Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: DruidGirl    15/10/2018    1 recensioni
[Storia precedentemente intitolata "Note di Paura"] La amichevole e compassionevole Morioh, sempre così ingenua nel suo accogliere ogni persona che passi di lì, ha aperto le braccia ad un nuovo cittadino, un misterioso pianista e professore la cui figura e il cui lavoro sono tanto misteriosi quanto chiacchierati. Rohan già sente che non ci si può fidare del pianista e quando quest’ultimo organizza una festa in maschera la sera di Halloween, il mangaka la prende come un’occasione d’oro per dissipare o confermare i suoi sospetti. Un po’ per la sua maledetta curiosità, un po’ per istinto, Rohan porge l’orecchio a melodie segrete ed oscure e scopre così che la festa del talentuoso professore è destinata a diventare un teatro di orrori, una notte thriller. Il curioso mangaka agghindato a tema si trova ancora una volta a portare il peso della salvezza di Morioh sulle spalle.
Genere: Sovrannaturale, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Josuke Higashikata, Okuyasu Nijimura, Rohan Kishibe
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'Rohan's Bizarre Adventures'
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Thriller Night

 

Mi trovavo faccia a faccia con un vampiro.
Scrutai attentamente gli occhi marcati di nero incorniciati da ciglia lunghe e folte, le sopracciglia definite che gli conferivano uno sguardo serio. L’ombra cadeva nei punti giusti, scivolava sulla guancia evidenziando gli zigomi ed il pallore generale del viso lungo, stemperato solo dalle labbra rosee da cui scendeva un rivolo di sangue secco. I folti capelli neri erano tirati all’indietro, come fossero stati travolti da un’ondata d’aria durante l’apertura della cripta in cui aveva dormito per secoli. Mi soffermai poi sui vestiti, la cui fattura non era delle migliori, ma che conferivano comunque un aspetto elegante e antico alla creatura che mi trovavo davanti: un lungo mantello nero dal colletto rigido, ampio e tanto lungo da arrivare dritto fino all’altezza delle orecchie; una camicia con maniche a sbuffo bianca che quasi si confondeva col pallore della carnagione, dei semplici pantaloni neri ed un grosso medaglione d’argento con una pietra color rubino al centro. Sembrava arrivato da un’altra epoca, estraneo a tutto ciò che aveva intorno.
– Io non uscirò mai di casa conciato in questo modo. Scordatelo. – Il mio verdetto fu duro e sorprese il mio amico Koichi, che fino a quel momento mi aveva guardato con grandi occhi trepidanti.
– Cosa? – Strillò sorpreso dalle mie parole. – Ma che dici? Sei un Conte Dracula perfetto. Mi sono impegnato così tanto… –
Mi girai a guardarlo, ancora stranito dal suo travestimento.
– Hai svolto un lavoro ineccepibile, – dissi seguendo con gli occhi le righe scure che gli cadevano dagli angoli delle labbra al mento, disegnate per mimare la bocca di una marionetta, – sia su di me che su di te. Ma io non sono fatto per queste assurdità. –
Il ragazzo sbuffò, accasciandosi sul divano. – Mi avevi promesso che saresti venuto. –
Inspirai. Raramente promettevo ciò che non avevo la sicurezza di poter mantenere, e mi maledissi per averlo fatto. Koichi aveva passato quasi due ore ad acconciarmi e truccarmi, aveva procurato i vestiti, i trucchi professionali, la cera per i capelli. Era elettrizzato all’idea di una festa in maschera, come sinceramente lo ero anche io; tuttavia non mi sentivo a mio agio nel travestimento, non ero abituato a questo tipo di cose.
– Pensavo ti piacessero le cose oscure, i vampiri, l’horror, la paura… – Continuò Koichi in un abile tentativo di dissuadermi. – Chissà quanta ispirazione potresti trarre da questa serata. –
Sogghignai. – Non cercare di fare il furbo. –
 – Dai, Rohan! – Koichi giunse le mani in preghiera verso di me. – Saranno tutti travestiti, non ti sentirai a disagio! Ma hai visto come sono conciato io? –
Il piccoletto non aveva tutti i torti. Il suo travestimento da Billy, il pupazzo di Saw l’Enigmista, era semplicemente assurdo. Era realizzato talmente bene da snaturare completamente l’apparenza del ragazzo, facendolo sembrare un piccolo essere demoniaco; la statura era adatta già di suo, ma aveva dato il meglio di sé con quella faccia sbiancata, persino più della mia, le spirali rosse sulle guance e le lenti a contatto sclera nere con le iridi rosse.
– Non lo so, Koichi. – Sospirai osservando il suo completo elegante nero decorato da un papillon rosso. – Quell’uomo non mi piace. Ho un brutto, bruttissimo presentimento. –
Ecco, avevo finalmente confessato la verità.
– Di nuovo con questa storia? Il professor Yamada non ha niente che non va. –
Storsi il naso. – Non all’apparenza. –
Koichi sbuffò. Ogni volta che esprimevo il mio sospetto nei confronti di quell’uomo, Koichi non faceva altro che ripetermi quanto in realtà fosse stato un bene per la città. Io non ero d’accordo, ma sembravo essere l’unico a pensarla così.
– Mettiamola in questo modo, Maestro. – Decretò poi il ragazzo. – Prendila come un’occasione per dissipare i tuoi sospetti. –
– O confermarli. – Ribattei immediatamente.
Koichi alzò gli occhi al cielo. – O confermarli, come ti pare. Non hai sempre desiderato leggere cosa si nasconde tra le sue pagine? –
Mi morsi un labbro per la curiosità. Eccome se lo avevo sempre desiderato! Fin dal primo momento in cui avevo sentito parlare di lui.
– Non mi avevi forse detto che era sbagliato usare il mio Stand su di lui senza prima avere prove dei miei sospetti? –  Gli rivolsi un sorriso beffardo al quale ricambiò alzando le spalle.
– È vero… – Sospirò il piccolo Billy. – Ma per questa sera sei scusato. Qualsiasi cosa, pur di farti venire… –
Il mio sorriso si ampliò. Avrei usato Heaven’s Door in ogni caso, ma mi faceva piacere avere la sua approvazione, seppur forzata. – D’accordo, mi hai convinto. Ma preparati al peggio, e non dire che non ti avevo avvertito. –

 

***

 

Partiamo dal principio di questa storia, dalla prima nota di questo spartito.
Durante l’aprile di quell’anno, Morioh aveva aperto le braccia ad un nuovo cittadino. La ridente, accogliente, splendida Morioh – la mia amichevole e compassionevole cittadina, sempre così ingenua nel suo tendere le braccia ad ogni persona che ci camminasse, era stata invasa da una presenza non indifferente. Un pianista e professore di musica, il cui nome era Yuito Yamada, aveva deciso di sistemarvici, provocando un silenzioso ma imponente trambusto. Aveva comprato una magione diroccata in collina e ne aveva fatto la sua dimora, e si era proposto come insegnante di musica al liceo Budo-ga Oka, che i ragazzi frequentavano.
A parte qualche esperto di musica, nessuno lo conosceva quando arrivò in città. Il suo nome però ben presto si era fatto largo tra le vie, e non in modo immeritato: la sua musica era qualcosa di spettacolare, le sue dita pressoché magiche. Io non lo avevo mai sentito suonare, nemmeno tramite video o registrazioni; aveva tenuto un paio di concerti tra aprile ed ottobre, ma erano riservati a pochi fortunati e svelti acquirenti ed ogni tipo di registrazione era vietata.
Le testimonianze di questi fortunati ed il mistero che avvolgeva la sua musica avevano contribuito a portarlo sulla bocca di tutti; il suo nome era presto giunto anche alle mie orecchie e aveva destato sin dal primo momento un sospetto istintivo e praticamente immotivato nei suoi confronti. La sua figura non mi era mai piaciuta: forse il mistero, la segretezza con cui custodiva la sua musica; forse il modo silenzioso in cui si era insinuato in città o forse un sesto senso da portatore di Stand mi avevano indotto a diffidare di lui. Avevo svolto delle ricerche, ma non mi avevano condotto molto lontano: non si sapeva nulla di lui se non che fosse, appunto, un pianista e compositore famoso soprattutto nella zona di Sendai, nella quale era nato, ma neanche troppo conosciuto al di fuori di essa. Non ero riuscito ad ascoltare la sua musica dal vivo, nonostante gli sforzi; lo avevo incontrato, però. Mi ero recato a scuola a cercare Koichi con una scusa e l’avevo incrociato nei corridoi: nel momento in cui il suo sguardo si è posato sul mio ho provato una sensazione che fatico tutt’ora a descrivere. Se fossi stato un gatto in quell’istante il mio pelo si sarebbe rizzato, la mia schiena inarcata e avrei cominciato a soffiare forte. Non saprei come altro rappresentare il fastidio e la diffidenza che mi suscitò. Da allora i miei sospetti hanno trovato conferma; anche se non lo potevo confermare in nessun modo e non riuscivo a convincere nessuno, tantomeno i ragazzi, della sua aura sinistra, io sapevo che quell’uomo aveva qualcosa di sbagliato e mi ero promesso di provarlo al mondo prima che avesse potuto fare del male a qualcuno.

 

***

 

