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Autore: Adeia Di Elferas    03/12/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Riferite quindi al vostro signore, il Duca di Milano – riprese Caterina, versando un po' di liquore all'ambasciatore – che io, come tutti i miei figli, confido in lui e sarei pronta a morire, piuttosto che tradire la sua fiducia. E confido soprattutto sul fatto di poter contare su di lui, in caso di fato avverso e di accidenti della sorte. E, in fondo, credo che sia un mio diritto, dato che abbiamo lo stesso sangue.”

Orfeo accettò il liquore, speziato e troppo forte, per i suoi gusti, e annuì in silenzio. Era chiuso da ore, ormai, con la Sforza in quello che sembrava uno studiolo da amministratore, forse del castellano della rocca, ma non aveva ancora ottenuto nulla di diverso se non quelle infinite frasi che sapevano più di pantomima che non di reale tentativo di contatto.

Da parte sua, aveva riferito per filo e per segno tutto ciò che il Moro gli aveva chiesto di mettere in chiaro, specialmente in merito alla necessità, a guerra quasi finita, di andare d'accordo e, in vista di possibili guerre future – Alessandro si era ben guardato, come da ordini, di insistere troppo sui sospetti verso la Francia – di rinsaldare il loro legame familiare.

“Mi spiace solamente – fece la Sforza dopo qualche secondo, usando un tono molto più colloquiale, il piccolo calice di liquore tra le dita e lo sguardo che indugiava verso la finestra oltre la quale si stendeva una notte fredda e molto buia – che gli affari di mio zio gli impediscano di aiutarmi con mio figlio.”

“Che intendete?” chiese Orfeo, non capendo a quale dei tanti figli si stesse riferendo di preciso.

La donna, studiatamente, fece un mezzo sbuffo, agitando la mano e alzandosi dalla scrivania: “Oh, lasciate stare... Non dovrei lamentarmi con un uomo della vostra levature di queste cose da donne...”

“Vi prego, invece, di parlar chiaro. Se sono stato mandato qui è per...” Orfeo si morse la lingua appena in tempo.

Stava per dire 'per sapere tutto delle vostre intenzioni'. Non era abituato a bere, e la Contessa sembrava averlo capito. Gli aveva versato un bicchierino dopo l'altro, facendolo in un modo che, in caso di suo rifiuto, lei sarebbe passata da padrona di casa offesa e lui da ospite villano e ingrato.

“Per aiutarvi.” rimediò dopo una breve esitazione il milanese.

Caterina sapeva benissimo che il diplomatico era stato a un passo dal tradirsi. Più lo guardava, più lo trovava brutto e, più ci parlava, più lo scopriva antipatico. Ma aveva per gli affari di Stato aveva fatto sacrifici anche peggiori, di scambiare qualche parola con un uomo che non sopportava, e dunque proseguì nella sua recita.

Abbozzando un sorriso, scosse la testa e, andando a mettersi vicino alla finestra, lontana tanto dal camino, quanto dalle candele, in un punto quindi abbastanza scuro dello studiolo, la donna sospirò affettatamente: “Sono una povera vedova con sette figli a carico. Galeazzo, poverino, non è il primogenito, né ha vocazione per la religione o per le lettere, tacciamo per gli affari. Sa solo usare la spada e andare a cavallo. Vorrei saperlo sistemato e per questo avevo provato a chiedere a mio zio un aiuto, ma...”

Orfeo si passò la lingua sulle labbra, mentre lasciava la sua sedia, per non dare le spalle alla Tigre.

Non la vedeva bene, con quella luce e, nell'alzarsi, si rese conto che il liquore gli aveva fatto perdere un po' anche il senso dell'equilibrio.

Tenendosi allo schienale della sedia, disse: “Vedete, mia signora, il Duca avrebbe voluto accettare, ma voi capite che in tempo di guerra è un impegno non da poco, seguire un ragazzo giovane quanto vostro figlio Galeazzo...”

