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Autore: Adeia Di Elferas    01/12/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il ragazzo del postribolo si rivestì velocemente, ma Caterina non gli mise fretta. Dopo che si erano risvegliati, avevano passato ancora un po' di tempo a letto e solo quando si era fatta l'ora di cominciare davvero la giornata, la Tigre aveva suggerito di alzarsi.

La lunga notte che aveva trascorso le aveva lasciato dei ricordi abbastanza confusi e poco piacevoli, eccezion fatta per l'ultima parentesi. Il vino e il liquore, con cui aveva ecceduto, le avevano fatto venire un mal di testa sordo, una sorta di sottofondo alla vaga nausea che le stringeva lo stomaco, e le immagini frammentarie che aveva del suo incontro con suo figlio Ottaviano contribuivano a farla sentire uno straccio.

“Volete controllare che non ci sia nessuno in corridoio? Non vorrei che la mia presenza vi mettesse in imbarazzo...” fece il ragazzo, quando sia lui sia la Contessa furono pronti.

“Non importa.” soffiò la donna, dando un ultimo sguardo al giovane e trovandolo non solo ancora molto attraente, ma anche familiare, quasi fosse una piccola presenza fissa nella sua vita, per quanto i loro incontri fossero saltuari: “Tanto, qui dentro, lo sanno tutti quello che faccio.”

Così, dopo appena un momento di esitazione, la Leonessa aprì la porta e uscì, seguita dal ragazzo.

Non c'era nessuno, anche se si sentivano già le voci di alcuni soldati nel cortile d'addestramento, e la Sforza ne fu sollevata. Per quanto avesse detto il contrario, un po' ancora le importava, avere un minimo di privatezza, in quello che faceva.

Arrivati in prossimità delle scale, Caterina fermò il giovane e gli disse: “Sai la strada per uscire. Se ti dovesse fermare qualcuno, devi dire che hai il mio permesso di essere in questa rocca a quest'ora, e che vengano a cercarmi nella stanza di mio figlio Giovannino, se non ci credono.”

Il ragazzo annuì, gli occhi chiari che la squadravano, come se volesse chiederle qualcosa, ma non osasse farlo. La Contessa ebbe il sospetto che le domande sottese a quello sguardo riguardassero lo stato pietoso in cui l'aveva trovata quella notte, perciò, pur di non dover ripensare alle ore da poco passate, si irrigidì e gli fece un cenno, indicando le scale.

“Avanti, sparisci.” gli disse, con tono quasi aggressivo: “Ti manderò a cercare, se mi servirai ancora.”

Rinunciando subito a indagare oltre, il giovane chinò il capo e, con il suo passo svelto e agile, scese i gradini al trotto, sparendo prima che la donna avesse il tempo di cambiare idea e trattenerlo ancora un po'.

Quando si voltò, per andare effettivamente nella camera del suo ultimo figlio, la Tigre si rese conto di essere osservata. A metà corridoio circa, Bianca era immobile, gli occhi blu puntati su di lei.

La madre capì immediatamente che la figlia aveva visto il ragazzo e aveva compreso benissimo perché fosse con lei, ma cercò di comportarsi come se quel fatto non la mettesse a disagio: “Mi stavi cercando?” le chiese, avvicinandolesi.

La Riario annuì e poi, fingendo come la madre di non provare alcun imbarazzo, le riferì: “Ero da Giovannino e la balia mi chiedeva se deve preparare anche lui per l'incontro con l'ambasciatore di Milano previsto per stamattina.”

“Certo che deve.” disse subito la donna, accigliandosi: “Ho specificato che tutti i miei figli dovranno essere presenti. Dobbiamo mostrarci uniti. Orfeo deve scrivere al Moro che tutti i miei figli sono al mio fianco, nessuno escluso.”

Bianca annuì e si lasciò scappare, come commento: “Sarà un'impresa convincere Bernardino a restare nella stessa stanza di Ottaviano, anche se per pochi minuti...”

Caterina capiva benissimo a cosa si riferisse. Anche solo di recente, quando avevano accolto Cesare di ritorno da Milano, aveva visto quanto il figlio di Giacomo rifuggisse anche solo la vista del fratello maggiore.

“Vedremo di fare in modo che ci sia anche lui.” sussurrò la donna e, con un breve sorriso di incoraggiamento, lasciò la figlia libera di tornare da Giovannino, mentre lei, seppur a malincuore, si dedicò alla ricerca di Bernardino.