E così era giunta la mia occasione. Yamada aveva organizzato una festa in maschera la sera del 31 ottobre e aveva invitato tutti i ragazzi dell’ultimo anno di liceo e tutti coloro che erano stati ad una delle sue esibizioni. Ognuno di queste persone poteva portare un’altra persona con sé; Koichi aveva ben pensato di estendere il suo invito a me, fornendomi un’occasione d’oro per la mia indagine, ma al contempo mettendomi in difficoltà con quel travestimento.
Ed eccoci lì, io e Koichi conciati come due matti che ci avvicinavamo alla cima della collina, avvertendo sempre più forte la strana sensazione di venire oppressi e schiacciati dalla magione in tutta la sua imponenza. I suoi due piani alti di pietra grezza e chiara torreggiavano, il tetto a piccole piramidi rosse si stagliava contro il cielo nero; solo la luce della luna ci guidava verso di lei attraverso una stradina sterrata, rendendo il tutto ancora più sinistro e sovrannaturale. In effetti tutto sembrava stato fatto apposta per quella notte, ovvero la notte di Halloween: la magione imponente e sinistra, lo spicchio di luna accarezzato da qualche nube luminescente, l’aria fredda che penetrava pungente nei polmoni ogni qualvolta respiravo; ho sempre amato questo tipo di cose e mi sentivo molto elettrizzato, nonostante l’imbarazzo dovuto dal travestimento.
Arrivammo al margine della magione circondata da alte e lunghissime siepi interrotte da un cancello in ferro battuto, spalancato come a darci il benvenuto.
Quando varcammo la soglia un sospiro di stupore si levò da me e Koichi: la strada a ciottoli continuava in un grande giardino curato nei minimi dettagli e la vista si apriva sulla dimora, imponente e lussuosa, totalmente fuori contesto rispetto alla nostra solita architettura; pietra liscia e chiara rivestiva l’esterno della casa, che aveva due piccole torri ai due lati. Arrivammo all’ampio porticato di pietra, al cui centro ci attendeva l’imponente portone d’ingresso in legno massiccio con un chiavistello a forma di testa di leone. Il porticato di fredda pietra era addobbato a tema con festoni a triangolo arancioni, zucche intagliate dalle espressioni spaventose illuminate dall’interno, ragnatele finte negli angoli delle colonnine sulla ringhiera e persino uno scheletro seduto su una delle panchine appoggiate al muro.
Koichi annunciò il suo nome all’addetto alla sicurezza che controllava le entrate, che dopo aver dato una rapida occhiata alla lista di invitati ci aprì il portone. Non riuscì a trattenere un altro sospiro stupito quando finalmente entrammo in casa. Ci trovammo in un ampio salone principale già pieno zeppo di persone che si stagliava immenso davanti a noi. L’ambiente era arredato in stile antico nei toni del legno scuro, del bianco e del rosso; le alte pareti erano decorate con quadri in stile barocco con angeli, cesti di frutta, musicisti all’opera, vasi colmi di fiori. La hall principale si estendeva ad altre due stanze ai lati, le porte di legno spalancate per l’occasione, e terminava con un secondo portone al centro che recava un cartello dicente “Area esterna festa”.
Alla mia destra, accanto all’entrata, notai una maestosa scala curva con i gradini di marmo che saliva e continuava in una balconata adiacente al muro della hall, ma l’accesso in cima alle scale era sbarrato da un delimitatore di corsia presidiato da una guardia alta e ben piazzata. La vista di quella guardia e di un accesso negato mi fece gola: capivo bene la salvaguardia della riservatezza, di certo Yamada non avrebbe potuto mettere a disposizione per la festa l’intera casa, eppure la curiosità di sapere cosa si nascondeva nelle altre stanze mi sfiorò la mente, insediandosi in un angolo per non lasciarmi più.
Cercai di non pensarci, distraendomi con la festa, la quantità incredibile di persone mascherate e le varie attività che ci attendevano. La stanza sulla sinistra, che aveva tutta l’aria di essere una libreria, era stata adibita a pista da ballo e molte persone stavano danzando a ritmo di musica; tra le tante notai un Frankenstein di spalle le quali mosse erano incredibilmente imbarazzanti.
Ci addentrammo al centro della stanza, sotto al grande lampadario di cristallo che gettava riflessi cristallini ovunque puntasse la luce; la musica era alta, quasi assordante, e non il tipo di musica che mi sarei aspettato: in quel momento suonava “Scary Monsters and Super Creeps” di David Bowie, canzone che tra l’altro amavo. Nella stanza sulla destra, un grande salotto che all’interno aveva sofisticati divanetti rossi ed un camino acceso, notai un agglomerato di ragazzi dell’ultimo anno di liceo intenti a fare qualcosa che non riuscivo a capire da così lontano.
– E tu che ti preoccupavi del tuo travestimento! – Gridò Koichi, i cui grandi occhi rossi e neri si muovevano freneticamente da un lato all’altro. – Guarda che roba! –
Effettivamente tra tutti quei travestimenti passavamo quasi inosservati, e ciò mi aiutò a sentirmi più a mio agio. C’erano mostri di ogni tipo, vampiri come me, zombie, licantropi antropomorfi, streghe, fate, Ghostbusters, personaggi di famosi film dell’orrore. Mi deliziai di tutta quella spaventosa fantasia finché non vidi una figura familiare che si avvicinava: lo riconobbi subito, era Josuke travestito da Elvis Presley trasformato in un vampiro. Portava la sua usuale capigliatura, solo ancor più sporgente e cotonata del solito, con un singolo ricciolo che gli cadeva sulla fronte; indossava una tuta bianca aperta sul petto con un profondo scollo a V che lasciava vedere il torso, stretta in vita da un cinturone dorato e terminava in pantaloni a zampa di elefante. Il colletto alzato incorniciava il viso impallidito, gli zigomi scuriti con della terra e gli occhi truccati profondamente di nero.
Koichi esultò con meraviglia e si complimentò con lui per il costume. – Josuke, stai troppo bene! Elvis vampiro, che idea! –
Josuke sorrise e notai che aveva applicato dei canini finti, lunghi ed appuntiti. Koichi li aveva proposti anche a me, ma li avevo rifiutati categoricamente.
– Cazzo, Koichi! – Doveva essere un po’ brillo, o semplicemente molto euforico. – Ed io che pensavo di aver esagerato! –
Koichi si sistemò la giacca. – Eh? Ho esagerato? – Chiese preoccupato.
– Sì, ma in senso buono ovviamente! Sei il travestimento migliore che ho visto finora! – Esclamò il suo amico dandogli una pacca sulla spalla.
Josuke spostò poi l’attenzione su di me. – Rohan, ciao… – Mi disse stupito. – Non pensavo di vederti, tantomeno travestito. –
Abbozzai un sorriso. – Idea originale il tuo costume, Josuke. Ti si addice molto. –
Il capellone sorrise sistemandosi il colletto. – Grazie. Anche tu stai molto bene. –
Questo scambio di complimenti insolito mi mise a disagio, ma per fortuna Koichi ruppe il muro di gelido imbarazzo che si creò in pochi instanti appena.
– Dove sono gli altri? – Chiese.
Josuke si guardò alle spalle. – Ero qui con Mikitaka, ma è sparito… Okuyasu è in pista, è il Frankenstein con le spalle giganti. Yukako non si è ancora vista. –
Stetti per scoppiare a ridere, perché quel Frankenstein dalle movenze terribili che avevo notato in pista alla fine si era rivelato quel tonto di Okuyasu, quando una mano mi si poggiò sulla spalla. Mi girai di scatto, trovandomi faccia a faccia con Mikitaka… O quel poco che ne rimaneva.
– Ciao, amici. – Disse con quella sua voce da extraterrestre ed un sorriso plastico. – Stavate parlando di me? –
Mikitaka! – Koichi non nascose lo stupore. – Tu sei…? –
Jareth, il re dei Goblin. – Risposi io.
Koichi aggrottò le sopracciglia. Cercò aiuto in Josuke, che alzò le mani altrettanto confuso.
Sbuffai per la poca cultura mostrata dai ragazzi. – Il personaggio del film Labyrinth interpretato da David Bowie. –
– Ben detto, Maestro. – Sorrise lui. – Ero sicuro che lei mi avrebbe riconosciuto. –
Come si poteva non riconoscerlo? Era identico, tanto che facevo fatica a crederci. Aveva cotonato i capelli in gonfissimi ciuffi biondi attorno alla testa che poi cadevano lunghi e lisci sul petto; indossava una giacca di pelle nera con un mantello lungo fino a terra da cui sbucava una camicia bianca morbida e svolazzante sul petto, dei pantaloni grigi aderenti e degli stivali alti fino al ginocchio. Si era persino truccato come il re dei Goblin: l’incavo tra naso e occhi era scurito, le sopracciglia curvavano verso l’alto da metà in poi e l’arcata finale degli occhi era segnata da una riga scura di ombretto che si alzava seguendo il sopracciglio, conferendogli uno sguardo ipnotico ancor più del solito.
Koichi rise. – Ora che me lo dici ti riconosco, ma diamine, è un film vecchio. Si vede che sei di altri tempi, Rohan! –
Lo guardai stizzito. – Buongustaio, in realtà. Quel film è un cult sia per bambini che per adulti di tutte le generazioni. –
– Concordo col Maestro Rohan. – Annuì Mikitaka. – Sapete, è stato il primo film che ho visto quando sono approdato sulla Terra. –
– Si spiegano tante cose, allora… – Sussurrò Josuke trattenendo a stento una risata. Koichi ridacchiò coprendosi con una mano; l’alieno non capì, tanto per cambiare, e ridacchiò assieme a loro.