“Certo, certo, lo capisco benissimo.” disse la Contessa, vuotando il suo calice e riavvicinandosi alla scrivania per appoggiarlo, andando quasi a sfiorare l'ambasciatore, nel farlo: “Ma vedete... Dovete capire anche me... Mio zio non può badare a lui, però il Doge mi offre una condotta proprio per Galeazzo e a un ingaggio talmente alto che... Ecco, se non fossi una fedelissima e affezionatissima nipote del Duca di Milano, non ci avrei pensato un solo istante, ad accettare.”

Orfeo cominciò a sudare freddo, e non solo per le parole della Leonessa. Con il suo movimento sinuoso, tanto vicino che lui era riuscito a sentire il calore del suo corpo, l'aveva messo in difficoltà.

Un po' il liquore, un po' l'avvenenza della donna con cui stava discutendo, confondevano il milanese che, la bocca secca, chiese: “Il Doge vi ha domandato vostro figlio per una condotta?”

“Precisamente.” mentì Caterina, esibendosi poi in una breve risata: “Ma come vi ho detto, sono solo una donna e una fedele serva di Ludovico, mio zio. Per il momento non posso che aspettare che tra i suoi alti pensieri, esca lo spazio per pensare anche a mio figlio.”

Orfeo stava per fare qualche altra domanda, più per capire a quanto ammontasse la proposta del Doge e per scoprire se la Sforza avesse deciso di non accettare per sempre o solo per il momento, ma la donna non gliene diede il tempo.

“Si è fatto veramente tardi, sarete stanco, sono stata un'incosciente a tenervi sveglio fino a quest'ora...” fece lei, sfiorandogli il braccio con la mano: “Vi prego, ritiratevi pure, parleremo ancora nei prossimi giorni, dato che mi avete detto che mio zio preferisce che mi rivolga a voi, piuttosto che a lui per lettera. Ah, ditegli anche che mi piacerebbe poterlo rivedere. Tornerei volentieri a Milano solo per porgergli i miei omaggi. In fondo, non l'ho più visto, da prima che diventasse Duca al posto di mio fratello.”

Nell'aggiungere quelle ultime parole, gli occhi della donna si fecero appena più freddi, abbastanza, comunque, da mettere ancora più in allarme Orfeo, che, sentendosi sempre più in difetto, annuì distrattamente, farfugliando: “Certo, certo... Io... Io riferirò le vostre parole al Duca...”

La Tigre, a quel punto, lo scortò fin fuori dallo studiolo, ripromettendo che il giorno dopo gli avrebbe trovato un alloggio degno del suo rango, e così Alessandro poté solo ringraziare e tornarsene alla locanda in cui aveva trovato da dormire.

Malgrado la testa pesante e un po' confusa per il liquore e per l'incontro a tu per tu avuto con la Contessa – in tanti anni da diplomatico non si era mai imbattuto in una donna a capo di uno Stato e forse era quello il dettaglio che l'aveva tanto spiazzato – l'ambasciatore decise di scrivere immediatamente al Moro, come aveva promesso di fare.

'Questa matina sono gionto qui, dove sono stato racolto humanamente dala illustre Madonna Contessa et signori suoi figlioli' cominciò a scrivere, per poi proseguire rassicurando lo Sforza del fatto che lui avesse toccato tutti i punti che gli era stato chiesto di sfiorare per primi.

Restò indeciso per qualche minuto, ma poi, passandosi una mano sugli occhi stanchi, decisa anche di aggiungere l'ultima parte della sua conversazione più privata con la Tigre e così scrisse: 'Mi mottegiò doppoi cossi sorridendo perho del caso del signore Galeazo quello medesimo che l'ha scritto a Vostra Celsitudine che da Venetiani gli era facto offerta grande de darli soldo, et che quella doveria contentarsi che l'havesse questo principio; perchè in omni evento lei non mancharia del debito officio, como l'ha facto fin qui.'