Ci mise parecchio, e alla fine lo stanò nei locali della servitù, intento a battibeccare con un paio di bambini, figli di una delle serve. Quando vide la madre, il bambino tacque, ammonendo silenziosamente i due che erano con lui, dedicando loro uno sguardo che non aveva bisogno di parole.

La Tigre, prendendolo da parte, gli disse: “Più tardi arriverà in città un uomo importante, da Milano. Voglio che all'incontro ci siate sia tu sia i tuoi fratelli, siamo intesi?”

Il bambino la guardò per un istante, poi, con l'espressione corrucciata che più di tutte le sue altre espressioni ricordava quella del padre, puntò lo sguardo altrove.

Caterina sapeva che chiave usare, per aprire le difese del figlio e così, pur non avendone avuto fino a quel momento l'intenzione, decise di rabbonirlo proponendo: “Nell'attesa, ti andrebbe di venire con me al cantiere del Paradiso? Così mi dici anche tu cosa ne pensi...”

Bernardino, ingolosito dall'idea di passare qualche ora solo con la madre, annuì subito e la seguì senza fiatare, ben disposto ad accettare di stare poi per un po' nella stessa stanza con Ottaviano e Cesare. In fondo, era un sacrificio ragionevole, se in cambio poteva ottenere per un po' l'attenzione della Contessa.

Quando arrivò la notizia che Alessandro Orfeo era ormai a brevissima distanza dalle porte della città, Caterina portò tutti i suoi figli al palazzo, nel salone in cui aveva deciso di incontrarlo, e si mise in paziente attesa.

L'ambasciatore milanese rimase un po' deluso dal non essere stato accolto dalla Tigre direttamente al suo ingresso a Forlì, tuttavia era così stanco e provato dal viaggio che decise di non darvi troppo peso. Anche l'assenza di curiosità dei forlivesi lo colpì, ma, più si avvicinava con la sua piccola scorta al palazzo dei Riario, più si rendeva conto di che tipo di città fosse, quella in cui era capitato.

C'erano marcanti e c'erano botteghe aperte, c'erano donne per strada e vide più di un religioso camminare a passo svelto e capo chino, ma, sopra ogni altra cosa, notò la quantità non indifferente di soldati, facili da riconoscere perché armati e, spesso, con addosso i colori della Sforza.

Più che un paese, Forlì gli parve un accampamento di guerra, dunque pensò che fosse lecito non attendersi un comitato d'accoglienza degno di una città civile.

Il Primo Capitano delle Guardie chiese in modo fermo, per quanto cortese, a Orfeo di congedarsi dal suo seguito e lasciò entrare solo lui nel palazzo. Gli spiegò come raggiungere il salone, ma non diede altre spiegazioni, né gli fece strada.

Un po' infastidito per quel trattamento abbastanza rustico, Alessandro fece del suo meglio per arrivare a destinazione senza incidenti, e, quando varcò la soglia del salone che gli era stato indicato, si indispettì subito nel vedere come la Contessa Sforza non fosse ancora presente.

C'erano solo i suoi figli, e una balia che, con in braccio il più piccolo, era china vicino a uno dei bambini, intenta a dirgli qualcosa e sistemargli il giubetto. Era chiaro che non fosse nemmeno una delle cameriere più alte in rango, visto l'abito dal bordo rovinato e leggermente incrostato di malta.

Probabilmente era una serva abile, ma di sicuro non decorosa. Portava i capelli già bianchi sciolti, e non si era neppure degnata di voltarsi, seppur, di certo, avesse sentito Orfeo arrivare.

L'uomo sollevò un sopracciglio, guardando i figli della Tigre che aveva davanti e non salutandone nemmeno uno, neppure i più grandi che, a occhio e croce, dovevano avere vent'anni o quasi, aspettandosi che fossero loro a fare il primo passo.

Il bambino che la balia stava sistemando, guardando sopra la spalla della donna, fissava con intensità Alessandro, tanto che l'uomo, un po' a disagio per quello sguardo tanto profondo, tentò di sorridergli, nella speranza che, così facendo, lo lasciasse perdere.

Bernardino, invece, sentendosi preso in giro da quell'espressione fasulla, fece una smorfia e mostrò la lingua.

