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Autore: Adeia Di Elferas    28/11/2018    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Poteva anche farmelo sapere prima.” disse a voce bassa Caterina, rimettendo la lettera di suo zio sulla scrivania del castellano.

Ludovico aveva scritto direttamente al suo cancelliere per farle sapere che era partito da Milano un nuovo ambasciatore per lei. Nella sua missiva sottolineava come fosse fondamentale, in quel momento tanto delicato, poter collaborare in modo stretto, senza lasciare troppe lettere per strada.

“Forse aveva paura che gli rifiutaste il permesso di mandare qui un nuovo ambasciatore.” fece Cesare Feo, abbandonandosi contro lo schienale della sua sedia: “In fondo tutti sanno quanto poco amiate gli emissari stranieri. Devo ricordarvi com'è finita con Andrea Pazzi, per esempio?”

L'ambasciatore fiorentino se n'era andato – prendendosela anche con troppa calma – da qualche giorno e in fondo la Sforza temeva un po' la reazione della Signoria, benché fosse certa di aver fatto bene a mandarlo via. Almeno fino a che non si fosse risolta la questione di Dionigi Naldi e fossero state ritirate anche tutte le accuse verso Ottaviano Manfredi, non avrebbe accettato nessun altro ambasciatore fiorentino nella sua città.

Andandosi a sedere sulla poltrona che un tempo era stata di Giacomo, la Contessa sbuffò e sollevò una mano, come a dire che non era il caso di girare il dito nella piaga: “E va bene, se mio zio ci tiene, che mandi chi vuole. Non cambierà nulla.”

Il castellano annuì, convinto che l'arrivo di un nuovo ambasciatore milanese potesse solo fare bene allo Stato. Avevano bisogno di liquidi e, ancor di più, avevano bisogno di protezione, anche se solo figurativa.

In una corte che teneva a distanza i diplomatici esteri, vedere arrivare un ambasciatore dal Ducato, e, soprattutto, vederlo accolto bene avrebbe gettato un po' di fumo negli occhi a quelli che passavano le loro giornate a tenere sotto controllo le terre della Tigre.

Avevano un esercito dalle qualità invidiabili – bastava vedere quante lodi venivano tessute per l'operato di Albertino Borschetti, alla guida della frangia forlivese del contingente sotto Paolo Vitelli, l'unica, di fatto, che stesse continuando a combattere per arginare i veneziani – ma dai pochi effettivi. Un discorso analogo lo si poteva fare con le armi e con le strutture difensive. La Leonessa, negli anni, aveva investito molto sulla qualità, ma aveva dovuto farlo a scapito della quantità.

“Mia signora...” la voce del Feo era guardinga, tanto da insospettire Caterina, che lo guardò in tralice, chiedendogli così silenziosamente di dire in fretta quel che aveva da dire.

Il castellano, che assieme al Governatore di Forlì e a quello di Imola aveva più di tutti presente la situazione finanziaria della Contessa, sentiva il bisogno di chiarirsi le idee. Gli veniva chiesto di ottimizzare i fondi, ma voleva essere certo di quanto, effettivamente, potessero disporre.

“Ecco, mi stavo chiedendo...” disse, schiarendosi la voce un paio di volte: “Possiamo seriamente ancora sperare nell'eredità di vostro marito Giovanni Medici?”

A quella domanda, la donna si morse il labbro e appoggiando con pesantezza la testa allo schienale imbottito della poltrona, rispose: “Onestamente, non lo so nemmeno io.”

Cesare deglutì, voltando pagina al libro contabile che aveva dinnanzi, in cerca dell'ultimo saldo delle casse dello Stato. Ricordava molto bene la cifra che aveva letto solo pochi minuti prima, ma ritrovarsela davanti gli diede i brividi.

Si morse nervosamente il pollice e commentò: “Ebbene... Speriamo che almeno la Repubblica di Firenze ci versi gli ultimi soldi che ci deve e che la fine della guerra con Venezia ci porti un accordo favorevole, per noi.”

La Sforza comprendeva benissimo i timori del suo castellano, perché erano gli stessi che tormentavano anche lei, ma cercò di risollevarlo un po', dicendo: “Tutto si sistemerà, in un modo o nell'altro.”

“Non ne ho dubbi.” convenne Cesare, temendo, però, che per loro il tutto si sarebbe sistemato, certo, ma in un modo tutt'altro che facile e per nulla piacevole.