Io mi portai una mano al viso, pregando tutte le divinità di darmi la forza di sopportarlo per qualche ora. Raggiungemmo Okuyasu, il cui costume era il più esilarante visto finora, ma anche molto azzeccato. La giacca marrone che indossava, oltre che essere di almeno due taglie più grandi di lui, esattamente come i pantaloni dello stesso colore, aveva le spalle imbottite, facendole risultare giganti e totalmente fuori misura; la faccia era truccata di verde con qualche cicatrice qua e là ed indossava un collarino con una vite che entrava da un lato del collo ed usciva dall’altro. Si era inoltre scurito le occhiaie con del trucco e visto da vicino faceva davvero spavento.
Il ragazzone si stava divertendo come un matto. Uscì dalla pista a grandi passi goffi, dovuti dalle scarpe con la suola alta che portava, affannato e sorridente.
– Ragazzi! – Gridò euforico. – Stasera ci siamo impegnati tutti, vedo! Koichi, ti riconosco, sei la marionetta di Saw! Sei incredibile, davvero! Rohan, tu sei Dracula! Gli altri li ho già visti ma fanno comunque effetto! –
– Tu rimani comunque il migliore, Okuyasu. – Gli disse Josuke entusiasta dandogli una sonora pacca sulla spalla imbottita. – Sei perfetto! –
– Manca solo Yukako, adesso. – Mugugnò Koichi. – Chissà se alla fine verrà davvero. Non sembrava proprio convinta. –
Una voce femminile ci parlò alle spalle e subito alzai gli occhi al cielo. Quella ragazza non mi andava proprio a genio, e avevo sperato fino all’ultimo di risparmiarmi almeno la seccatura della sua presenza. – Non potevo perdermi uno spettacolo simile, caro. –
Ci girammo all’unisono trovandoci davanti Yukako agghindata in un modo che non avevo mai visto – e che avrei preferito non vedere mai – che sollevò lo stupore di tutti. Gli occhi rossi di Koichi erano quelli più sgranati e dentro di me risi un po’ pensando all’effetto che gli doveva fare. Non lo diedi certo a vedere, tantomeno lo avrei mai ammesso, ma Yukako era davvero un bel vedere quella sera. Indossava un vestito nero aderente, le cui maniche lunghe e strette terminavano in lembi appuntiti, che dalla vita in poi si apriva in una gonna a balze morbide lunga fino al ginocchio. Un cinturino nero con una fibbia quadrata d’oro le cingeva la vita stretta; lo stesso quadratino era cucito sulla punta dei tacchi, non troppo alti, aperti sul collo del piede. Indossava il classico cappello da strega appuntito un po’ sbilenco, fissato probabilmente all’infinità di capelli che portava sciolti e mossi in piccole onde nere come suo solito. Il trucco era la cosa più impressionante, le conferiva almeno dieci anni in più: ombretto scuro stile smokey eyes, ciglia lunghe e folte, labbra rosso fuoco. Per la prima volta vidi Yukako come una donna anziché una ragazzina antipatica, e il pensiero mi diede persino fastidio.
– Allora? – Ridacchiò lei, dopo essere stata fissata per istanti interminabili da cinque individui ammutoliti e immobili come statue. – Non avete mai visto una streghetta? –
Ridacchiai acido. – Certo, ce ne sono almeno una ventina stasera. Non un travestimento originale, ma sicuramente quello giusto per te. –
Yukako mi scrutò col suo sguardo pericoloso, ora ancora più tagliente con quegli occhi marcati di nero. – Cosa vorresti dire? –
Alzai le sopracciglia in un’espressione innocente. – Niente, niente. –
Intendevo dire che era davvero il travestimento giusto perché la ragazza era proprio una strega, ma mi trattenni. Non c’era bisogno di scatenare altre ire: sapevo che lei aveva inteso, me lo fece capire dal suo sguardo di fuoco. Mi divertivo troppo a punzecchiarla, nonostante fossi arso vivo dagli sguardi di tutti, Koichi in primis.
– Non ascoltarlo, Yukako. – La consolò Koichi. – Sei la strega più bella della festa. –
Dopo che i miei occhi ebbero rotolato all’insù ancora una volta, decisi che era ora di prendermi un drink. Non amavo bere alcol in giro, se non in qualche locale tranquillo per festeggiare la stesura di qualche punto importante dei miei fumetti; quella sera però era un’eccezione unica, anche in questo caso.
Mi allontanai dagli altri e mi recai al bar all’angolo della hall. Una lista di drink era esposta a grandi lettere: avevano nomi fantasiosi come pozione brividosa, pozione della strega, burrobirra direttamente da Hogwarts, sangria del teschio e molti altri. Decisi di prendermi un “martini rosso sangue”, giusto per rimanere coerente col mio travestimento. 
La festa aveva più possibilità di divertimento di quanto avevo immaginato. Oltre alla pista da ballo, nella quale non avrei messo piede neanche sotto tortura, nel giardino sul retro era stata allestita una piccola pista da bowling, anch’essa a tema Halloween: le palle erano state dipinte come zucche ed i birilli come fantasmi e chi riusciva a fare tre strike di seguito vinceva un sacchetto di dolci. Sia io che Josuke vincemmo, ma io regalai il mio sacchettino dorato a Koichi, non essendo molto amante delle caramelle di gelatina. C’era poi ad un secondo gioco che si chiamava “Trova l’oggetto”; incitato – o meglio, costretto – dai ragazzi, partecipai anche io. Dopo avermi bendato, mi fecero cercare in un secchio gigante pieno zeppo di gelatina dura, viscida e tremenda al tatto, una dentiera da vampiro finta. Il secchio era disseminato di oggetti come occhi finti, vermetti e ragni di gomma, piccole zucche e pipistrelli finti, persino fagioli secchi e bottoni; trovare l’oggetto richiesto con una mano sola e senza l’ausilio della vista non fu facile, ma io e gli altri, che parteciparono tutti, alla fine ne uscimmo vincitori dopo lunghe ricerche tra espressioni e urli di disgusto. La prima parte della serata passò in modo divertente e veloce; non avevo mai smesso un secondo di cercare con gli occhi il professor Yamada, ma di lui nemmeno l’ombra. Anche questo destava parecchi sospetti: perché mai l’organizzatore della festa dopo quasi due ore non si era ancora fatto vivo? Lo chiesi anche agli altri, ma loro non lo trovarono molto strano: non avevano il minimo dubbio su quell’uomo, che giudicavano normale.
– Si sta facendo attendere. – Mi tranquillizzò Koichi addentando una caramella a forma di verme. – Vero, è l’organizzatore della festa, ma è anche l’ospite più atteso, non trovi? Sono sicuro che si esibirà. Guardate là. – Josuke indicò un pianoforte piazzato in un angolo del grande giardino. – Non credo sia stato messo lì per caso. –
Annuii con la testa. – Non vedo l’ora di sentirlo suonare. –
Koichi sorrise. – Come tutti stasera, credo. –
Sospirai guardando il cielo nero e la luna che dall’alto vegliava su di noi. La sua assenza mi sembrava comunque strana, ma non insistetti. Non volevo essere pressante, tantomeno pesante. Mi trovavo in casa sua, e tanto bastava ad aizzare la mia curiosità: quel luogo doveva per forza saper dirmi qualcosa in più su di lui, rivelarmi qualche dettaglio. Anche se i preparativi della festa avevano sicuramente reso quelle stanze impersonali, una casa così grande doveva pur nascondere qualche cosa di interessante…
Accarezzavo l’idea di infiltrarmi in profondità nella magione del professor Yamada già da prima di arrivare alla festa, in realtà. L’idea mi eccitava e mi spaventava al contempo, come tutte le cose degne di essere vissute e raccontate. Sapevo bene che era un rischio non solo per me ma anche per Koichi, sul quale sarebbe ricaduta ogni responsabilità di quanto avessi combinato quella sera, essendo io il suo invitato; tuttavia quella scalinata sbarrata mi faceva troppa gola, non riuscivo a distrarmi per molto prima di ricaderci col pensiero.
Ero preda di sentimenti contrastanti. Avevo un potere che mi permetteva di fare qualsiasi cosa volessi, o quasi; non mi piaceva abusarne, plasmare le personalità e le vite altrui non era un gioco e lo sapevo bene. Dopo che avevo quasi fatto fuori Koichi e i suoi amici anni addietro in un impeto iniziale di onnipotenza avevo imparato la lezione, ed ora mi trovavo ad usare raramente il mio Heaven’s Door se non in caso di estrema necessità. Tuttavia, sapevo bene che quella era un’occasione d’oro: quando mi sarebbe ricapitato di trovarmi in casa del mio sospettato? Probabilmente mai più. I sospetti che nutrivo nei suoi confronti erano sì infondati, ma troppo forti ed istintivi per essere ignorati: mi fidavo del mio istinto, e la mia esperienza mi aveva insegnato a non sottovalutarlo, soprattutto perché si trattava dell’istinto di un portatore di Stand.
Passai le prime due ore della serata a lanciare occhiate alla porta ed alla sua guardia dallo sguardo impassibile fin quando decisi che non ne potevo più e che era giunto il momento di agire.
Era quasi giunta mezzanotte quando mi congedai dagli altri nel bel mezzo di un'altra partita del bowling di Halloween con la scusa di andare in bagno; fino a quel momento, di Yuito Yamada nemmeno l’ombra.
Nella più calma nonchalance tornai nell’atrio e salii le ampie scale curve di marmo chiaro, appoggiandomi al liscio corrimano di legno scuro. Appena giunsi in cima la guardia fece un passo avanti gonfiando il petto, il suo sguardo impassibile immutato. Inspirai, cercando di rimanere quanto più concentrato sul mio bersaglio.
– Di qui non si passa. – Mi ammonì l’uomo, sbarrandomi la strada con le braccia aperte. – L’area della festa finisce qui. – Indicò il delimitatore di corsia che ci divideva.
Finsi un’espressione sorpresa. – Oh, mi scusi! – Intonai quanto più credibile possibile.
Heaven’s Door si palesò improvvisamente al mio silenzioso richiamo, l’uomo cadde a terra momentaneamente privo di sensi ed ogni sua parte del corpo si schiuse come un libro.
Mi abbassai, allungai una mano sotto al delimitatore e scrissi velocemente sulle sue pagine.