“Ma! Ma..!” sbottò a quel punto l'ambasciatore, permettendo a tutto il disappunto accumulato di saltare fuori in un colpo solo: “Ma come osi mancare così di rispetto a un uomo della mia importanza?! Non conoscono le buone maniere, i bambini, qui a Forlì?”

Solo a quel punto la serva – o meglio, quella che Orfeo aveva pensato fosse una serva – smise di mettere a posto il giubbetto del bambino e, raddrizzando la schiena, si voltò verso di lui.

Caterina diede Giovannino a Bianca, che accolse il fratellino tra le braccia con dolcezza, pur restando attenta a quello che faceva la madre, e anche tutti gli altri figli rimasero immobili per assistere meglio alla reazione della Contessa.

Solo in quel momento il milanese si rese conto dell'errore che aveva fatto. Malgrado tutte le descrizioni che si era fatto fare e gli avvertimenti del Moro, non aveva capito, anzi, non aveva nemmeno immaginato, che quella che sembrava una misera serva potesse essere la Sforza.

E invece ora la poteva scorgere la Tigre in tutta la sua possanza, ritta davanti ai suoi cucciolo, gli occhi verdi che lo passavano al fil di spada, quasi potesse sentire i suoi pensieri e riderne.

“Non li fanno più, gli uomini belli, a Milano?” chiese la donna, tagliente, attaccando Orfeo in modo scorretto, ma indubbiamente efficace.

L'uomo, tutt'altro che bello, si sentì punto sul vivo, e, diventando paonazzo, cercò di controllarsi e ribattere a tono: “Mi duole dirvi che a Milano hanno terminato la scorta di bellezza, sensualità e ardore il giorno in cui hanno creato il vostro caro messer Giovanni da Casale.”

La precisione della stoccata del diplomatico ammutolì la Leonessa per qualche istante. Alle sue spalle, nessuno dei suoi figli, nemmeno l'irrequieto Bernardino, osò muovere un muscolo.

“Ve lo ricordate ancora, oppure ve lo siete già dimenticato? Alto, bel fisico... Magari, nella quantità, non rimembrate con esattezza le sue fattezze...” proseguì Alessandro, al solo e unico scopo, ormai, di sfogare la frustrazione che aveva provato nell'arco di quella lunga mattina e nei giorni precedenti, che lo avevano costretto a un viaggio scomodissimo, pieno di rischi e senza la minima soddisfazione.

“E voi sareste qui per prendere accordi con me?” chiese a quel punto Caterina, con voce bassa e ferma, riuscendo a tenere a bada la rabbia che stava riaffiorando con prepotenza.

A quel punto Orfeo capì che, insistendo, avrebbe solo reso vana la sua spedizione e, vista la donna che si trovava dinnanzi, sarebbe stato costretto a ripartire per Milano seduta stante, senza avere nemmeno il tempo di mettere qualcosa nello stomaco o sedersi per qualche minuto.

Al contempo, la Sforza stava cercando di chiudere sul nascere quella sterile guerra con un personaggio inutile come quell'ambasciatore. Le serviva fare buon viso agli occhi di suo zio Ludovico e doveva stringere i denti e lasciar cadere le provocazioni, se voleva riuscire a raggranellare almeno un briciolo di sostegno da Milano.

“Forse abbiamo cominciato con le parole sbagliate.” prese a dire Alessandro, deglutendo rumorosamente.

'Hai iniziato tu, con le parole sbagliate' lo corresse mentalmente Caterina, ma senza aprir bocca.

“Quindi permettetemi di chiedere perdono a vostro figlio e anche a voi. Sono stanco del viaggio e questo deve avermi reso confuso.” disse rigidamente il milanese, accompagnando le scuse con un profondissimo inchino.

“Vi perdono – concesse la Tigre, tenendo a freno la lingua ancora una volta – e, dato che siete tanto provato dal viaggio, vi prego... Andate pure a riposare. Immagino che per oggi potrete trovare comodamente una camera per voi e per quelli che vi seguono in una locanda, dove so che troverete anche di che rifocillarvi a mezzogiorno, e con domani vi fornirò un alloggio di comodo. Parleremo questa sera a cena. Siete invitato alla rocca.”