Non sapeva dire nemmeno lui, se le parole della Sforza rispondessero o meno al vero, ma, se c'era anche solo il dubbio che quella donna potesse mandare al soldo del Doge uno dei suoi figli, di certo il Duca doveva saperlo al più presto.

Sperando che i giorni venturi si dimostrassero con lui più clementi, Orfeo posò la penna, lasciando che la missiva si asciugasse per bene, poi la chiuse, e mandò a chiamare uno degli uomini che l'avevano scortato fin lì, affinché facesse partire quel messaggio all'istante e in modo sicuro.

 

“Non potete tenermi qui in eterno!” gridò Dionigi Naldi, dando un colpo alla spessa porta di legno della sua cella: “Sono innocente! Non so nemmeno perché sono qui!”

“Smettila di gridare.” lo redarguì uno dei suoi carcerieri, guardandolo attraverso la piccola grata che gli permetteva di tenerlo sempre sotto controllo: “Non l'hai ancora capito che fa comodo a tutti, che tu sia prigioniero qui a Urbino?”

Il Capitano non lo voleva ascoltare. Non aveva ancora avuto degne spiegazioni della sua situazione e si era reso conto di essere comunque un prigioniero di rango, dato che non l'avevano né torturato né costretto alla fame. L'isolamento, però, lo stava uccidendo. Non capire come mai l'avessero arrestato davvero – perché l'omicidio di Corbizzo Corbizzi gli pareva un pretesto tutt'altro che realistico perfino per i suoi accusatori – gli toglieva il sonno e non sapere se la Tigre di Forlì stesse o meno cercando di tirarlo fuori gli toglieva anche l'appetito.

Da giorni, in pratica, non chiudeva occhi e non mangiava altro se non qualche cucchiaiata di minestra, lasciando che il resto se lo prendessero i topi. Se fosse rimasto chiuso lì dentro ancora qualche settimana, non ne sarebbe uscito vivo.

“La tua Leonessa ha altri leoni a cui pensare...” ridacchiò il carceriere, guardandolo con dileggio dall'alto al basso: “Dicono che passi le sue giornate e le sue notti con quel faentino che vuole prendere il posto di Astorre Manfredi. È lui che ha ucciso Corbizzi, ma anche alla Sforza fa comodo dare la colpa a te...”

Dionigi si accigliò. Quel discorso avrebbe anche avuto senso, se solo avesse saputo la Contessa capace di fare una cosa del genere a un uomo che, come lui, l'aveva sempre servita con fedeltà. La sua signora aveva tantissimi difetti, ma quando si trattava di lealtà nei confronti di chi combatteva con lei, Naldi era sicuro che non avesse alcuna macchia sulla coscienza.

“Tu menti.” disse allora al carceriere e, andandosi a sedere tranquillo in un angolo umido, come se si fosse placato di colpo, sussurrò: “La Tigre mi tirerà fuori di qui. Vedrai se non dico il vero. E adesso portami da mangiare. Ho fame.”

Il soldato lasciò la grata da cui lo stava guardando, ma il fatto che dopo nemmeno mezz'ora fosse di ritorno con la razione di cibo di quel giorno confermò a Dionigi di essere un sorvegliato speciale, ma, almeno per il momento, non un condannato a morte. Tanto bastò a dargli la forza di riempirsi lo stomaco, anche se non la serenità necessaria per addormentarsi una volta scesa la sera.

 

“Ma siete sicuri di quello che state dicendo?” chiese Caterina, guardando l'Oliva con occhio severo.

Si fidava della soffiate delle sue spie, ma quella volta le pareva qualcosa di tanto enorme da sembrare più una chiacchiera infondata che la verità.

“Sì, mia signora. Quello che non sono riusciti a capire è se si tratta di un'azione diretta contro di voi o in generale contro tutti i signori della Romagna.” spiegò il notaio, schiarendosi la voce.

I Capitani e i Consiglieri presenti rimasero in silenzio, tutti con lo sguardo puntato alla Sforza, in attesa di sentire come avrebbe reagito a quella novità.