“Farò passare Rohan Kishibe e poi mi dimenticherò del nostro incontro; quando vorrà tornare giù lo lascerò scendere, e mi dimenticherò di lui di nuovo.”

Il gioco era fatto. Quando l’uomo rinvenne, inizialmente confuso, sganciò un’estremità del delimitatore e mi fece passare. Una volta superata la guardia mi diressi alla fine della balconata, che si apriva in un lunghissimo corridoio da entrambi i lati. Svoltai a destra, giusto per uscire definitivamente dalla visuale della guardia che già si era dimenticata tutto e mi fermai dietro l’angolo. Il lunghissimo corridoio era illuminato da due applique di vetro lungo la via; l’arredamento era identico a quello del piano inferiore, sui toni del bianco e del marrone caldo, solo decisamente più cupo. Vi erano tre porte sulla sinistra, poi il corridoio si interrompeva in un angolo di quarantacinque gradi e continuava oltre la mia visuale. Avanzai verso la porta più vicina, girai il pomello con cautela e mi infilai dentro. Con mia estrema delusione, mi trovai in una grande camera da letto, che dedussi essere per gli ospiti, ordinata e intoccata come se fosse appena stata arredata; la stanza conduceva ad un lussuoso bagno, splendente e nuovo di zecca come tutto il resto. Senza soffermarmici molto, tornai in corridoio e provai la stanza seguente. Accendendo la luce mi resi conto di essere in un grande studio quadrato con libri e quaderni sparsi in ogni dove. Le pareti erano ricoperte da librerie alte quanto il soffitto, tuttavia vuote, interrotte nel mezzo da una porta chiusa; i libri che dovevano ancora essere riordinati erano impilati o addirittura buttati sulla grande scrivania di legno in fondo alla stanza, davanti alla finestra. Sbirciai senza esitazione tra i libri, constatando che trattavano quasi tutti di musica, specialmente di pianoforte. Erano biografie di pianisti di tutto il mondo, approfondimenti sulle composizioni di nomi noti quali Mozart, Beethoven, Horowitz, Einaudi e molti altri. C’erano anche alcune raccolte di libri dell’orrore, tra cui Poe e Lovecraft, i cui titoli mi provocarono un sorriso perché li conoscevo molto bene. Sfogliai anche i tre quaderni che trovai nei cassetti della scrivania, buttati dentro insieme a delle penne, dei quotidiani recenti, alcuni spartiti sbiaditi e una piccola chiave d’argento.
Mi soffermai per molto tempo a sfogliare i quaderni, sia per la quantità di informazioni scarabocchiate dentro, sia per la fatica con cui a malapena riuscivo a decifrare la sua calligrafia disordinata. Mi soffermai più volte su alcune frasi particolari, ad esempio:
Mamma ha pianto ascoltando Solo nel Cielo. Dice di non essere riuscita a dormire fino al mattino seguente. Non credo che le concederò di ascoltare per prima altre mie opere.”
Inclinai la testa incuriosito. O la madre del professor Yamada era una persona estremamente sensibile, oppure lui un compositore eccezionale. Vista la sua fama, poteva essere benissimo la seconda. Un’altra frase, per quanto normale, mi parve strana. Leggendola lo immaginai come uno scienziato che registrava l’esito di un esperimento:
La scala in Fa minore è efficace. Notare come Solo nel Cielo, Putrefazione dell’Anima e Archetipo del Dolore sono molto più persuasive di qualsiasi altra composizione.
I titoli che aveva dato a ciò che dedussi fossero le sue composizioni mi colpirono; quest’uomo doveva avere un’affinità per le cose oscure, ogni cosa che scoprivo sul suo lavoro o sui suoi hobby come la lettura me lo confermava. Oltre a ciò però i diari non rivelarono niente di realmente sospetto; ciò che vi trovai non era niente più che una serie di appunti, seppur talvolta oscuri ed ambigui, sulla composizione delle sue sinfonie e sul modo in cui doveva suonarle. Ciò che mi diventò chiaro dopo qualche pagina appena, che era forse l’unica cosa sospettosa, era il fatto che i suoi studi ed approfondimenti sulla musica sembravano avere il solo fine di arrivare ad avere l’effetto desiderato. Da questi appunti mi sembrava di intendere che ogni sua composizione, ogni sua nota fosse studiata nel minimo dettaglio per un solo scopo: essere efficace. Non si spingeva mai oltre, non era scritto da nessuna parte in che cosa dovevano essere efficaci nello specifico; se fino a poco prima la curiosità mi aveva solleticato la pancia, ora si dimenava famelica in cerca di risposte. Lessi innumerevoli pagine senza arrivare ad una conclusione prima di accantonare i diari e cercare altro; la ricerca non fu proficua, perché oltre a libri già citati, spartiti e scartoffie per me indecifrabili, non trovai nulla. Avanzai verso la porta, pregando perché non conducesse al bagno, ma la trovai chiusa; mi ricordai della chiave che avevo visto in fondo ad uno dei cassetti ed esultai quando girandola nella serratura, essa scattò.
Una volta accesa la luce mi si parò davanti un disordine inimmaginabile, impensabile dopo aver visto la pulizia e l’armonia di tutte le stanze che avevo visto finora. Ciò che fu un tesoro ai miei occhi erano gli innumerevoli scatoloni accatastati ovunque: sulla scrivania, sulla poltroncina, sotto la finestra, per terra, sui ripiani della libreria vuota. Avvicinandomi notai che ognuno recava una scritta a pennarello: lessi “felicità”, “angoscia”, “morte”, “disperazione”, “serenità”, “brividi”, addirittura “febbre”. Cosa diavolo voleva dire? Gli scatoloni non erano sigillati, così mi precipitai alla scrivania e aprì il primo che mi capitò a tiro, lo scatolone della disperazione. Con grande delusione constatai che era pieno di spartiti musicali, scritti a penna o matita e chiusi assieme con delle graffette. Ognuno recava un titolo, un tempo, ma di più non riuscivo a decifrare: non ero un esperto di musica, riuscivo a riconoscere qualche nota appena, non abbastanza per riprodurli.
Riposi le decine di spartiti al loro posto, attento a rimetterli esattamente come li avevo trovati, e provai con un altro. Fu solo dopo un lungo e frenetico ravanare che finalmente trovai qualcosa che poteva essermi utile: nello scatolone denominato “panico” c’erano due registratori, ed entrambi contenevano una cassetta già riavvolta all’inizio. Sperando che qualcosa vi fosse registrato all’interno, ne afferrai uno e premetti il pulsante di avvio senza esitare.
Dopo qualche secondo di silenzio delle note di pianoforte cominciarono a susseguirsi. Vorrei poter spiegare a parole ciò che sentii, e ci proverò, ma è incredibilmente difficile trasmettere ciò che le mie orecchie ed il mio cuore provarono in quei due minuti e quarantatré secondi di totalmente rapito ascolto tanto quanto è difficile esprimere fedelmente ciò che mi avvolse dopo, quando rimase solo il silenzio.
Non sapevo come, ma con due mani ed un pianoforte soltanto colui che doveva per forza essere Yuito Yamada era riuscito a suscitare in me emozioni che nemmeno un’intera orchestra col massimo dell’impegno sarebbe riuscita a smuovere. Ciò che ascoltai era oscuro, agghiacciante, terrificante, prima delicato come una carezza, poi pesante come un macigno sul petto. Senza rendermene conto durante l’ascolto mi accasciai per terra e cominciai ad ansimare; mi ritrovai lì, avvolto da un abbraccio di calda ansia, mentre le note di pianoforte mi martellavano la testa anche se la musica era finita. Il mio sguardo sbarrato si posò sulla parola “panico” scritta sul cartone e fu tutto improvvisamente chiaro. Quello che avevo cominciato a provare appena avevo premuto play, e che non mi aveva ancora lasciato nonostante la musica fosse finita da più di un minuto, era proprio panico. Non so come ma quello spartito geniale, quel susseguirsi frenetico di note avevano scatenato in me un qualcosa che saprei definire solo come ansia forte ed improvvisa; ogni singola nota mi era sembrata entrarmi dentro, incidermi come potrebbero fare delle parole in un racconto di paura. Ero accasciato da quasi due minuti, il registratore ancora in mano, sudato ed ansimante, e non riuscivo a capire cosa mi stesse succedendo. Cercai inutilmente di calmarmi, di scendere a patti con la ragione. Mi chiesi cosa mi stesse mettendo ansia, a cosa era dovuta quell’improvvisa apprensione; non sapevo rispondermi, eppure il fatto che non ci fosse una ragione specifica a quei terribili sentimenti non faceva altro che peggiorare la situazione.
Tutto! Pensai in un dialogo con me stesso tra ragione e delirio, mentre il cuore aveva cominciato a palpitare imbizzarrito. Tutto è angosciante! Yuito Yamada, la sua musica, la notte di Halloween e tutti i mostri che nasconde! Il fatto che io sia qui, che qualcuno potrebbe entrare da un momento all’altro e scoprirmi! Inoltre, adesso che ci penso, Yamada potrebbe essere sceso alla festa, mettendo in pericolo tutti gli invitati! Forse i miei amici sono già morti!
Provai a inspirare profondamente ma non ci riuscii, il peso sul petto mi impediva di respirare normalmente. Cominciai a boccheggiare e percepii un formicolio ad entrambe le braccia che si faceva sempre più forte man mano che i secondi passavano: capii che un attacco di panico era cominciato, e sapevo di non essere in grado di fermarlo.
Non saprei quantificare il tempo che passai lì rannicchiato accanto alla scrivania in preda al panico; so solo che furono minuti strazianti di angoscia e di terrore, e che non urlai solo perché a malapena avevo il fiato per respirare.
Dopo minuti di grande intensità, l’attacco di panico passò in un istante, lasciandomi prosciugato da ogni energia vitale. Passai ancora qualche minuto seduto e poi mi alzai a tentoni, vacillando per un capogiro; mi asciugai la fronte fradicia di sudore come dopo una sessione intensa di palestra e cercai di rimettere in ordine i pensieri.
Non sapevo ancora dare un significato a ciò che mi era appena successo, ma una cosa era certa: avevamo un problema, un grossissimo problema. Yuito Yamada era decisamente una persona pericolosa. La sua musica era in grado di scatenare nella persona che l’ascoltava svariati sentimenti: a me era capitato quello dell’angoscia, ma sono sicuro che funzionava per qualsiasi sensazione scritta su quegli scatoloni, e chissà in quali altri modi si estendeva il suo potere. Ecco perché sua madre aveva pianto e sofferto di insonnia dopo l’ascolto di una sua opera, ecco qual era l’efficacia tanto ricercata da Yamada.
In quel momento non sapevo bene come procedere: il primo istinto fu quello di scendere dai ragazzi per raccontargli tutto, ma temevo che non mi avrebbero creduto. Già mi immaginavo le parole di Koichi: “Maestro, può capitare di avere attacchi di panico ogni tanto, non significa che Yamada sia un portatore di Stand, tantomeno che la sua musica sia pericolosa. Non ci sono testimonianze del genere da parte delle persone che sono state alle sue esibizioni! E poi è il nostro professore, ricordi? Lo abbiamo sentiamo suonare molte volte.” Sospirai, reggendomi allo schienale della poltroncina mentre un brivido mi scosse dall’interno. Il solo ripensare a quella musica riportava indietro il panico, lo sentivo lì pronto ad avvolgermi di nuovo; potevo portare giù il registratore, che era una prova schiacciante, ma non volevo che nessun altro provasse quelle sensazioni, nessuno, nemmeno quel testone di Josuke.
Dovevo andare avanti con l’investigazione, anche se sapevo che le uniche prove schiaccianti potevano essere sotto forma di musica. Riavvolsi la cassetta nel registratore e lo riposi nello scatolone, anche se volevo distruggerlo con forza, assieme al secondo, che non avevo la minima intenzione di ascoltare. Richiusi la porta alle mie spalle, buttai la chiave nel cassetto ed uscii dallo studio, ritrovandomi nel corridoio. Avanzai di qualche metro diretto alla prossima stanza, quando mi accorsi che l’eco della musica della festa era cessato, lasciando spazio al silenzio. Deglutii temendo il peggio e mi immobilizzai drizzando le orecchie, cercando di cogliere il minimo suono.
Il cuore ricominciò a palpitarmi forte nel petto quando udii un pianoforte suonare e capì immediatamente che si trattava di Yamada. L’audio proveniva dai numerosi altoparlanti sistemati in ogni angolo ma ero sicuro che non fosse una registrazione, bensì un’esibizione dal vivo di Yamada che si stava sicuramente svolgendo in giardino, dove aveva piazzato il pianoforte. Non lo nascondo, provai improvvisamente un grande timore: di un altro attacco di panico, di diventare di nuovo preda della musica; paura per ciò che poteva scatenare in me ma soprattutto nella folla di invitati, tra cui c’erano anche i miei amici. Non persi troppo tempo, non permisi alla paura di bloccarmi le gambe per più di qualche secondo; tornai sui miei passi e affacciandomi alla balconata capii che avevo ragione: il salone sotto di me era vuoto, l’unica persona oltre me era la guardia sulla quale avevo usato il mio Heaven’s Door, che mi lasciò passare come ordinatogli.
Uscii sul retro tramite la porta spalancata, trovandomi tra una folla di almeno cinquanta persone che ascoltavano Yamada. Lo vidi chino sul pianoforte nero in fondo al giardino, ad una quindicina di metri da me, circondato alle spalle dalla siepe ed illuminato da un faretto: era vestito con un classico smoking nero, i capelli lunghi e scuri erano tirati indietro; teneva gli occhi chiusi mentre oscillava qua e là a ritmo della melodia lenta e quasi triste che le sue dita stavano abilmente producendo.
Osservai la folla: molti sorridevano, altri tenevano gli occhi chiusi, tuttavia nessuno di loro sembrava stare male o accennare il minimo malessere. Nemmeno a me quelle note stavano facendo effetto: ero incredibilmente agitato ed il mio cuore palpitava, ma era dovuto dalla consapevolezza del suo potere, non dalle note che echeggiavano in ogni angolo della casa. Avevo forse ancora tempo di agire? Non sapevo bene cosa fare; pensai di mettermi a gridare e fermare l’esibizione a costo di sembrare un pazzo agli occhi di mezza Morioh, ma qualcosa mi fermò, forse l’imbarazzo. Esitai a lungo mentre l’ansia avanzava: frattempo la sinfonia andava avanti, si faceva sempre più grave ed inquietante, ed ero sicuro che in poco tempo avrebbe raggiunto l’apice, scatenando chissà quali sensazioni a tutti coloro che ci stavano prestando ascolto – me compreso, e non sarei stato di aiuto a nessuno se fossi stato preso anche io dalla follia. Mi feci spazio tra la folla, infastidita dalla mia irruenza, per raggiungere il resto del gruppo che riconobbi grazie alle spalle gonfie di Okuyasu-Frankenstein. Il primo che trovai a tiro fortunatamente fu Koichi; sgomitai ancora un po’ tra la folla con un’imponente tachicardia nel petto ed un’ansia crescente e lo tirai per la giacca. Si girò spaventato, sbarrando gli occhi appena mi vide.
Rohan! – Sussurrò. – Che ti prende? Dov’eri finito? Che ti è successo in faccia? –
Non avevo pensato di guardarmi allo specchio prima di scendere, ma non ne avrei nemmeno avuto il tempo; evidentemente l’attacco di panico doveva avermi lasciato il segno. Stetti per spiegare, ma poi mi trattenni: non c’era tempo di parlare e non volevo dare nell’occhio, così lo afferrai per il polso esile e lo trascinai con me, sgomitando ancora una volta senza troppa cortesia tra la folla. Quando fummo all’interno del grande salone vuoto Koichi si staccò dalla mia presa infastidito e confuso, esigendo spiegazioni.
– Maestro, ma che hai? Sei ubriaco? – Sussurrò stizzito.
– Ah, quanto lo vorrei! – Esclamai isterico, cercando di tenere un tono basso. – Ascoltami, non c’è tempo. Devi tapparti le orecchie! La musica di Yamada è pericolosa! –
Il piccolo enigmista sbuffò. – Ma smettila, Rohan! Yamada è il mio professore di musica, ricordi? L’ho sentito suonare mille volte. –
Come previsto. Lo conoscevo fin troppo bene. – Ma questa volta è diverso! Ha trovato l’efficacia! – Sbraitai ai limiti dell’isteria.
Koichi alzò gli occhi al cielo. – Rohan, non ti agitare. Andrà tutto bene. Ne parliamo dopo, ok? –
Il ragazzo fece per girarsi, ma non gli lasciai abbastanza tempo. Chiamai Heaven’s Door e lo aprii come un libro; guardai l’orologio e scarabocchiai su una delle pagine prima che potesse reagire.

“Il 31 Ottobre alle 23:32 perderò momentaneamente l’udito e la voce, ma riuscirò a leggere il labiale senza difficoltà. Alle 23:42 tutto tornerà normale.”

 