Orfeo rimase con la lingua asciutta. Prima di tutto si era atteso di vedersi invitare fin da subito in uno dei palazzi di proprietà della Contessa e, secondariamente, aveva sperato di poter condurre quel primo incontro in modo più formale, così come il Duca gli aveva chiesto di fare.

Tuttavia, notando lo sguardo rigido della Sforza, riconoscendovi la stessa sorda ostinazione di Ludovico, non poté far altro che accettare: “Vi ringrazio infinitamente, mia signora. Per che ora devo recarmi alla rocca, questa sera?”

“Quando volete.” rispose in fretta la Contessa: “Nella sala dei banchetti troverete da mangiare a qualsiasi ora. Quando avrete messo a posto le ragioni dello stomaco, mandatemi a cercare e ci occuperemo di quelle di Stato.”

Alessandro sorrise di nuovo, sentendosi improvvisamente troppo esposto, con tutti che lo fissavano, chi con aperta ostilità, come il bambino che gli aveva fatto la linguaccia, chi con apatia, come il più grande e quello vestito da prete e chi ancora con un velo di malcelata ironia, come l'unica femmina presente nella schiera dei figli della Tigre.

“Potete andare.” concluse la donna, indicando la porta con un cenno del capo.

Indispettito da quel gesto, ma anche un po' in ansia per il modo in cui la Sforza non lo perdeva di vista un secondo, pensò che fosse meglio uscire il più in fretta possibile, senza lasciar trasparire la sua agitazione.

Solo in quel mentre, infatti, si era ricordato ciò di cui la Sforza era capace e tanto gli era bastato per perdere ogni voglia di aizzarla contro di sé.

Appena il diplomatico milanese si fu dileguato, Caterina commentò a denti stretti: “Mio zio Ludovico ha mandato il solito imbecille. Come se pensasse che basti, uno del genere, per trattare con me.”

Nessuno dei figli disse nulla e la Contessa, andando già verso la porta, li dichiarò liberi di tornare alle loro occupazioni.

Galeazzo fece un cenno a Bernardino: “Oggi il maestro d'armi mi ha promesso di insegnarmi a caricare un falconetto. Vuoi venire con me?”

Il piccolo Feo annuì, l'espressione scontrosa che si ammorbidiva, e subito dopo Sforzino si accodò ai due fratelli dicendo: “Se state tornando alla rocca, vengo con voi...”

Rimasti soli, i tre maggiori e Giovannino, che si stringeva al collo di Bianca con un'insistenza che gli guadagnò un'occhiataccia da parte di Cesare, che riteneva l'atteggiamento di quel bambino troppo possessivo, Ottaviano disse: “Se solo avessi potuto dire la mia...”

“Che avresti detto?” chiese la sorella, con un tono quasi di scherno, sollevando il sopracciglio e cominciando ad andare verso l'uscita.

“Che un ambasciatore non può permettersi di dire certe cose a nostra madre! E di contro – fece il Riario più vecchio – anche lei ha le sue colpe, perché è assurdo che possano riderle dietro perché non è capace di nascondere la sua tresca con un uomo come quel maledetto Pirovano!”

Cesare, che nelle settimane passate lontano dalla corte di Forlì, aveva apprezzato soprattutto la lontananza da quel genere di discorsi, accelerò il passo, lasciando Bianca e Ottaviano a battibeccare da soli.

Giovannino iniziava a dare segni di inquietudine, e, mentre scendevano le scale, la Riario disse al fratello maggiore, decisa a sedare in fretta le tensioni, che, come sempre, avevano sul piccolo un effetto deleterio molto evidente: “Meglio che l'attacchino perché è riuscita a farsi amare da un uomo di valore come Giovanni da Casale, piuttosto che l'attacchino perché ha un figlio incapace come te!”

Ottaviano masticò l'aria per qualche istante, ma poi, arrivati all'ingresso del palazzo che un tempo era stato la loro casa, sollevò una mano e, con uno sguardo di rimprovero alla sorella e uno di scarsa sopportazione a Giovannino, salutò dicendo: “Vado a farmi gli affari miei, tu torna a fare la balia. È il massimo che possa fare, una donna.”

Bianca inghiottì la risposta a tono che le era passata per la mente, ma preferì lasciar perdere e, il fratellino stretto al petto, si avviò per strada a passo svelto, desiderosa di tornare presto a Ravaldino.