“Comunque, questa volta, cercherò di trattare l'ambasciatore di Milano con la dovuta considerazione.” promise la Contessa: “Non è il caso di giocare con il fuoco. L'appoggio di mio zio ci serve. Venezia e Firenze staranno anche per arrivare a un compromesso di pace, ma il Doge mi odia.”

L'uomo, dietro la sua scrivania, non trovò motivo di contraddirla. Proprio in quei giorni avevano scoperto, grazie alla loro rete di spie, che il Doge stava mettendo in giro le peggiori voci su Caterina, fomentando l'odio verso di lei, spingendo sulla questione di Corbizzo Corbizzi, per farla ritenere una traditrice dei suoi alleati, e alimentando anche i malumori dei Bentivoglio, che ancora si lamentavano del furto dei loro bagagli.

Senza contare i numerosi attacchi personali che il Serenissimo muoveva di continuo nei suoi confronti, usando fantasia ed esagerazioni, convinto che tanto, da una donna del genere, tutti potessero attendersi qualsiasi malefatta.

“Avete sentito che cosa va a dire in giro, adesso?” fece Caterina, dopo un momento di silenzio, massaggiandosi la fronte: “Sta mettendo in giro la voce secondo cui io vi avrei squartato pubblicamente, a mani nude, davanti a tutta la città, e che l'avrei fatto perché mi avete respinta come amante.”

La risata, senza alcun calore, che uscì dal petto della Tigre, mise quasi i brividi al Feo. Lui sapeva di essere vivo e vegeto e, in tutta onestà, non temeva la sua signora. Era lo zio del suo amato Giacomo, non aveva mai commesso crimini contro di lei, né intendeva farlo. Si sentiva in una botte di ferro. Eppure pensare che in giro per l'Italia qualcuno potesse davvero credere che fosse stato ucciso, a quel modo, poi, e per quel motivo, era abbastanza per fargli accapponare al pelle.

“Piuttosto...” riprese la Tigre, smettendo subito di ridere: “Il messaggero che ho inviato a Faenza non è ancora tornato?”

Per far fronte ai problemi commerciali di Forlì, la Sforza si era abbassata a chiedere spiegazioni a Castagnino, domandando cosa fosse necessario fare, per permettere nuovamente ai mercanti di attraversare Faenza per arrivare a Forlì, ma nutriva poche speranze su una sua effettiva collaborazione.

“Ancora nulla, mia signora.” disse infatti Cesare, sconsolato: “Possiamo solo aspettare.”

“Sperando, nel frattempo, che nessuno crepi di fame.” commentò a denti stretti la Contessa, pensando alle scorte di grano che cominciavano ridursi a vista d'occhio.

 

Alessandro VI ascoltava il camerlengo quasi senza respirare. Aveva sperato in un risultato del genere, ma quello che il Cardinale Raffaele Sansoni Riario aveva puntualizzato nella sua relazione era ancora meglio di quanto il papa avesse immaginato.

“Mi auguro – provò a dire il prelato, sollevando un po' teso gli occhi verso il Santo Padre – che mostrerete clemenza, almeno verso mia cugina, la Contessa Riario...”

Rodrigo, che aveva già voltato la grossa schiena al Cardinale, per mettersi a osservare i giardini vaticani, bagnati dal sole chiaro e distante di quel glorioso giorno, che si intravedevano dalla finestra, sollevò appena le spalle e commentò: “Farò quello che Dio vuole, nulla di più e nulla di meno.”

Raffaele riguardò il proprio resoconto e si sentì un traditore. Non aveva capito per tempo quello che il pontefice aveva intenzione di fare e, ormai, era troppo tardi per tirarsi indietro. L'unica possibilità che aveva di aiutare i suoi cugini stava nel cercare di convincere il Borja a essere magnanimo, accettando da parte di Caterina un'ammenda formale, senza pretendere altro.

“Questi vicari di Santa Madre Chiesa, come vogliono farsi crede...” sussurrò Alessandro VI, avvicinandosi ancora un po' di più alla finestra, il petto che saliva e scendeva rapido, come ogni volta in cui si agitava più di quanto avrebbe voluto: “Hanno fatto i loro comodi per troppo tempo. I miei predecessori hanno fatto di tutto, pur di mantenere il quieto vivere e così hanno fatto dei loro vicari tanti piccoli re. Hanno lasciato credere loro di poter fare quello che volevano a casa del papa, permettendo che si dimenticassero chi è il vero padrone di quelle terre.”

“Ma, con tutto il rispetto, Vostra Santità, alcuni di loro hanno retto il potere in modo degno e...” si arrischiò a intromettersi Raffaele.