Heaven’s Door si dematerializzò ed io sospirai di sollievo. Koichi mi guardò confuso, finché allo scattare del trentaduesimo minuto la sua espressione si fece preoccupata. Si guardò intorno freneticamente per poi posare i grandi occhi rossi su di me nel più totale smarrimento.
– Sarai sordomuto per dieci minuti. – Gli dissi. – Scusami, Koichi. Mi ringrazierai. –
Koichi dimenò le braccia, aprendo la bocca senza produrre alcun suono. Sulle sue labbra lessi parole come “cosa”, “pazzo”, “bastardo”, “perché”. Era un gesto estremo, tuttavia necessario: non avevo tempo di fare la stessa cosa anche con gli altri e non avevo alcun potere su me stesso, ma almeno avevo salvato lui, che a sua volta avrebbe potuto salvarci tutti quando la musica di Yuito Yamada avrebbe fatto il suo effetto.
Non mi restò altro che tornare in giardino e porgere l’orecchio alla musica, che era in ogni caso udibile da tutti gli angoli della casa grazie agli altoparlanti, e che notai avesse anche un potere incantatore. Yamada si esibì per altri sette minuti, che tuttavia parvero istanti: non sollevò le palpebre nemmeno una volta, preso com’era dalla performance che aveva assorbito ogni sua parte del corpo, colpita da spasmi ondeggianti. La melodia, iniziata in modo lento e leggero, aveva poi assunto un andamento sempre più veloce, con note alte da brivido ed altre così basse che sembravano provenire dal ventre della terra. La melodia raccontava una storia di paura, di ansia, di suspense; il suo picco più alto furono venticinque secondi di puro spavento, di fuga dall’entità che incarnava il suddetto terrore, in cui il mio cuore e sicuramente quello di tutti gli invitati era rimasto appeso ad un filo, con la voglia ed il terrore di sapere come andava a finire, come si interrompeva questa corsa a perdifiato nel buio della notte, questa fuga dall’innominabile incarnazione dell’orrore. Dei brividi mi percossero a ritmo di musica per tutta la durata dell’esibizione, per terminare poi in un ultimo, violento ed unisono sussulto.
Dopo qualche istante di silenzio la folla scoppiò in un fragoroso applauso; Yamada si alzò in piedi, aprendo finalmente gli occhi a mandorla scuri, fece un profondo inchino e sorrise.
– Ridi, eh? – Sussurrai tra me e me. – Non riderai più quando non sarai più in grado di comporre nulla… –
Lo osservai appoggiato al muro di pietra mentre stringeva la mano degli invitati che si complimentavano con lui, battendo nervosamente il tacco delle scarpe per terra nell’ansiosa attesa della famosa efficacia. La sua musica non aveva ancora fatto alcun effetto, esclusa la normale suggestione momentanea dovuta all’eccezionale esibizione. Dov’era il panico generale che mi ero aspettato? Quando sarebbero cominciati i pianti, gli attacchi di panico, le urla che mi ero immaginato? La gente era ancora tutta fuori in giardino, estasiata dall’esibizione ed in attesa di poter stringere la mano al grande musicista, il quale si stava concedendo allegramente ad ognuno di loro; il loro ciarlare sovrastava qualsiasi suono.
Rohan! – Una voce ringhiò alla mia destra. Deglutii; Koichi era tornato normale e sicuramente era furioso. Mi voltai, osservando un iracondo Billy varcare la soglia e raggiungermi.
Koichi. – Porsi le mani in avanti. – Lasciami spiegare. –
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia minaccioso. – Mi hai fatto perdere l’esibizione di Yamada per un tuo sospetto infondato, Rohan! Grazie tante! –
– Non è un sospetto infondato, Koichi! L’ho provato sulla mia pelle! –
Il mio tentativo di spiegarmi fu interrotto dall’arrivo del resto del gruppo, che si precipitò da noi.
– Ragazzi, tutto bene? – Chiese Okuyasu.
– No! – Esclamammo io e Koichi all’unisono, tuttavia per ragioni completamente diverse.
Zittì Koichi che aveva cominciato a lamentarsi arrabbiato, spiegando la situazione ai ragazzi in modo quanto più convincente possibile.
– Non ho attacchi di panico da quando ho quindici anni, ragazzi. – Terminai, non nascondendo la mia ansia. – Vi giuro che non mi sono mai sentito così in vita mia! E dopo qualche minuto è sparito tutto! –
Josuke corrucciò le labbra. – Non so, Rohan. Io mi sento benissimo. Se fosse stato come dici tu, non credi che avrebbe già fatto effetto? –
Il capellone non aveva tutti i torti; anche io mi chiedevo come mai la musica non avesse ancora prodotto il minimo effetto e ciò mi innervosiva, perché mi faceva sembrare uno stupido paranoico agli occhi dei ragazzi.
– Forse non voleva agire questa sera. – Dissi. – Sta di fatto che la sua musica è pericolosa. –
– Sta di fatto che mi hai fatto perdere la sua esibizione. Io me ne torno dentro. – Rivangò Koichi imperterrito, ferito e arrabbiato per quella mia azione istintiva.
Josuke alzò le braccia. – Non so che dire. –
Così i ragazzi seguirono Koichi uno ad uno leggermente in imbarazzo, non sapendo bene cosa dire né come reagire, lasciandomi stizzito e innervosito. Non li biasimavo: non potevano comprendere la pericolosità della musica di Yamada perché non l’avevano provata sulla loro pelle, e quasi mi pentii di non aver portato con me quel registratore.
L’ultimo ad abbandonarmi fu Mikitaka, il cui commiato mi innervosì ancora di più.
– Maestro, io le credo. Non esiti a chiamarmi nel momento del bisogno. –
Annuì stizzito, sperando che mi lasciasse solo in fretta; quando fu lontano, però, un’idea mi colse all’improvviso e lo richiamai a me.
Mikitaka! – Esclamai, facendogli cenno di avvicinarsi quando si voltò. – Senti. – Dissi al Jareth dagli occhi alieni. – Tu non vedi gli Stand, no? –
Il ragazzo annuì.
– Hai visto il pianoforte su cui stava suonando Yamada? Descrivimelo. –
Mikitaka annuì di nuovo. – È ancora là. – Disse indicando il pianoforte. – È molto grande, nero e lucido. La parte superiore è sollevata e sorretta da un bastoncino… –
Lo fermai con un gesto della mano. – Okay, okay. E la sua musica, invece? L’hai sentita? –
Il Re dei Goblin sorrise, i suoi occhi ad un tratto si fecero sognanti. – Eccome se l’ho sentita! È risuonata in ogni fibra del mio corpo. Dapprima lenta, si è fatta veloce ed intensa, ansiosa, fuggente…! –
Lo fermai di nuovo. – Basta così, grazie. –
Dopo un secondo di esitazione, l’alieno mi sorrise. – È stato un piacere, Maestro. Se ha bisogno di me… –
– Ti farò sapere, sì. – Lo congedai allontanandomi.
Alzai la testa al cielo e sospirai, esausto e quasi disperato. Avevo ormai perso di vista Yamada, preso com’ero stato dallo spiegare ai ragazzi la situazione che tutt’ora ritenevo critica; nessuna traccia di lui in giardino. Sbuffai seccato e mi sedetti ad una panchina fuori, cercando di riordinare i pensieri. Guardai l’orologio: era quasi giunta mezzanotte, la festa era prossima alla fine ma procedeva tuttavia con la stessa allegria ed euforia antecedenti all’esibizione. Com’era possibile? Perché l’efficacia della musica di Yamada non aveva ancora colpito gli invitati? Perché ascoltando la cassetta ero stato colpito da un attacco di panico nel giro di due minuti, mentre ora era tutto tranquillo a distanza di quindici, se non di più? Doveva essere una mossa studiata. Non avevo dubbi riguardo alle mie convinzioni, ai miei sospetti, tantomeno riguardo a ciò che avevo vissuto al piano di sopra, eppure mi innervosiva: avevo fatto una pessima figura davanti ai ragazzi ed avevo ferito Koichi, che ora era arrabbiato con me. Cercai di non crucciarmene troppo: avevo ragione, e presto tutti lo avrebbero capito.
Mi rimaneva soltanto una cosa da fare: trovare Yamada, aprirlo con Heaven’s Door e porre eventualmente fine a quel suo potere spaventoso. Avevo già perso la mia occasione una volta, non me lo sarei lasciato scappare di nuovo se me lo fossi trovato vicino.
Tornai all’interno della casa e cercai Yamada con gli occhi senza successo; chiesi a due ragazzi se lo avessero visto, e mi risposero che era andato a cambiarsi d’abito per unirsi ai festeggiamenti in modo adeguato.
Bene. Pensai mentre mi mettevo in fila per ordinare un drink. I ragazzi mi avevano abbandonato ed ero dunque solo, ma mi promisi che lo avrei fermato a costo di affrontare altri attacchi di panico e chissà che altri spasmi di terrore. Non resta che aspettare.

 

