale, oltre la quale si intravedeva un debole lume, e si trovarono in un androne vuoto e oscuro, con torce appese alle pareti, che dava accesso al piano superiore. Alcune panche e delle tavole con caprette erano accatastate lungo la parete più lontana.
Friedrich si guardò intorno furtivamente, portando una mano all'impugnatura della spada.
"Chi va là?", gracchiò una voce, in lombardo schietto.
Nessuno rispose, qualcuno spense la propria lanterna con un soffio e rimase immobile.
"Chi va là?"
"Merda!", imprecò un armigero, in un bisbiglio. "Torniamo indietro!"
Siegfried lo fermò. "Calma, calma. Tenetevi pronti a estrarre le spade: li aspetteremo qui."
Qualcuno sospirò, probabilmente maledicendo la caparbietà del suo giovane signore.
Altre voci concitate che parlavano in volgare lombardo, uno scalpiccio di passi giù per le scale, un alone di luce giallognola che si disegnava sul pavimento. Un nutrito gruppetto di armigeri armati di tutto punto uscì allo scoperto, le spade in pugno. "Malnàtt!"
"Adesso!", ordinarono Siegfried e Friedrich all'unisono, sguainando rapidamente le spade.
Le urla e il clangore dell'acciaio saturarono l'aria, e presto all'odore di chiuso subentrò l'odore acre del sangue.

"Signor conte, state attento!", urlò qualcuno.
Friedrich si voltò di scatto e vide suo fratello chino per terra mentre tentava, strisciando, di riprendere possesso della propria spada. Un uomo lo afferrò di peso per la collottola e gli passò un braccio intorno alla gola, minacciando di sgozzarlo. Il conte tentò di liberarsi con una gomitata, ma l'altro lo scaraventò di nuovo a terra con un calcio e gli poggiò un piede sulla schiena per farlo stare fermo, urlando qualcosa ai suoi commilitoni, che ripresero la strage con maggior ferocia. Già cinque dei volontari che avevano seguito i due fratelli giacevano riversi al suolo, feriti o agonizzanti, e il pavimento era viscido di sangue. Con un balzo, Friedrich riuscì a raggiungere la guardia e a colpirla con la propria spada prima che colpisse suo fratello.
"Arrenditi, e non ti farò niente", gli intimò, in latino, sperando che capisse. Fino ad allora avevano soltanto tentato di prendere più ostaggi possibile.
Ansante, reggendosi la spalla ferita dalla quale stillavano purpuree gocce di sangue, l'uomo scosse la testa in segno di diniego.
Siegfried si rialzò a fatica e riprese in mano la spada, barcollando leggermente per rimettersi in equilibrio. Aveva uno squarcio nelle maglie dell'usbergo che si dipartiva dalla spalla al gomito, e la sua cotta d'arme era lorda di sangue.
Friedrich, senza scostare la lama dalla gola del prigioniero, guardò suo fratello in attesa di conoscere le sue intenzioni.
"Ti do licenza di ucciderlo", disse l'altro, semplicemente. Poi si rivolse agli altri, alzando la voce: "Risparmiate coloro che si arrendono e uccidete gli altri. Se quest'impresa volgerà in vittoria, la città capitolerà questa notte stessa."
Stupito dalla veemenza del fratello, che senza attendere altro era di nuovo piombato nella mischia, Friedrich eseguì, e il prigioniero crollò sotto di lui con un rantolo soffocato.
La missione in cui si erano imbarcati si stava rivelando più cruenta del previsto.

Friedrich aveva perso il conto di quanto tempo fosse trascorso da quando era entrato in quell'androne. Sei dei loro uomini erano morti, e suo fratello, pur tentando di aggrapparsi alle sue ultime forze per combattere, continuava a perdere sangue dal braccio, e ogni movimento pareva costargli un'immane fatica.
"Siegfried, ci penso io qui", gli gridò, tuffandosi ancora una volta nel tumulto della battaglia. "Tu e Ludwig andate su ad aprire le porte. Prima ce ne andiamo, e meglio è."

Miracolosamente illeso, ma sudato e sporco di sangue, Friedrich Langschwert fu ridestato da un boato proveniente dall'esterno. I lombardi irruppero in grida costernate e si gettarono a terra implorando perdono; i suoi compagni d'arme esplosero in canti festanti.
Il giovane abbassò la spada, sorridendo tra sé. La battaglia era vinta.

Il Langschwert, suo fratello Siegfried e i loro compagni furono accolti in trionfo, mentre ai sei caduti fu riservata una sontuosa cerimonia funebre; e per giorni, prima della resa definitiva di Milano, all'accampamento di Porta Romana non s'era parlato d'altro. Una menzione speciale fu riservata anche alla contessa Hildegard von Mörle, che grazie alla sua profonda conoscenza dell'arte medica si era occupata delle ferite di suo marito, e in virtù di tale merito doveva essere inclusa tra i vittoriosi di quella giornata.
Difficilmente, un trionfo del genere sarebbe stato dimenticato.

 

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[17] Lega Lombarda; patto di Anagni

[18] Il biscione, dal punto di vista di Friedrich, che ovviamente non può sapere che si chiama in quel modo.

[19] è la famosa esclamazione che costò a Enrico il soprannome Jasomirgott. Significa all'incirca "sia fatta la volontà di Dio".

  
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