“Assurdità!” sbottò il papa, voltandosi, gli occhi rapaci che agganciavano quelli sperduti e impauriti del camerlengo: “Avete visto anche voi i conti! Mi avete dato ragione! Danni incalcolabili alle casse della Chiesa, soprusi di ogni genere, guerre inutili..! Ecco cos'hanno fatto persone come quella strega di vostra cugina!”

Il Cardinale, spaventato da quello scatto, chinò il capo e non disse più nulla. Si sentiva impotente e incapace, come quella maledetta domenica di Pasqua a Firenze, tanti anni prima, quando avevano trucidato il povero Giuliano Medici sotto i suoi occhi, senza che lui avesse il coraggio di far altro, se non piagnucolare in un angolo, nella speranza che nessuno se la prendesse pure con lui.

“Ormai ho deciso, Sansoni.” concluse il papa, riassumendo un tono di voce abbastanza pacato: “E vi dirò di più. Se per tutti gli altri sedicenti signori di Romagna basterà l'accusa di essersi impadroniti in modo troppo autoritario delle terre che sono tutt'ora della Chiesa, per vostra cugina ci sarà l'aggravante di non aver presentato il dovuto censo degli ultimi tre anni.”

“Ma voi lo sapete... Dopo la morte del Barone Feo, mia cugina non era molto... Insomma...” il farfugliare confuso di Raffaele fece accigliare il Santo Padre, ma solo finché l'uomo non concluse, con voce un po' più ferma: “Lei aveva mandato un suo emissario, poi, per saldare i conti, ma voi non avete mai voluto dargli udienza e...”

“E basta!” lo zittì Rodrigo, ergendosi in tutta la sua formidabile altezza, quasi a volerlo spaventare più per la sua prestanza fisica, ancora notevole, per un uomo di sessantotto anni, che non per le proprie parole: “Ormai ho deciso e voi mi avete fornito i documenti necessari per agire! Farò redigere una bolla che sia inattaccabile, la farò sottoscrivere da non meno di una dozzina di Cardinali e i signori della Romagna dovranno lasciare all'istante quelle che credono essere le loro terre, o manderò mio figlio Cesare a spazzarli via tutti, dal primo all'ultimo!”

Il Cardinale Sansoni Riario aveva gli occhi sgranati, sentiva le gambe cedere e la bocca gli si era completamente seccata. Stava cercando di pensare a come muoversi, a cosa consigliare a Caterina, ma la sua mente era completamente vuota.

“Ricordatevi che controllo la vostra corrispondenza.” fece a voce molto bassa Rodrigo, quando si rese conto di aver parlato troppo: “Una sola parola che possa mettere una pulce nell'orecchio a quella pazza di vostra cugina, e vi giuro che vi chiudo nelle prigioni di Castel Sant'Angelo e vi ci faccio uscire solo da cadavere.”

Raffaele annuì, con il cuore che tremava, perché sapeva anche troppo bene che, tra tutti i difetti di Alessandro VI di certo non c'era il mancare alla parola data.

“Adesso levatevi di torno.” concluse il Borja, sistemandosi con un gesto un po' stizzito la cuffietta papalina: “Devo attendere a della corrispondenza.”

Il Cardinale Sansoni Riario non se lo fece ripetere e, veloce come una lepre, lasciò il salone, andando dritto e filato verso l'uscita. Non salutò nessuno, non parlò con anima viva. Andò direttamente nel palazzo di suo cugino Ottaviano, ormai eletto in pianta stabile come sua dimora. Si mise a letto e, sentendosi nauseato e scosso come un naufrago in mezzo alle alte onde di una mareggiata, si coprì fino al mento.

Il suo servitore particolare, quando si accorse che il padrone era rientrato, andò a vedere come stesse e lo trovò steso sotto le coperte, ancora con addosso l'abito talare. Gli chiese se volesse mettersi più comodo, ma Raffaele scosse il capo, senza parlare. Il domestico gli toccò la fronte, perché, vedendolo tanto pallido, sudaticcio e tremante, voleva capire se fosse il caso di chiamare un dottore.

Lo trovò febbricitante e, sentendogli il polso, come gli era stato insegnato di fare in casi simili, lo trovò rapido come un cavallo in corsa.

“Dobbiamo chiamare un medico, Vostra Eccellenza, voi non state bene...” disse il servo, già andando alla porta per far partire il messaggio.

“No! No, per Dio, no!” lo implorò Raffaele: “Sto bene! Sto bene! Non chiamare nessuno... No, non deve entrare nessuno in questa casa, nessuno...”