Non dovetti attendere molto.
Tutto cominciò con un lampo abbagliante seguito da un tuono fragoroso che sembrò squarciare in due la terra. I miei occhi cercarono istintivamente quelli dei ragazzi e trovarono quelli di Koichi immediatamente, sgranati come i miei. Distolsi lo sguardo per posarlo sull’orologio: il lampo aveva segnato la mezzanotte precisa, e ciò non costituiva sicuramente un buon presagio. Non avevo intenzione di raggiungere i ragazzi all’altro capo del salone, che discutevano in un angolo bevendo qualcosa; rimasi seduto sulla poltroncina ad aspettare il professor Yamada, che sarebbe dovuto pur scendere da quelle maledette scale prima o poi.
All’improvviso sentì qualcosa sfiorarmi la spalla, ma quando mi voltai sussultando non trovai nessuno; non era nemmeno possibile, visto che sedevo in salotto dando le spalle al muro. Un brivido mi percosse la schiena quando qualche istante dopo sentì dell’aria gelida soffiarmi sulla nuca; era altrettanto impossibile, visto che la porta sul retro era stata chiusa da un bel po’ e non c’erano finestre che potessero provocare correnti.
Mi alzai in piedi, improvvisamente inquietato; cercai di scacciare via la sensazione, ma anziché liberarmene, ne trovai una nuova: quella di essere osservato.
Feci qualche passo in avanti, spostandomi verso la hall. Mi giunsero all’orecchio le parole di un ragazzino alla mia destra, sussurrate ad un amico:
– Non lo sai, Yamato? La notte di Halloween il velo che separa il mondo dei vivi con quello dei morti si assottiglia. Si dice si possano percepire cose strane, e che per qualche ora possiamo comunicare con loro. –
Alzai gli occhi al cielo. Quel tipo di credenza mi innervosiva, ma più di tutto trovavo il tempismo di quelle parole insopportabilmente sinistro. Mi spostai di nuovo, irrequieto, avvertendo un improvviso ed impellente bisogno di tornare a casa.
Un secondo tuono squarciò la notte, ancor più forte del precedente, provocando un sensibile aumento di battiti del mio cuore. Decisi di uscire per prendere una boccata d’aria, anche se rischiavo di perdermi l’arrivo del professore; mi sentivo improvvisamente mancare l’aria e la sensazione di due occhi che mi scrutavano da ogni angolo sicuramente non mi aiutava. Aprendo la porta che dava sul retro mi trovai davanti una faccia pallida; sussultai saltando all’indietro, rendendomi conto solo dopo qualche secondo che era un uomo mascherato. Inspirai, sentendomi un totale idiota, ed uscii in giardino a grandi passi.
Sta facendo effetto. Pensai. Mi sono sentito così irritabile e paranoico solo nel tragitto in pullman verso la mostra di Alistair Pearce, pensai ricordandomi della situazione analoga.
Il grandissimo giardino era praticamente vuoto, poiché l’aria si era fatta fredda; mi avvicinai ad una fontana rotonda di pietra e sfiorai la superficie dell’acqua gelida, giocando con le piccole onde prodotte dal mio tocco. Dopo un po’ di gioco assorto scorsi una macchia bianca tra le increspature; quando queste si dileguarono notai che era il riflesso della medesima maschera pallida con cui mi ero scontrato poc’anzi che mi scrutava da dietro. Sussultai ancora una volta, e di nuovo non trovai nessuno dietro di me quando mi voltai. L’inquietudine si fece forte, tramutandosi in un pesante fiatone che faticai a controllare. Mi sedetti sul bordo della fontana, passandomi una mano sui capelli ingellati.
– Stai calmo. – Mi dissi. – Sono solo allucinazioni dovute dalla paranoia. –
Un terzo lampo illuminò la notte per un millesimo di secondo, facendomi sussultare ulteriormente. Alzai gli occhi al cielo, trovandolo illuminato da tante piccole stelle ed il medesimo spicchio di luna che ci aveva dato il benvenuto qualche ora prima: nessuna nuvola, nessun segno di tempesta in arrivo. Da dove provenivano i tuoni ed i lampi, allora?
La canzone che stava passando in quel momento, “Thriller Night” di Michael Jackson, si interruppe a metà. Dopo qualche secondo un pianoforte cominciò a risuonare dagli altoparlanti: non era quello che si trovava a qualche metro da me, vuoto e non più illuminato dal faretto, ma il tocco delle dita del professor Yamada era ormai inconfondibile. Perché passare la propria musica tutto a un tratto? Percepii che qualcosa stava per accadere ed un brivido mi scosse da dentro.
Anche se riluttante, ascoltai guardando il vuoto. L’istinto principale fu quello di tapparmi le orecchie, ma sapevo che mi avrebbe raggiunto comunque. La melodia questa volta partì subito veloce, quasi epica; gravi note erano intervallate da istanti di silenzio, per poi colpire di nuovo come fendenti. Seguì una scala di note che condusse la musica ad un ritmo ancor più intenso, poi ci fu un colpo forte di note ben studiate, come a segnare un punto saliente.
In quell’istante un altro lampo squarciò il cielo ed il suo fragore devastò non solo le mie orecchie, ma tutte le finestre della casa. Ogni singola finestra esplose dall’interno, con forza, gettando vetri dappertutto; l’esplosione fu così forte che dei vetri arrivarono addosso persino a me, che ancora sedevo sulla fontana in giardino, ben distante dalle mura della magione. La corrente saltò, lasciando la casa ed il giardino al buio totale; solo la luna illuminava ciò che mi stava intorno, seppur flebilmente, essendo ridotta ad un piccolo spicchio e spostata rispetto a prima, non più sopra la mia testa. Delle urla di paura si erano levate all’interno della casa, sovrastate dal fragore dell’esplosione; la musica di Yamada, però, non era cessata per un singolo istante. Continuava imperterrita, con un ritmo sempre più incalzante.
Udì altre innumerevoli urla di terrore uscire dalle finestre rotte, mentre qualcuno dall’interno sbatteva i pugni sulla porta sul retro. Mi precipitai verso di essa e cercai di aprirla, ma sembrava chiusa a chiave; era impossibile perché ci ero passato appena qualche minuto prima, e ciò mi convinse di quello che in realtà avevo già capito: l’efficacia della musica di Yamada era cominciata con lo scoccare della mezzanotte, con il fragore del primo tuono.
Provai di nuovo ad aprire la porta con tutta la forza che avevo, improvvisamente preso da un’ansia indicibile; non ci riuscì, così mi precipitai ad una delle finestre. Ero l’unica persona presente in giardino che cercava di entrare: era una mossa assurda, certo, perché anziché scappare dal pericolo vi stavo correndo incontro; avrei tanto voluto scappare via, anche se dal retro non ne avevo modo, per via della paura e dell’angoscia che avevo cominciato tutto ad un tratto a provare. Avevo sentito la composizione di Yamada ed ora non avevo più scampo: ero preda della sua musica, delle sensazioni fittizie che mi stava provocando quali ansia, terrore, voglia impellente di fuggire da un’entità che nemmeno conoscevo; l’esplosione doveva anch’essa essere frutto del suo potere, ed il fatto che potesse estendersi a tanto non faceva altro che peggiorare il mio stato mentale.
Una piccola ma vivida parte ragionevole di me si fece forza nel mio petto, dandomi la spinta necessaria per aggrapparmi alla finestra e zompare in casa. Mi graffiai la gamba con una scheggia di vetro rimasta attaccata ad un’anta; sentì un bruciore intenso pervadermi il polpaccio destro ma cercai di non badarci.
Mi trovai al buio totale; percepivo l’ansia e la paura generale come se fossero fumo passivo che inalavo, tanta era la tensione che tutti gli invitati stavano provando in quel momento. Non c’era più alcun rumore, se non le note di pianoforte incessanti di Yamada ad un volume tanto alto da battere nella testa come un martello; ancora qualche minuto e sarei diventato pazzo. Qualcuno accese un accendino e fui finalmente in grado di scorgere i contorni delle cose; mi feci strada verso la fiamma e strappai l’affarino dalla mano del ragazzo.
– Ehi! – Mi gridò.
– Sono elettricista. – Abbozzai. – Vado a controllare. –
Accesi la fiamma e avanzai per il salone, facendomi strada tra la folla immobile ed impaurita. Notai una lunga candela rossa appoggiata ad un tavolo, così l’accesi e me la portai dietro reggendola per il portacandela di legno.
Quando varcai la soglia della hall, finalmente trovai i ragazzi.
Rohan! – Koichi mi corse in contro; la sua espressione, ancor più suggestiva sotto la luce della debole fiammella, rivelò un grande panico.
Koichi. – Gli dissi, la musica che quasi sovrastava le mie parole. – Hai paura? –
Rohan, io… – Koichi deglutì a fatica. – Non ho mai provato niente di simile. –
Yamada non aveva cominciato a suonare da nemmeno un minuto quando lo avevo reso sordo, possibile che bastasse così poco? Qualcosa non tornava, ed ora che ci facevo caso, il ragazzo aveva anche un’espressione colpevole. – Ti ho fatto diventare sordo, dovresti essere immune. –
Koichi abbassò lo sguardo. – Ho sentito l’esibizione di Yamada, Rohan. –
Sgranai gli occhi. – Come? – Gridai, più violento di quanto avrei voluto.
– L’ho registrata. – Confessò Koichi mostrandomi un piccolo registratore. – L’ho portato sperando che si sarebbe esibito, e beh… –
– Ah! – Afferrai il registratore con la mano libera e lo scagliai violentemente a terra; si ruppe in mille pezzi, provocando molti sussulti. L’agitazione ed il panico mi stavano portando ad essere violento, quasi non più padrone delle mie azioni.
– Rohan! – Intervenne Josuke. – Siamo tutti in preda al panico, ma dobbiamo cercare di stare calmi! –
Inspirai scosso da un fremito di nervosismo, aggravato dalle note che uscivano dall’altoparlante fissato in alto all’angolo della hall. Guardai i ragazzi: avevano tutti espressioni terrorizzate, persino Mikitaka. Yukako era rannicchiata in un angolo, i suoi occhi marcati di nero sbarrati dalla paura.
– Dobbiamo trovare Yamada, e in fretta. – Dissi deciso. I ragazzi annuirono, sebbene non sembrassero molto convinti; d’altro canto nemmeno io, con quella voce tremante, mostravo il massimo della convinzione.
Nemmeno il tempo di finire di parlare che un altro tuono irruppe in cielo, o forse dal profondo della terra, o forse entrambe le cose: non ero in grado di capirlo, e nemmeno volevo.
Un rumore nuovo riempì la stanza in modo graduale; quando mi resi conto che si trattava di grugniti semi-umani e agghiaccianti gemiti gutturali, era già troppo tardi. Qualcosa, o meglio, qualcuno mi afferrò le spalle, gettandomi a terra. Dimenandomi riuscii a girarmi a pancia in su e malgrado la confusione ed il buio riuscì a scorgere i lineamenti della creatura che mi stava davanti: era uno zombie, o qualcosa di terribilmente simile. Stava sopra di me, cercando di azzannarmi con la sua mostruosa dentatura; non riuscivo a scorgere bene la sua faccia, ma quel poco che vidi bastò per terrorizzarmi. Gli afferrai il collo con entrambe le mani, nel tentativo di tenere la sua faccia quanto più lontano da me; aveva una forza incredibile che quasi mi avrebbe sopraffatto se Josuke, con una presa degna di un rugbista, non lo avesse scaraventato via. Okuyasu mi aiutò ad alzarmi, e constatai con orrore che gli invitati all’interno della casa avevano cominciato a trasformarsi in creature ringhianti, lente, ma mortalmente pericolose: erano decisamente zombie, morti viventi il cui unico desiderio sembrava quello di divorare ed uccidere. Ma come diavolo era possibile? Se significava che la musica di Yamada poteva trasformare le persone in morti viventi, allora eravamo tutti destinati a morire, perché ognuno di noi l’aveva sentita. Se era un virus trasmissibile col morso originato in qualche modo in quella casa, allora dovevamo fare il possibile per mantenerlo al suo interno per scongiurare un’epidemia, ed io dovevo immediatamente proteggere almeno i miei amici dal virus. Riaccesi la candela che era caduta per terra con mani tremanti.
Un gran trambusto percorreva ora le grandi stanze buie: urla, rumore di mobili spostati con violenza e gente che correva da tutte le parti cercando di sfuggire ai mostri che sembravano moltiplicarsi.
Koichi mi tirò il mantello. – Stai bene, Rohan? –
Annuii; ero scosso, ma fisicamente stavo bene. Sentivo dolore alla schiena per la caduta ed il polpaccio mi bruciava ancora, ma il mostro non era riuscito a ferirmi seriamente. Psicologicamente, invece, era tutta un’altra storia: la mia mente vorticava frenetica tra preoccupazioni, ansia, possibili piani di fuga, tentativi di ragionare e delirio dovuto dai nostri nuovi ospiti. Pensavo alla fine che avremmo fatto, dilaniati dalle zanne di quei mostri, di come saremmo diventati presto carne da macello e seguentemente macellai stesso: tremavo di freddo, di paura, sudavo e non ero in grado di controllare né battito cardiaco, né respirazione; il pianoforte incessante di Yamada che usciva dagli altoparlanti ne era la causa e mi impediva di ragionare in modo lucido, come fortunatamente ero sempre solito fare anche nelle situazioni peggiori.
Vidi Echoes Act 3 apparire e lanciare un’onomatopea a due zombie in avvicinamento, che vennero scaraventati dall’altra parte della sala. Anche The Hand si era messo all’opera, cancellando lo spazio e allontanando i mostri quanto più possibile; ce n’erano già una ventina sparsi tra hall, salone e le due stanze ai lati della casa, ma sempre più persone venivano morse e si tramutavano in un batter d’occhio.
– No! – Gridai vedendo Josuke dirigersi verso la porta d’ingresso, Crazy Diamond al fianco, probabilmente per cercare di distruggerla. – Se questi mostri escono ed infettano Morioh è la fine! Dobbiamo rimanere tutti qui e sconfiggere Yamada! –
Josuke, distruggi la porta sul retro! – Gridò Koichi. – Qui siamo in gabbia e non si vede nulla! –
Il ragazzo annuì determinato. Lo osservammo correre fino alla fine del salone, il suo imponente Crazy Diamond al seguito, per poi distruggere la porta di ingresso a pugni. Sgomberò a furia di pugni fulminei il passaggio dai mostri che arrivarono dall’esterno. Okuyasu lo raggiunse per aiutarlo tenere sgombra la porta, che una volta libera permise agli invitati di accalcarsi in massa per uscire.
– Andiamo anche noi? – Chiese Yukako, i quali capelli, il suo stand Love Deluxe, si erano allungati di alcuni metri ed attorcigliati attorno ad una delle bestie nel tentativo di immobilizzarla.
– No. – Dissi quasi senza fiato.
Koichi completò la frase. – Dobbiamo trovare Yamada. –
Annuii schivando la manata di uno zombie, che Koichi fu pronto a rimbalzare lontano.
– Indossa una maschera bianca. – Dissi.
– Come lo sai? – Mi chiese Yukako.
Inspirai forte, esitando per qualche istante. – Lo so e basta. –
Era effettivamente così. Non ne avevo la certezza, eppure sentivo che la persona con cui mi ero scontrato mentre uscivo poco prima, il cui riflesso avevo scorto per un istante nell’acqua era proprio lui. Non me ne ero reso conto prima, ma ora mi appariva stranamente chiaro.
Mikitaka! – Gridai. – Puoi farci luce in qualche modo? Questa candela non è abbastanza. –
Il re dei Goblin alieno corrucciò le labbra ma dopo un momento di esitazione annuì. Il suo corpo assunse una forma innaturale, quasi come una pasta morbida, che si contorse e si rimpicciolì fino a diventare una piccola torcia. Koichi l’afferrò appena prima che toccasse terra ed essa si accese, producendo una flebile luce.
– È un po’ troppo complesso, ragazzi. Non riuscirò a fare luce per molto. – Disse la voce di Mikitaka proveniente dall’aggeggio.
– Non ci metteremo molto, te lo prometto. – Gli dissi afferrandolo, trovano alquanto strano ed inquietante il fatto di stare tenendo una persona tra le mani.
– Non possiamo lasciare gli invitati indifesi. – Disse Yukako, affaticata per il grande sforzo che stava compiendo. Ferì uno zombie con i capelli a mo’ di frusta, facendolo cadere su un’onomatopea di Echoes che lo scagliò ancor più lontano.
Okuyasu e Josuke proteggeranno gli invitati. – Decisi sul momento. – Io ho bisogno di voi per trovare Yamada. Ma prima… –
A turno usai il mio Heaven’s Door su tutti i ragazzi. Era un rischio duplice: principalmente perché il mio Stand risentiva della mia salute mentale, dunque era già debole, ed usarlo sui ragazzi lo avrebbe indebolito ulteriormente; inoltre scrivere un comando che potesse funzionare senza che io conoscessi la vera natura del virus o del potere di Yamada era molto difficile e forse perfino inutile. Cercai di scrivere qualcosa di generico, di modo che potesse ricoprire più eventualità, ma meno ero specifico e meno ero potente. Le parole in questo mi legavano troppo. Optai per la frase:

“Sono immune al virus che sta infettando gli invitati della festa.”

 