 

Giovanni Antonio Boltraffio era arrivato davanti alla porta della camera di Isabella d'Aragona incontrando appena due guardie. La corte vecchia, vicinissima al Duomo, sembrava, come sempre un piccolo mondo a sé, immerso in una calma quasi spettrale.

L'uomo, di trentadue anni, ogni volta che si recava dalla sua committente e, ormai, amica Isabella, aveva la sensazione di immergersi in un universo completamente differente da ciò che era Milano.

Tra quelle stanze pressoché deserte e silenziose si respirava una pace strana, quasi cimiteriale, nulla a che vedere con la confusione permanente delle trafficate strade della città, né con la caotica massa di cortigiani e intellettuali che era la corte del Moro al palazzo di Porta Giovia.

“Entrate pure.” la voce dell'Aragona arrivò un po' incerta alle orecchie del pittore, ma egli entrò comunque, come gli era stato detto di fare.

Isabella era all'inginocchiatoio, le mani giunte, gli occhi serrati, e le guance rigate da qualche lacrima: “Un momento solo, vi prego, devo finire le mie preghiere.”

Giovanni Antonio annuì, senza profferir parola, mettendosi in un angolo della stanza, in attesa. Le figlie della Duchessa – lui la chiamava così nella sua mente, benché sapesse che quel titolo le era stato strappato da anni – non c'erano. Probabilmente erano nella stanza del ricamo in quella delle letture. L'Aragona curava personalmente la loro educazione, ma a quell'ora del pomeriggio era probabile che le avesse lasciate libere.

L'uomo si perse un momento a osservare la donna che aveva davanti. I capelli lunghi e di un rosso stupendo erano raccolti e coperti da una velina nera. Il viso era smagrito, pallido, sofferente, e così il suo corpo, un tempo così florido e attraente, adesso era scarno, avvolto in un abito scuro che la mortificava quasi fosse una suora penitente.

Quando finalmente ebbe finito le sue silenziose orazioni, Isabella fece il segno della croce e, sollevando lo sguardo per un solo istante verso il piccolo crocifisso appeso al muro, disse al suo amico: “Come mai siete qui? Non vi ho chiesto altre commissioni...”

“Sono qui per parlarvi di quello che sta succedendo alla corte. Se il Moro lo sapesse, farei una brutta fine, ma la mia coscienza mi impone di parlarvene.” disse Boltraffio: “Se per caso il mio maestro, Leonardo, dovesse mai chiedervelo, però, io sono stato qui solo perché mi avevate chiesto un'immagine sacra da aggiungere alla vostra raccolta.”

Da quando era stata sistemata alla vecchia corta, a Isabella era stata accordata una maggiore libertà, rispetto a prima. Poteva uscire più spesso e poteva disporre di una discreta somma di denaro, a patto che la investisse solo in stoffe o in opere d'arte, preferibilmente arte sacra.

Così, sia per avere qualche cosa a cui pensare, sia per avere la scusa di parlare con qualcuno, la donna aveva cominciato a commissionare qualche piccolo quadro e altre cose di poco conto e Giovanni Antonio era diventato in fretta un suo amico, oltre che un artista al suo soldo.

“È successo qualcosa a mio figlio Francesco?” domandò subito l'Aragona, temendo sempre di sentirsi dire, un giorno o l'altro, che il suo unico figlio maschio, l'erede di suo marito Gian Galeazzo, fosse morto.

“No, no, direi che vostro figlio sta bene.” rispose il pittore, pensando come non si parlasse più del povero Francesco, relegato al castello di Pavia come un carcerato: “Non è della sua salute che sono venuto a parlarvi, ma della salute del Ducato.”

“Che intendete?” fece allora Isabella, andando a chiudere la porta, per precauzione, e poi avvicinandosi a lui e fissandolo con i suoi occhi un po' arrossati per il silenzioso pianto che aveva accompagnato le sue preghiere.

Boltraffio sospirò e si apprestò a spiegarle tutto quello che aveva origliato nelle ultime settimane a corte. Le spiegò le mosse fatte dai francesi, l'apparente panico che serpeggiava tra i consiglieri più stretti del Duca e, anche, la significativa distanza che Firenze e gli altri alleati di Milano stavano mettendo tra sé e Ludovico.

“Credete che lo Stato sia a rischio?” chiese l'Aragona, dopo aver sentito tutto.