Il domestico attese un momento. Non poteva certo contravvenire a un ordine. Anche se il suo signore non gli pareva particolarmente capace di intendere e volere in quel momento.

“Domani starò bene.” soffiò il Cardinale, chiudendo gli occhi, nel vano tentativo di calmarsi: “Ho solo bisogno di tempo...”

Il servo decise di fare quello che voleva il suo padrone e, in effetti, al mattino dopo, seppur con aria spettrale e occhio vitreo, Raffaele si alzò dal letto e, verso mezzogiorno, riuscì perfino a raggiungere i palazzi del papa, svolgendo i suoi compiti come sempre. Rispetto al suo solito, però, quel giorno il Cardinale cercò di non parlare con nessuno, scansando perfino un altro prelato che aveva intenzione di proporgli una rarissima statua antica per la sua collezione.

“Ho di meglio da pensare – aveva detto Sansoni Riario, senza nemmeno sollevare lo sguardo verso il suo interlocutore – affari di Stato e... E cose mie! Altro che statue e arte!”

 

Caterina si passò tra le dita la lettera mandata direttamente dal nuovo ambasciatore milanese nelle sue terre. Le annunciava che sarebbe arrivato il giorno dopo. Un messaggio molto breve, dalla grafia elegante, ma nulla di più.

La sera era scesa presto, quel 5 marzo e, mentre si cominciava a scivolare nella notte, nell'aria la donna poteva sentire una nota un po' più dolce, forse un primo preludio di primavera. Difficile dirlo, dato che solo quella mattina dal cielo era scesa ancora un'acqua pesante, più simile a una mezza nevicata che non a un temporale di mezza stagione.

La Contessa, in quel momento, era appoggiata a una delle colonne del patio del cortile d'addestramento, intenta a osservare il cielo scuro. Aveva un po' freddo, forse perché non aveva messo nulla, sopra all'abito leggero che aveva tenuto per tutto il giorno, ma non aveva alcuna voglia di spostarsi da lì.

Rimise al sicuro nel tascone la missiva di Orfeo e poi incrociò le braccia sul petto, chiudendo un momento gli occhi. Stava cercando di non pensare a nulla, di ritagliarsi qualche minuto di quiete assoluta, ma, evidentemente, la quiete non era cosa per lei.

“Madre.” Bianca era arrivata silenziosa, quasi come una gatta che si muovesse nel cuore della notte, e le si era avvinata tanto da poterle parlare sussurrando: “Il castellano vi stava aspettando nella sala dei banchetti per riferirvi una cosa...”

La Tigre aprì lentamente gli occhi, sospirando: “Sai dirmi tu che cosa o devo per forza andare da lui?”

La ragazza deglutì. Non era rimasta sorpresa dalla reazione della madre. Anche Cesare Feo si era atteso una reazione del genere, da parte della Contessa. Quel giorno, infatti, tutti l'avevano vista distratta, e anche il fatto che non si fosse presentata a cena, nemmeno a quell'ora tarda, aveva confermato i sospetti di tutti.

Probabilmente, se non fosse stato per il prossimo arrivo dell'ambasciatore di Milano e per i momenti difficili che richiedevano di continuo la sua presenza, quello sarebbe stato uno di quei giorni in cui la Sforza avrebbe preso un cavallo e la sua lancia, diretta verso i suoi boschi, per tornare forse solo il giorno dopo a sole già tramontato.

Non potendo allontanarsi fisicamente, l'aveva fatto solo con il pensiero, ma il castellano non voleva indisporla solo per una notizia per lui così marginale, così aveva dato preventivamente il permesso a Bianca di parlarne ella stessa con la madre. Fosse stato per lui, avrebbe atteso il giorno seguente, ma era stata la Contessa a ordinare che qualsiasi novità le venisse riferita repentinamente.

“Posso dirvelo io.” fece quindi la Riario.

Caterina annuì e si voltò verso di lei, per ascoltarla. La luce delle fiaccole a muro gettava sul bel viso della figlia un'ombra molto particolare. In quel momento, forse perché distratta dai ricordi del passato, alla Leonessa parve di trovarsi di nuovo di fronte a sua madre Lucrezia. Non fosse stato per le iridi di un blu molto più intenso e pieno rispetto a quelle di un azzurro glaciale e tagliente che erano state di sua nonna, in quel momento, la Riario avrebbe potuto passare benissimo per la Landriani.

Quel lampo ebbe uno strano effetto, sulla Contessa, ma riuscì comunque a non far trapelare la sua irrequietezza, concedendo: “Avanti, parla.”