Ero quasi certo che non avrebbe funzionato, ma non espressi troppo il mio pessimismo per non peggiorare l’ansia e la paura dei ragazzi. Raccomandai a Josuke ed Okuyasu di fare attenzione e ci separammo ufficialmente. Ci addentrammo nella hall ormai vuota, diretti alle scale. Trasalimmo quando puntai la torcia sulla faccia di uno degli zombie: non avevo mai visto uno scempio simile nemmeno nel più realistico dei film. I tratti del loro viso non avevano ormai più nulla di umano se non un vago ricordo di una fronte, un naso ed una bocca. La pelle dei poveri invitati era diventata gialla, probabilmente già in putrefazione; gli occhi vitrei non mostravano più alcun segno di vita, erano coperti da una un velo lattiginoso e mi gelarono il sangue appena incrociarono i miei. Il corpo che si intravedeva dal costume era anch’esso in putrefazione, con lembi staccati o prossimi a cadere qua e là; non c’era più traccia delle labbra, solo una sporgente dentatura marcia ma feroce incorniciata da pelle lacerata, spaccata e sanguinante. La testa aveva perso completamente i capelli, era calva e riportava segni di contusione, ematomi gialli come su tutto il resto del corpo e, notai inorridito in un secondo momento, persino alcuni punti di cervello perfettamente visibili, senza cranio o pelle che li proteggesse. Trattenni un conato di vomito, pregando Koichi e Yukako di non guardare, di risparmiarsi la sofferenza. Chiamai Heaven’s Door e lo colpii; non era certo un modo di sconfiggerlo, ma ero semplicemente curioso di sapere cosa avrei trovato tra le sue pagine e se avessi potuto farlo tornare normale in qualche modo. Con mio incredibile stupore quando mi chinai per sfogliare una delle pagine sul braccio del malcapitato, questa quasi mi si spappolò in mano come se fosse stata bagnata e non si fosse mai asciugata del tutto. Ciò che mi sorprese ulteriormente fu lo scoprire che le pagine erano vuote: c’erano tracce di scritte ma erano sbiadite, gran parte dell’inchiostro era stato in qualche modo lavato via lasciando solo delle grandi macchie scure. Provai a scrivere su una pagina, ma le parole si dissolsero non appena toccarono il foglio, come farebbe una goccia di china in un bicchiere d’acqua, proprio come tutte le altre.
Non persi altro tempo; ritirai Heaven’s Door, che quasi faticavo ad usare nel pieno delle capacità per via dell’agitazione e del peso che sentivo sul petto, e proseguii assieme a Koichi, Yukako e Mikitaka sotto forma di torcia tra le mani.
Non c’era più nessuno a fare da guardia alle scale, così calciai il delimitatore di corsia a terra e proseguimmo per la balconata. Quando il fascio di luce attraversò il corridoio buio mi parve per un istante di scorgere una figura scura con una maschera bianca; sussultai sentendo il cuore aumentare ulteriormente il ritmo. I miei nervi erano tesi come corde, non sapevo quanto ancora avrei potuto reggere una tale tensione.
– Lo avete visto anche voi? – Chiesi agghiacciato.
Koichi e Yukako annuirono, le loro espressioni terrorizzate. Vidi i capelli della ragazza stringersi al polso di Koichi in una probabile ricerca di sicurezza.
Inspira cercando di appellarmi al briciolo di sanità che mi era rimasto, seppur flebile e morente e messo in seria difficoltà dalle circostanze.
Tre persone spaventate a morte che cercano di affrontare il re di questo incubo, pensai preoccupato. Ce la faremo?
– Amici, ho molta paura. – Sussurrò la voce tremante di Mikitaka dall’interno della torcia. – Andiamo via. –
Scossi la testa frenetico, nonostante fosse il mio medesimo desiderio.
– Dobbiamo avere coraggio. Solo noi possiamo mettere fine a questa musica dell’orrore. – Apprezzai le parole di Koichi. La sua espressione parlava di paura atroce ed era terrificante, forse per via del travestimento, ma stava cercando di trovare un po’ di coraggio in quel poco raziocinio che gli rimaneva.
Procedemmo verso il corridoio, oltre l’angolo che poc’anzi non ero riuscito a superare per via dell’interruzione. La musica dagli altoparlanti che ormai sembrava risuonare da ogni parete, da ogni piastrella e da ogni asse di legno del soffitto era ora più lenta, ma non certo meno terrificante. Era musica di suspense e raccontava la storia di un’esitazione di fronte al pericolo, della certezza di stare per varcare la soglia dell’orrore; raccontava la nostra storia, come mi resi conto troppo tardi per prevederla. Un susseguirsi di note alte e frenetiche segnò il primo attacco diretto di Yuito Yamada nei nostri confronti. Otto zombie ci attaccarono all’unisono, uscendo improvvisamente dalle porte che davano sul corridoio. Yukako lottò con tutta la lunghezza dei suoi capelli ma venne sopraffatta; prima che potessi intervenire sentì la gamba destra venire afferrata con forza brutale e fui costretto ad osservare Koichi e Yukako lottare da soli contro sette zombie mentre venivo trascinato lontano e sempre più lontano, verso la fine del corridoio fin dentro ad una stanza.
Chiusa la porta dietro di me, lo zombie partì all’attacco. Ne seguì un combattimento a perdifiato, fortunatamente a due. La creatura si dimenò sopra di me, la sua testa feroce e martoriata arrivò ad un centimetro dalla mia quando riuscì ad allontanarla caricando un calcio con tutta la forza che avevo in corpo. Mi rimisi in piedi a fatica, percependo ancora il suo alito caldo e nauseabondo sulla faccia, ma lo zombie non mi lasciò molto tempo di agire o di pensare e mi fu di nuovo addosso. In qualche modo, tra la frenesia, l’agitazione e l’adrenalina che fortunatamente fungeva da carburante al mio corpo dolente e tremante, trovai il modo di lottare. Dopo qualche colpo sferratogli e dopo averne presi altrettanti la creatura cadde; afferrai la prima cosa che trovai, ovvero una sedia di legno, e gliela scagliai addosso, avendo così abbastanza tempo per raccogliere le energie psichiche, seppur debolissime, e chiamare Heaven’s Door con un urlo.
L’essere immondo finalmente cadde privo di sensi; mi precipitai verso la porta, tolsi la chiave dalla serratura ed uscì dalla stanza zoppicante ed ansimante. Centrai con fatica la serratura esterna per via delle mani tremanti ed il buio pesto; riuscì a chiudere la porta a chiave appena prima di udire lo zombie sbatterci contro e scuoterla con forza disumana. La bestia mi aveva colpito sul viso più volte e sentivo il calore del sangue che scorreva dalla fronte al mento, la mia schiena sembrava essere stata travolta da un camion ma mi feci forza: Koichi e Yukako erano in pericolo, dovevo assolutamente raggiungerli; inoltre non sapevo quanto la porta alle mie spalle avrebbe retto. Dovevo sbrigarmi.
Avanzai, mentre il piano di Yamada era tornato a suonare lentamente, e notai nella penombra sei zombie privi di sensi a terra e due corpi più indietro: uno, del quale riconobbi il travestimento di Koichi, era sdraiato, e Mikitaka gli sedeva accanto.
– Ragazzi. – Ansimai mentre li raggiungevo, reggendomi il braccio sinistro dolente.
L’espressione con cui Mikitaka si voltò a guardarmi mi fece trasalire.
Mi chinai sul corpo di Koichi, anche se il dolore alle gambe era dilaniante, ed un sollievo mi pervase al punto della commozione quando constatai che respirava ancora. I suoi occhi rossi si schiusero, guardandomi assorti.
Rohan… Non mi sento tanto bene... –
Il sollievo appena nato morì all’istante, scivolando via con un forte brivido che mi scosse dall’interno.
– No, no, no… – Sussurrai, pregando ogni divinità di ogni singolo pantheon mentre richiamavo Heaven’s Door, sempre più debole e restio. Con orrore sfogliai le pagine vuote e sbiadite di Koichi, le cui parole erano ora ridotte a macchie scure e giallastre identiche a quelle che avevo trovato nello zombie poco prima.
– Si è fatto mordere per proteggere Yukako, ma l’hanno presa lo stesso. – Disse Mikitaka sottovoce, quasi il solo pronunciare quelle due frasi lo ferisse. – Maestro… – La sua voce si ruppe; quando lo guardai un ennesimo tremito mi scosse: il suo braccio destro recava un grande morso, potevo scorgere la carne viva dai buchi del tessuto impregnato di sangue.
Come previsto, il mio intervento sui ragazzi con Heaven’s Door era stato un inutile spreco di energie, non li aveva affatto protetti dal virus. Se il morbo si diffondeva tramite la musica allora ero destinato a fare la stessa fine; per il momento stavo bene in quel senso, dunque accantonai il pensiero. Non avevo bisogno di altre preoccupazioni.
– Deve trovare il pianista in fretta, Maestro. – Continuò Mikitaka, la cui voce non mi era mai sembrata tanto umana. – Gli zombie si sveglieranno presto e tra poco lo diventeremo anche noi. –
Inspirai più volte, ancora in ginocchio accanto a Koichi, che aveva cominciato ad essere percosso da spasmi. Dovevo scendere e trovare Josuke e Okuyasu: forse con loro avrei avuto qualche speranza di porre fine a quell’incubo e mettere a tacere quella musica per sempre, ammesso e non concesso che li avrei ancora trovati in forma umana.
Scossi lentamente una gamba di Koichi come per dargli forza.
– Cercate di resistere, ragazzi. – Dissi alzandomi a fatica, dilaniato da dolori e bruciori in ogni parte del corpo. – Farò del mio meglio. –
Mi passai una mano sul viso fradicio di sudore e di sangue ed appellandomi alle ultime forze corsi verso la balconata, fin giù dalle scale. La hall ed il salone parevano uno scenario post-apocalittico, c’erano vetri in frantumi in ogni dove, corpi di persone prive di sensi distesi a terra e colpiti da spasmi, poltroncine in brandelli e schegge di legno provenienti da sedie frantumate; ciò che mi rese più irrequieto di tutto, oltre alla melodia incessante che aumentava di intensità man mano che raggiungevo l’uscita, era l’assenza di zombie. Le persone a terra, una ventina se non di più, erano state infettate e si sarebbero presto svegliate, ma dove erano gli zombie originari? Tremavo all’idea di cosa avrei trovato fuori ma proseguii lo stesso, sentendo improvvisamente il peso della salvezza di Morioh sulle spalle, come se fossi ancora una volta l’unico in grado di salvarla.
In giardino trovai la stessa identica situazione. Tutti gli invitati erano stati morsi, anzi dilaniati, ed il virus attendeva solo il termine dell’incubazione per farli tornare in piedi famelici. Con rammarico ed ansia crescente mi trovai a scrutare dall’alto anche i corpi di Josuke e Okuyasu che mostravano segni di fiera lotta, ma anche di morsi in più punti del corpo. All’improvviso, come se fossi stato colpito da un colpo di pistola, un capogiro mi colpì violentemente portandomi ad un passo dallo svenimento. Sentii prudere prima le mani, poi il petto, poi le labbra; un nuovo tipo di panico cominciò ad assalirmi, uno che avevo provato poche volte nella mia vita, solo quando mi ero trovato in un vero, tangibile ed imminente pericolo di vita. Cosa mi stava succedendo? Possibile che anche io…?
No. Mi convinsi imperioso, tirandomi in piedi goffamente.
Non sono stato morso. Non può prendersi anche me!
La mia era più una preghiera che una convinzione, ma cercai di aggrapparmici mentre la strana sensazione di morte imminente mi pervadeva sempre di più. Zoppicai fino alla fontana rotonda e mi chinai per specchiarmi: sentì le lacrime affiorarmi agli occhi ed appannarmi la vista mentre constatavo che anche le mie fattezze erano cominciate a cambiare. Notai che la pelle insanguinata del viso stava cominciando a lacerarsi e la luce dello spicchio di luna mi permise di constatare nel riflesso che anche i miei occhi erano strani, terribilmente simili a quelli lattiginosi che avevo visto prima illuminando lo zombie famelico. Mi grattai una mano a seguito di un fortissimo ed impellente prurito, preso dall’orrore mentre vedevo la pelle staccarsi a contatto con le unghie.
– No! No! No! NO! – Gridai in preda alla disperazione, stringendo le mani sul bordo della fontana.
La consapevolezza di essere destinato a spegnermi mi dilaniò, provocandomi una sensazione di smarrimento, apprensione e sgomento come non avevo mai e poi mai provato prima d’ora.
Ero destinato a morire.
Un lampo squarciò il cielo seguito immediatamente da un fortissimo tuono, dello stesso tipo che aveva fatto esplodere la casa; quasi come un richiamo, esso sembrò svegliare improvvisamente tutti gli invitati, ormai morti viventi. Mi voltai col terrore nel cuore, constatando che ero circondato da zombie in fase di risveglio; i loro gemiti pervasero l’aria mentre tentavano di alzarsi goffamente, quasi avessero dormito per due secoli interi. Guardai Josuke ed Okuyasu sperando inutilmente che almeno la loro incredibile forza vitale li avesse salvati in qualche modo; quando mi rivolsero uno sguardo vitreo e giallastro capì che ero letteralmente finito.
Poi, nel buio della casa, lo vidi, distante ma non più un’allucinazione: Yuito Yamada, coperto dalla sua maschera bianca e senza espressione, mi osservava dal buio del salone. Devo ringraziarlo, perché la rabbia e la voglia di vendetta che provai alla vista di quel viso color gesso furono l’ultimo barlume di forza a cui potei aggrapparmi e che mi permisero di accantonare ogni prurito, ogni dolore, ogni paura e di mettermi a correre verso di lui.
Uno zombie mi afferrò la gamba facendomi capitolare proprio pochi passi prima di raggiungere la porta sul retro; imprecai, ma dalla bocca secca non uscì che un ringhio inumano e morente. Sentivo la forza vitale abbandonarmi ad ogni respiro, potevo percepire il suo calore farsi sempre più debole mentre anche la forza fisica mi veniva meno e la pelle bruciava, pronta a staccarsi da un momento all’altro.
Strisciai mentre i due occhi neri mi guardavano da dietro la maschera bianca, dandomi un ultimo impeto di forza per rimettermi in piedi.
Con un ultimo, feroce grido chiamai Heaven’s Door. Era nella sua forma più debole, ridotto ad un flebile ologramma destinato a sparire nel giro di un minuto; compiuti i tre passi che separavano l’uomo mascherato dal mio raggio d’azione, finalmente lo potei colpire.
Caddi a terra ansimante proprio accanto a Yuito Yamada, che ora giaceva senza sensi. Gli strappai la maschera dal viso, preda di un fiatone asmatico e soffocante, notando con sollievo che le sue pagine erano in condizioni normali. Con un colpo di pennino, il mio Heaven’s Door scarabocchiò sul primo spazio libero.

“Ritiro il mio attacco Stand, facendo tornare alla normalità tutte le persone da esso colpite.”