L'uomo deglutì e rispose: “Io sono solo un uomo che dipinge, mia signora. Mi sono limitato ad ascoltare e ho capito che la situazione è grave, ma nulla più di questo.”

“Vi ringrazio. Siete un amico prezioso.” fece Isabella, prendendo una mano dell'artista, calda e grande, tra le sue, esili e gelide.

Trattenne Giovanni Antonio ancora per qualche minuto, facendo domande più precise rispetto a certi dettagli, e poi, quando una delle guardie arrivò a controllare, forse insospettita dalla porta chiusa, fece finta di niente, cambiando di colpo discorso.

“Un altro San Sebastiano adolescente sarebbe meraviglioso... Vedete cosa riuscite a fare. L'ultimo somigliava così tanto al mio povero marito che non posso quasi guardarlo, senza provare una forte malinconia...” stava dicendo l'Aragona, quando il soldato aprì la porta.

Boltraffio chinò il capo e sussurrò: “Farò del mio meglio, mia signora.”

“Tornate tra qualche giorno, per dirmi come procede il lavoro.” sorrise la donna, facendo come se la guardia non fosse nemmeno presente.

Congedato il pittore, la napoletana attese che anche la guardia se ne andasse e poi tornò all'inginocchiatoio. Le mani strette l'una nell'altra, la testa che lavorava senza sosta, analizzando ciò che le era stato riferito.

Era forse il momento di scappare. Cercare di tornare a Napoli. Se l'avesse fatto, però, che ne sarebbe stato di suo figlio? Francesco non poteva scappare dal castello di Pavia... Era appena un bambino di otto anni, era impensabile sperare che riuscisse a fuggire e raggiungerla...

L'alternativa sarebbe stata fomentare Napoli. Forse, adesso che gli Aragona erano imparentati perfino con il papa, Isabella poteva sperare di convincerli a muovere guerra a Milano, sfruttando il momento di debolezza, e rimettere a capo del Ducato suo figlio Francesco, con lei come reggente.

Ci ragionò sopra fin quasi a sera, ma non trovò una soluzione che fosse soddisfacente. L'unica cosa che poteva fare era aspettare.

Quando le sue due figlie arrivarono in camera, per raccontarle quanto avevano fatto nelle ore di libertà che aveva concesso loro, Isabella non sentì nemmeno una parola. Stava pensando al passato, a quando aveva avuto l'occasione di scappare, assieme a Bona di Savoia. Se avesse deciso di rischiare, forse si sarebbe risparmiata tanto dolore inutile.

Guardò le due bambine, di cinque e sei anni, e, sorprendendole un po', le strinse a sé entrambe, sentendosi in colpa, per l'infanzia a cui le stava costringendo. Il suo cuore si incrinò, pensando a Francesco, solo a Pavia, lontano da lei.

Avrebbe dovuto davvero scappare, quando ne aveva avuto l'occasione, anche a costo di mettere a repentaglio la propria vita. Stava per partorire, lo ricordava benissimo, e quello era stato il motivo principale per cui non aveva seguito sua suocera.

Restando, perdendo una figlia in un modo orribile, combattendo una silenziosa guerra contro sua cugina Beatrice che, anche da morta, stringeva le catene attorno ai suoi polsi, Isabella aveva giurato a se stessa di non provare mai più a scappare, nemmeno con il pensiero.

Lasciando le due figlie, fece un sorriso triste, rendendosi conto che non aveva scelta. Doveva restare a Milano finché poteva e cercare di ridare ai suoi figli la dignità che Ludovico Sforza aveva tolto loro.

“Qualsiasi cosa accadrà – disse a Bona e Ippolita – sappiate che vi ho sempre amate.”

Per quanto abituate da anni alla tetraggine della vita da recluse, le due piccole avvertirono qualcosa di strano, nella voce mesta della madre e se ne spaventarono.

Così l'Aragona soggiunse, cercando di suonare più gioviale: “Andiamo, figlie mie, la cena sarà quasi pronta. Non avete fame? Dovete mangiare, dovete essere forti. Qualsiasi cosa accada, dovete sempre esserlo.”

Lo spettro della piccola Bianca, morta letteralmente di fame tra le sue braccia, le passò davanti agli occhi come un monito e, forse, qualcosa balenò anche nei ricordi delle due bambine, perché entrambe annuirono con una serietà quasi angosciante, per la loro tenera età.

 
 
   
 
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