“Ecco, madre, il castellano voleva farvi sapere che abbiamo avuto notizia della presenza di Giovanni da Casale tra Castrocaro e Modigliana. È lui, alla testa dei circa mille uomini del Duca di Milano.” spiegò Bianca.

Il cambiamento d'espressione sul viso della Sforza preoccupò un po' la ragazza. Aveva letto sul suo viso dapprima sorpresa, poi incertezza, rabbia, e infine una lieve confusione.

Con un cenno del capo, la donna ribatté: “Dite al castellano che ha fatto bene a farmelo sapere.”

Capendo che quello era un congedo, e che la Tigre non aveva intenzione di fare altre domande, la Riario fece una breve reverenza e se ne andò.

Con un respiro fondo, Caterina cercò di riordinare le idee. Quando aveva afferrato il senso delle parole di sua figlia, si era sentita travolgere da una serie di emozioni tra loro contrastanti.

Prima di tutto era rimasta spiazzata, nel sapere che suo zio avesse scelto Pirovano, come comandante di quel contingente. Si era convinta che lo avrebbe tenuto alla sua corte fino a guerra finita, al solo scopo di non vederselo rubare da lei. Pareva che il Moro fosse orgoglioso come un padre, di Giovanni da Casale e dunque, dopo averlo cresciuto a sue spese per anni, non avrebbe sopportato di vederlo passare alla nipote in nome dell'amore, o di qualche diavoleria del genere.

Poi si era sentita in difficoltà, perché non aveva capito fino in fondo il motivo di quella mossa strategica.

Infine, aveva provato un moto d'ira verso Pirovano che, pur essendo tanto vicino a lei, non solo non aveva fatto in modo di passare da Forlì, ma addirittura non si era nemmeno preso il disturbo di mandarle due righe per farle sapere del suo arrivo in Romagna.

Tutto ciò si era poi stemperato in una strana confusione. La Contessa avrebbe voluto far finta di nulla, ripagare quell'uomo con la sua stessa moneta, ma d'altro canto, si sentiva così profondamente sola da desiderare come non mai qualche ora in sua compagnia. Era uno dei pochi uomini capace di lenire un po' la voragine che aveva nel cuore.

Però, dettaglio non trascurabile, se si fosse saputo che lei, signora di Imola e Forlì, si era recata in piena notte al campo di Giovanni da Casale, avrebbe dato vita a un autentico vespaio.

Le voci su quel fatto si sarebbero sicuramente divise in due nette fazioni. Da un lato avrebbero voluto vedere in quella visita qualcosa di losco, magari un modo per aggirare il Duca di Milano, o il contatto per una congiura, o, chissà in che modo, un'evidenza della sua volontà di tradire i fiorentini. Dall'altro, poco, ma sicuro, avrebbero detto che era andata dal suo amante solo per passare la notte con lui, descrivendola come una povera donna sola e disperata, tanto sconsiderata da lasciare il suo Stato solo per elemosinare qualche ora d'amore.

La cosa che la feriva di più, era sapere che nella seconda delle ipotesi, i chiacchieroni non si sarebbero discostati poi troppo dalla verità.

E poi restava il fatto, tutt'altro che trascurabile, che Pirovano non le avesse fatto sapere del suo arrivo in Romagna. Forse non era troppo pessimista pensare che alla fine, malgrado tutto ciò che Caterina si era costruita nella sua mente, lui fosse più simile a lei di quanto sembrasse e che in tutto il tempo passato insieme, non l'avesse vista in altro modo se non come uno svago.

Battendo con rabbia il pugno chiuso contro la colonna, la Sforza si lasciò andare a uno scatto che le diede solo un sollievo illusorio e poi, non sopportando più il freddo che le lambiva la pelle del collo lasciata scoperta dall'abito leggero, si ritirò in stanza, facendosi portare una caraffa di vino scuro.

 

Andrea Bernardi ringraziò l'oste e si andò a sedere a tavola. Gli sembrava assurdo, dover soggiornare in una locanda a Bologna, che era la sua città, la città dove vivevano ancora i suoi fratelli, ma tant'era.

C'era pieno, come il giorno in cui era arrivato, e si riteneva sempre più fortunato ad aver trovato una camera, malgrado tutto.

Quando arrivò da mangiare, Andrea si scusò di nuovo con il locandiere, dicendo: “Perdonatemi ancora, messere, ma proprio non pensavo di fare tanto tardi. Sono stato trattenuto da alcuni affari di famiglia e...”