Non avevo tempo ed energie necessarie per pensare ad altro o per essere più specifico. Yamada tornò normale ed io attesi morente per interminabili istanti l’effetto delle mie parole.
L’effetto, però, non arrivò. Yamada, ora senza maschera, si tirò su a sedere confuso; lui mi guardava dall’alto ed io ricambiavo lo sguardo mentre la vita mi abbandonava. L’effetto del mio Stand avrebbe dovuto essere immediato, perché diavolo stavo ancora morendo? Ancora qualche minuto appena e sarei diventato anche io un morto vivente.
Pregai Heaven’s Door di tornare ancora una volta, pur sapendo che l’energia vitale che mi rimaneva era l’equivalente di qualche goccia d’acqua. Colpì Yamada di nuovo, sull’orlo dilaniante tra la vita e la morte; mi sentivo come se avessi trattenuto il respiro fino al limite del possibile e fossi arrivato alla soglia collasso. Usai l’ultimo residuo di ossigeno e di forza vitale per imprimere un’unica, semplice frase. Ebbi appena il tempo di scorgerla imprimersi sulla pagina, la vista ormai quasi totalmente annebbiata, quando tutto diventò nero.

Rohan Kishibe è immune alla mia musica.

Poi, la vita.
Mi svegliai di soprassalto con un esplosivo respiro a pieni polmoni. Non saprei descrivere quello che provai, se non come una sfavillante ed esplosiva sensazione di rinascita. Ero emerso da quell’apnea durata fino ai limiti del collasso e dovetti boccheggiare per molto tempo prima che il mio respiro si ristabilizzasse e che la testa smettesse di girarmi.
Constatai di trovarmi ancora nel salone accanto a Yamada, ancora privo di sensi ma sull’orlo del risveglio, mentre la sua musica suonava ancora dagli altoparlanti. Non rimaneva quasi più nulla dell’angoscia, dell’ansia e del terrore che mi avevano oppresso fino a poco prima; la sua musica era suggestiva, certo, ma le mie orecchie non la percepivano più come un pericolo. Mi guardai le mani, esalando un sospiro di sollievo misto ad una risata nel vederle normali, sane, senza traccia di screpolature o lacerazioni.
Ero un rottame, certo. Ero ferito, dolorante, ancora agitato e mi girava la testa, tuttavia avevo abbastanza forza vitale da poter fare di quell’uomo ciò che volevo.
Heaven’s Door apparve al mio fianco, non più un ologramma morente bensì il mio fedele Stand di sempre, tuttavia esitai. Attesi che si svegliasse; lo guardai sorridendo beffardo mentre si rimise in piedi ed arretrò confuso e spaventato dopo che ebbe constatato che ero tornato normale.
– Buonasera, professor Yamada. – Gli dissi inchinandomi. – Devo ammetterlo, lei è il miglior pianista che le mie orecchie abbiano mai avuto il piacere di ascoltare. La sua musica è così… Suggestiva! – Risi, sadico e beffardo. Mi sentivo mosso nel profondo da un sadismo ed una voglia di vendetta che quasi mi spaventarono.
L’uomo sgranò gli occhi e deglutì. – Rohan Kishibe. – Mi disse fingendo di riacquisire compostezza. Mi fece sinceramente onore sapere di essere conosciuto da un pianista tanto eccezionale. – Sapevo che le sarebbe piaciuta. Ho sempre pensato che fossimo affini. – Potevo notare benissimo il suo disagio e la sua confusione; fino ad un attimo prima mi aveva visto preda della sua musica, mentre ora mi ergevo in piedi fiero e minaccioso. L’uomo non sapeva come spiegarselo ma si stava impegnando per non darlo a vedere: in quel momento non mi serviva Heaven’s Door per leggere dentro di lui. Mi stavo divertendo tantissimo a stuzzicarlo, lo ammetto; non potevo perdere molto tempo poiché gli zombie attorno a noi si stavano svegliando, ma era così soddisfacente che mi trovai ad utilizzare quasi tutto il tempo utile.
– Affini, dice? – Gli chiesi inclinando la testa. – Io dico di no. –
– No? – Mi fece eco l’uomo, la cui voce nasale era soffice come una carezza. Era un uomo raffinato e molto intelligente, tanto che mi rammaricai non avere avuto un’occasione diversa per farci due chiacchiere. – Anche lei ama l’oscurità ed il terrore. Ho letto molti capitoli del suo manga, sa? – Continuò.
Ghignai portandomi una mano alla bocca. – Sì, certo, ma questo non basta a renderci simili. Io dico che siamo diametralmente opposti, noi due, professor Yamada. Io attingo al realismo per creare opere sorprendenti, non ho bisogno di alterare le percezioni dei miei lettori. – La mia frase ebbe l’effetto desiderato e colpì il professore come uno schiaffo. Decisi di andarci pesante anche se ciò che dicevo era vero solo in parte. – Senza il suo potere lei non sarebbe nient’altro che un pianista mediocre. – Continuai affondando il coltello nella piaga.
– Si sbaglia di grosso. – Ribatté Yamada, ora iracondo. – Non c’è nessun altro al mondo in grado di comporre una tale musica! Lei dovrebbe inchinarsi! –
Scoppiai in una fragorosa risata quasi isterica alimentando l’ira del mio interlocutore. – Mi rifiuto! In ogni caso, tra qualche istante non ci sarà più nessuno in grado di comporre una tale musica. –
Senza attendere una sua risposta lo colpii con Heaven’s Door ed egli cadde a terra senza sensi per la terza volta – terza ed ultima, sperai.
Mi avvicinai e mi chinai per leggere le sue pagine, curioso e desideroso di capire perché il mio primo comando non avesse funzionato. Sgranai gli occhi, incredulo di fronte a quello che capii dopo poche pagine appena; ne sfogliai altre freneticamente, ma la mia intuizione trovò conferma. Quello che avevamo vissuto quella sera non era affatto un attacco Stand, ed era il motivo per cui la mia prima frase non aveva avuto alcun effetto: Yuito Yamada non possedeva alcuno Stand, dunque non c’era alcun attacco da ritirare! Scossi la testa incredulo mentre gli occhi leggevano la vita dell’uomo, la scoperta di avere un talento musicale assolutamente fuori dal comune, il potere di plasmare a proprio piacimento le emozioni e le sensazioni di chiunque ascoltasse le sue melodie. Lessi della famosa efficacia da lui tanto ricercata e menzionata negli appunti: essa altro non era che la capacità di indurre allucinazioni visive e addirittura sensoriali tramite l’attenta selezione delle note, cosa che aveva scoperto da pochissimo dopo anni di prove, di studio e di ricerca.
Non riuscivo a capacitarmene, ma il suo libro non poteva mentire. Yuito Yamada non aveva uno Stand, bensì un potere totalmente inspiegabile. Proseguendo nella lettura constatai che non era propriamente una persona orribile. Era un sadico, certo: usava i suoi spettatori come cavie da anni e noi non eravamo che l’ultimo, più brutale e assassino dei suoi esperimenti. Il suo piano iniziale era quello di testare le allucinazioni per poi indurci a dimenticare l’ultima parte della serata con un’ultima composizione, La Quiete Dopo La Tempesta, brano usato parecchie volte in passato al termine delle sue esibizioni per non destare sospetti sulla natura oscura e sinistra della sua musica. Non lo giudicavo propriamente cattivo: il modo in cui testava la sua musica è il modo in cui uno scienziato prova e riprova un suo farmaco, gioendo nel constatare che un piccolo topo è morto agonizzante provandone l’efficacia, anche se è una cosa moralmente deplorevole. Ancora una volta, eccomi a fare Dio; ancora una volta agii seguendo la mia morale, tentando di non sbilanciarmi troppo, anche se la rabbia dovuta dal vivido ricordo dell’essere sull’orlo della morte premeva sul pennino gridando vendetta.

 

____

 

Riuscii a sistemare i grandissimi danni perpetrati da Yamada, non con poco sforzo. Dovetti usare il mio Stand su ogni singolo invitato, eccetto i miei compagni, modificando il loro ricordo della festa, facendola terminare con una strabiliante esibizione finale di Yamada a mezzanotte esatta.
Trovai il modo di impedire a Yamada di nuocere gravemente ai suoi ascoltatori, conservando tuttavia quel suo incredibile talento e la capacità di entrare nel cuore delle persone più in profondità di qualsiasi altro musicista che avesse mai camminato sulla terra. Feci in modo che Yamada non si dimenticasse di me; ne alterai certo il ricordo, ma in modo che lui sapesse per sempre che Rohan Kishibe lo aveva sconfitto.
Fu estenuante e mi portò ancora una volta quella sera al limite della forza; ciò non basto però a trattenermi dall’aggiungere il mio tocco personale.

 

Rohan Kishibe non si è rivelato affatto impressionato dalla mia musica. È l’unica persona che abbia mai visto sbadigliare durante una delle mie esibizioni. È semplicemente assurdo! Questa cosa mi innervosisce e rimette seriamente in discussione la mia professionalità. Troverò sicuramente il modo di stupirlo!”

 

***

 


Koichi sospirò. – Ancora non riesco a capacitarmi del fatto che quel potere non sia dovuto da uno Stand. –
Alzai le spalle fingendo noncuranza, anche se in realtà trovavo che quella rivelazione fosse tra le cose più scioccanti ed inquietanti che mi fossero mai successe.
– Anche gli Stand sono una cosa assurda, ce ne siamo semplicemente abituati. Il mondo è pieno di cose sinistre, oscure e inspiegabili, Koichi. Sicuramente questo non ne è che un assaggio. –
Koichi annuì e si alzò dalla poltroncina per infilarsi il giubbotto. Aveva un’aria stanca, forse dovuta ancora allo scombussolamento interiore ed esteriore della sera prima.
– Beh, il prossimo Halloween si rimane a casa a guardare un film, che ne dici? Al diavolo le feste in maschera e le cose paurose. –
Risi abbandonandomi allo schienale morbido del mio divano. – Oh, il Conte Dracula è confinato nell’armadio per sempre, questo è certo. –
Anche Koichi rise, poi i suoi occhi caddero su un registratore appoggiato al tavolino che prese in mano incuriosito. – E questo cos’è? –
Mi drizzai di soprassalto, sporgendomi per raggiungerlo e strapparglielo dalle mani. – Credimi, non vuoi ascoltarlo. –
Koichi inclinò la testa confuso. – Oh? –
Alzai le sopracciglia, convinto che ci sarebbe arrivato.
– Oh… – Fece poi, sbarrando i grandi occhi. – No, no grazie. –
Risi ancora una volta nel modo in cui si può ridere solo di una disgrazia superata abilmente.
Koichi mi salutò, scusandosi ancora una volta a testa bassa per non avermi creduto quella sera; lo congedai con un sorriso calmo, sincero, dicendogli che nemmeno io mi sarei creduto se fossi stato al suo posto.
Una volta trovatomi solo aprì la cassaforte che nascondevo dietro un quadro nel mio studio; osservai il registratore che tenevo in una mano ed il biglietto che tenevo nell’altra.

“Per Rohan Kishibe,
Nella speranza che sia motivo di commozione e non di sbadigli.

Yuito Yamada

 

Scoppiai in una fragorosa risata mentre riponevo gli oggetti nella cassaforte, al sicuro da qualsiasi orecchio che non fosse mio. Yamada aveva provato a stupirmi inviandomi per posta la registrazione di un suo nuovo pezzo, che casualmente sembrava proprio raccontare la notte del 31 Ottobre, l’insorgenza degli zombie, la mia lotta tra ragione e follia, tra vita e morte; ogni volta che l’ascolto mi sembra di rivivere quella sera, il terrore, il dolore fisico e piscologico, la sensazione straziante di trovarmi ad un passo dalla morte. Risento ogni tremito, ogni tuono, ogni singolo ansito. È sinceramente la composizione più strabiliante, emozionante e trasmissiva che io abbia mai ascoltato. Yuito Yamada è in realtà tra le persone più brillanti che io abbia mai avuto il piacere – o meglio, dispiacere in questo caso – di conoscere. Sono stato cattivo con lui e gli ho detto cose che non pensavo davvero, ma l’ho fatto per dovere e per vendetta; sapevo che non aveva bisogno di quel suo misterioso potere per produrre musica eccezionale, e quella sinfonia composta in meno di ventiquattro ore ne era la prova. Anche se mi provoca degli incubi dopo ogni ascolto, la uso tutt’ora come fonte di ispirazione quando mi trovo in crisi durante la stesura del mio manga, ed ogni volta mi è di incredibile aiuto; questo però il professor Yamada non lo dovrà mai sapere.

 

FINE

 

 

 


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