“Va bene così, non abbiate timore.” fece l'uomo, sorridendo: “Non siete l'unico ritardatario.” e indicò altri che stavano ancora mangiando e bevendo.

Un po' rincuorato per non essere l'unico a presentarsi al desco a quell'ora, il Novacula prese il cucchiaio e iniziò a divorare il minestrone che gli era stato servito. L'osteria era satura di odori, da quelli della cucina a quelli dei suoi avventori e la luce calda delle candele andava perdendosi nella nebbiolina che premeva contro il soffitto. Era l'inizio di marzo, ma quel calore ad Andrea ricordava tanto una tarda serata dell'inverno più profondo.

Assorto nei suoi pensieri, per un po' Bernardi non fece caso a quello che dicevano gli altri avventori della locanda, ma quando ebbe concluso il suo riesame di quella lunga giornata, cominciò a prestarvi orecchio.

Alla sua destra stavano discutendo di come Giovanni Bentivoglio si stesse rendendo ridicolo, a non rispondere alle offese della Tigre di Forlì con la forza. Alla sua sinistra, invece, stavano dibattendo su quanto fosse opportuno, per il signore di Bologna, chiedere alla signora di Imola e Forlì la restituzione di bagagli personali, scatenando così le ire di una donna così instabile da essere arrivata a far ammazzare Corbizzo Corbizzi 'primo uomo' di Castrocaro.

Alle sue spalle, poi, altri ridevano del Bantivoglio, additandolo come un sempliciotto, prendendo in giro Annibale, tanto quanto Giovanni, per essersi fatti fregare da una donna.

Al tavolo davanti al suo, infine, tre uomini si interrogavano su cosa ne avesse fatto, la Tigre di Forlì, dei bagagli di Annibale Bentivoglio e, poi, cosa ne avrebbe fatto di Astorre Manfredi, nipote del signore di Bologna, marito ufficiale di Bianca Riario e promessa vittima di Ottaviano Manfredi, sanguinario amanti della Leonessa di Romagna.

Con la testa che martellava per tutte quelle parole, Bernardi finì la sua caraffa di birra, sorbì finì all'ultimo cucchiaio di minestrone e poi, salutando l'oste, salì frettolosamente nella sua camera.

Era una cosa insopportabile. Era partito da Forlì per risolvere alcune incomprensioni nate coi suoi fratelli, era vero, ma era partito anche per potersi allontanare dalla Contessa per un po'. E, invece, da che era a Bologna sentiva parlare di lei più di quando non fosse a Forlì!

Indossando con rabbia il camicione da notte, si chiese se la sua signora avesse un'idea di quanto fiato si sprecava, fuori dalla sua città, per sparlare di lei. Probabilmente non le importava, come non le importavano tante altre cose.

Distrattamente, mentre spegneva con un soffio la candela sul comodino, il Novacula si trovò a chiedersi cosa stesse facendo in quel momento la Tigre.

“Che vuoi che stia facendo.” disse tra sé, borbottando: “O sarà fuori a caccia, come la belva feroce che è, pure se è notte, oppure sarà con...”

Non finì il pensiero, perché immaginare la Contessa con qualche uomo gli dava sempre troppo fastidio. Forse era lui a non capirla, o forse era lei a rompere troppo gli schemi sociali a cui tutti, perfino un capo di Stato, dovevano piegare la testa, ma in ogni caso, Bernardi aveva sempre visto di cattivo occhio quella sua fame, a maggior ragione ora, che permetteva ai suoi nemici di metterla a tratti in ridicolo e a tratti di demonizzarla.

Rigirandosi nel letto, Andrea cercò di calmarsi, ma gli sembrava di vederla davanti ai suoi occhi: il viso arrossato dal vino, i modi bruschi che si trasformavano in assalti esigenti, la voce che si faceva roca, mentre ordinava all'amante di turno cosa fare...

Affondando il viso nel cuscino, il Novacula si rese conto con dolore che, ancora adesso, come il giorno in cui l'aveva conosciuta, malgrado tutto quello che le aveva visto fare, malgrado tutti gli uomini che aveva avuto, ecco, perfino adesso la desiderava. Aveva sempre cercato di soffocare quell'aspetto del suo sentimento, aveva cercato di essere per lei un padre, un amico, un fratello, ma era stata alla fine la gelosia, a farlo cadere. Non era stato il non sentirsi gratificato come storiografo o l'essere escluso dalla vita di corte. Era stata solo la schiacciante consapevolezza di non poterla avere, in nessun modo.

Con il respiro pesante, il barbiere si rigirò ancora un paio di volte e poi, complice la birra e la stanchezza, riuscì finalmente a prendere sonno, per quanto addormentandosi furono incubi tremendi ad accoglierlo, e ciascuno di essi era popolati da donne bellissime e impossibili, che lo tenevano al seno, per poi gettarlo in mezzo ai rovi non appena un giovane aitante passava loro davanti.

 

Dopo aver saputo di Pirovano ed essersi chiusa in camera, Caterina, leggendo un vecchio libro che riportava stralci degli scritti di Marziale, aveva bevuto tutto il vino che le era stato portato.

Perso interesse per il latino, aveva cercato con urgenza i fogli su cui Giovanni aveva copiato le poesie carnascialesche di suo cugino Lorenzo il Magnifico. Dapprima, stesa sul letto che aveva condiviso con il suo terzo marito, si era solo persa nella forma così familiare delle lettere vergate dalla sua mano, ma poi, più il tempo passava e il vino si insinuava nella sua mente, più si era messa anche a seguire il significato di quel che leggeva.

I doppi sensi su cui il Magnifico aveva costruito tutte quelle poesie arrivavano alla donna quasi come una provocazione. Alla fine, stanca delle immagini che si costruiva, verso dopo verso, mise i fogli da parte e decise di non restare un minuto di più in quella camera.

Il suo corpo le stava chiedendo di andare da Giovanni da Casale, ma ormai aveva deciso che non l'avrebbe fatto. Dunque, per riuscire e non perdere la testa, doveva trovare un modo per anestetizzarsi.

Approfittando della rocca mezza addormentata, andò dritta e filata nelle cucine. Trovò solo una sguattera che dormiva in un angolo della dispensa. Non la volle svegliare: prese il vino che stava cercando e andò a sistemarsi sul tavolone, abbastanza lontana dalla ragazza da non disturbarla.

Cominciò a bere, in fretta, sperando che a quel modo i suoi nervi si addormentassero prima, ma lo stomaco troppo vuoto – quella sera, per non mescolarsi alla gente, aveva disertato la sala dei banchetti – stava cominciando a ribellarsi all'acidità di tutto quello che stava bevendo.

Così, con lentezza, tornò alla dispensa e prese anche un pezzo di formaggio. Nel farlo, svegliò la sguattera, che, spaventata, schizzò in piedi e se ne andò di corsa.

Caterina tornò al tavolo, ancora più nervosa. Non era nemmeno stata capace di prendere da mangiare senza ridestare quella giovane. Non era in grado di fare nulla di quello che voleva. Poteva solo cercare di resistere alla tentazione di andare da Giovanni da Casale, ecco l'unica soddisfazione che poteva togliersi quella notte.

Era nelle cucine da un po', forse due o tre ore, ed era passata con molta facilità a un liquore molto più forte del vino con cui aveva cercato di stordirsi fino a poco prima, quando sentì dei passi incerti avvicinarsi.

Non le piaceva farsi vedere in quello stato, perciò sperò vivamente che si trattasse di qualche servo di infimo rango, da poter scacciare con un paio di ordini, prima che potesse accorgersi di quanto la sua signora fosse ubriaca.

Invece, quando vide una testa coperta di riccioli lunghi e inanellati, scattò in piedi, sull'attenti, il pugnale che teneva nascosto sotto le vesti già in pugno.

Dovette mettere a fuoco, per rendersi conto che quello sulla porta era suo figlio Ottaviano. Colpa del vino, forse, ma per qualche istante aveva creduto di trovarsi dinnanzi il fantasma di Girolamo.

“Perdonatemi, non volevo disturbarvi.” disse il giovane uomo, restando però fisso sulla porta.

La Tigre non disse nulla. Poco prima che arrivasse il Riario, stava giocherellando con il nodo nuziale di Giovanni, e un pensiero molto grigio aveva preso posto nella sua testa. Il palesarsi di Ottaviano, in quel momento esatto, era stato, a ben pensarci, quasi una conferma di quello che stava pensando.

“Se Giovanni non fosse venuto in guerra con te...” prese a dire la donna, a voce molto bassa, vuotando il calice in cui aveva versato un forte liquore alle erbe che aveva distillato lei stessa.

Il primogenito della Leonessa deglutì, preso alla sprovvista da quell'incipit. Anche lui aveva alzato il gomito, ma non quanto la madre. Era stata una serata da dimenticare. Due postriboli su tre gli avevano chiuso le porte davanti al naso, perché aveva troppi arretrati da pagare, e solo nel terzo aveva trovato una donna con cui sfogarsi, ma aveva dovuto accontentarsi. Sentire nominare Giovanni Medici così, all'improvviso, era la goccia che rischiava di far traboccare il vaso.

“Cosa? Se non fosse venuto in guerra con me che sarebbe successo?” chiese Ottaviano, facendo la voce grossa, quasi desiderando che sua madre reagisse con violenza a quella provocazione: “Non sarebbe morto?”

“Non dico questo.” il tono apparentemente calmo della Contessa era per il Riario molto peggio di qualsiasi altra cosa.

Avrebbe preferito uno schiaffo, un pugno, anche una pugnalata. E invece la donna aveva rimesso il suo coltello al suo posto e si era risieduta.

“E allora cosa?” chiese il giovane, sulle spine.

“Se non fosse venuto in guerra con te, forse avremmo avuto ancora qualche mese per noi. Avrebbe potuto vedere suo figlio crescere ancora un po', magari l'avrebbe sentito dire le prime parole o l'avrebbe perfino visto muovere i suoi primi passi. Se fosse vissuto ancora qualche mese, io avrei potuto...” la voce della Tigre si ruppe, mentre nella sua mente proseguiva l'elenco pensando alle notti che avrebbero ancora potuto passare assieme, alle battute di caccia che avrebbero potuto improvvisare nei giorni più tranquilli, alle ore che avrebbero passato a leggere Catullo e poi Petrarca e il Decameron di Boccaccio...

Mentre parlava, aveva lasciato il tavolo, andandosi a parare proprio davanti al figlio. Era più alto di lei, ma, stando così curvo, schiacciato dal peso della sua stessa esistenza, aveva lo sguardo quasi all'altezza di quello della madre.

“Ma tu mi hai tolto anche questo.” concluse la donna, l'alito che puzzava di vino e liquore e gli occhi acquosi: “Non ti era bastato togliermi tutto il resto, hai dovuto strapparmi anche il poco tempo che avevo per stare con lui.”

Quell'accusa, per Ottaviano, era ingiusta e troppo pesante. Lui aveva apprezzato e accettato Giovanni quasi come fosse davvero un secondo padre. Se aveva cercato di averlo accanto a sé in guerra l'aveva fatto per paura, non certo per privare sua madre del marito.

“Non vi ho chiesto io di mandarlo in guerra con me.” si difese a quel punto il giovane, la gola che bruciava: “Dovevate impedirgli di partire.”

“Non avrei potuto.” scosse il capo la Contessa, mettendosi a guardare altrove: “Era troppo buono e troppo generoso, per non partire e salvarti la pelle. Era il suo unico difetto, quello di non capire quando non valeva la pena perdere tempo a cercare di salvare certe persone...”

“Ve lo ripeto, avreste dovuto...” fece Ottaviano, ma prima che potesse concludere la frase, uno schiaffo della madre lo zittì.

“Taci!” gridò la Tigre, colpendolo ancora: “Vattene! Tornatene da dove sei venuto! Torna al bordello da cui ti hanno cacciato e fammi il favore di restarci fino a domani!”

Il Riario aveva capito che la madre verteva in uno stato molto più serio di quel che gli era parso all'inizio, perciò, quando lei gli lanciò dietro qualche moneta, presa alla rinfusa dal tascone del suo abito, il giovane le prese tutte quante e corse via, ben deciso a fare esattamente quel che gli era stato ordinato di fare.

Rimasta sola, la Contessa si vergognò di quello che aveva fatto e di quello che aveva detto, ma ormai era tardi per provare a rimediare. Con Ottaviano aveva sempre sbagliato tutto. Non poteva pretendere di sistemare qualcosa, ora che lui aveva già quasi vent'anni.

Tornò al tavolo, bevve ancora un po' e infine si convinse che per vincere la cupa tristezza che l'aveva presa quella notte, poteva solo affidarsi a qualcuno che, nel bene e nel male, la conosceva più altri.

Scrisse con mano incerta un biglietto, lo diede a un servo che trovò in giro per la rocca, e andò nella sua tana, aspettando il ragazzo biondo del lupanare. Questi, quando arrivò, la trovò più alterata di come non l'avesse mai vista nemmeno nei suoi momenti peggiori e così non fece domande, non si lasciò scappare commenti, ma fece solo quello per cui era stato pagato, permettendosi, come unica licenza, di restare con lei anche dopo, tenendola stretta a sé, sotto alle coperte, fino a che il sole non si affacciò dalla finestra, risvegliando la Tigre da una delle sue notti più lunghe.

 
 
   
 
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