Secondo gli uomini dell'Oliva, infatti, a Roma si stava tenendo, proprio in quei giorni, un dibattuto processo che aveva come soggetto proprio la Tigre. Pareva che il papa stesso, per tramite del camerlengo, avesse trovato finalmente una scusa valida per sollevare sia lei sia i suoi figli dal governo tanto di Forlì, quanto di Imola.

“Il camerlengo è mio cugino, il Cardinale Sansoni Riario. Non può certo aver...” cominciò a dire la Contessa, sforzandosi di non abbandonarsi all'ira, ma di restare lucida e capire esattamente quanto la sua posizione fosse compromessa.

“Per questo processo il camerlengo ordinato pare sia in via ufficiale l'Arcivescono Pietro, reginense.” la corresse l'Oliva.

“Un processo del genere, condotto in contumacia è un affronto!” esordì a quel punto Luffo Numai, che non era affatto solito a quel genere di puntate: “Rodrigo Borja si fa chiamare papa, ma altri non è se non un criminale! Come può avviare un processo del genere, avendo già deciso la condanna ancor prima di aprire i lavori?!”

Caterina la fece calmare con un gesto della mano e poi, posando una mano sulla mappa d'Italia, che stava come sempre spiegata sul tavolone nel centro della stanza, sospirò e disse: “Se tutto quello che stiamo dicendo corrisponde a verità, dobbiamo cercare di capire al più presto cos'ha esattamente in testa il papa. Vuole soldi? Vuole soldati? Vuole fisicamente le mie città?”

“Mia signora – fece a quel punto il Capitano Mongardini, gonfiando il petto – qualsiasi cosa voglia quel cane di un Borja, sappiate che io sarò sempre al vostro fianco.”

Anche gli altri uomini d'armi presenti nella sala si misero a esprimere la loro imperitura fedeltà e la Sforza ne fu molto felice, anche se, in quel momento, non trovava che una risposta armata fosse realmente una soluzione alla sua portata.

“Intanto – disse, puntando il dito verso la città di Faenza – come molti di voi già sanno, finalmente Castagnino ha accettato la mia richiesta di lasciar passare almeno i carri che trasportano generi alimentari. Non lasceranno passare armi o nient'altro che abbia a che fare con il nostro sforzo bellico, ma già riempire le dispense è fondamentale per resistere a una guerra. Per il resto voglio che aumentiate la paga della truppa. Ci servono soldati leali e una buona paga ha la dote innegabile di risvegliare le coscienze. E per il resto continueremo a prepararci e quando avremo capito che cosa ha di preciso deciso di fare il papa, allora prenderemo le nostre contromisure.”

Mentre il consesso di armigeri e amministratori si scioglieva, il castellano si avvicinò a Caterina e le chiese, con un filo di voce: “Volete anche richiamare i nostri uomini dal fronte?”

“Per il momento no.” rispose la donna: “Ho buone probabilità di riavere a breve Dionigi Naldi e tanto ci basterà, per il momento. Devo riorganizzare la reggenza delle rocche e...”

Il modo in cui Cesare Feo si bloccò, nel sentire quelle ultime parole fece accigliare la Tigre, che capì solo in un secondo momento.

Avvicinandosi alla porta, un po' coperta dal vociare degli altri che stavano uscendo, la Sforza gli disse: “Non temete, Cesare. Non vi toglierò il ruolo di castellano di Ravaldino, a meno che non siate voi a chiedermelo.”

Il Feo raddrizzò le spalle e assicurò: “Io vi starò sempre vicino, mia signora. Ho giurato di farlo e lo devo a mio nipote Giacomo.”

Nell'udire il nome del suo secondo marito, il viso della Leonessa si oscurò, ma la sua voce suonò ancora abbastanza neutra, quando ribatté: “Sapevo di poter contare su di voi. Siete un uomo di valore.”

Cesare Riario aveva aspettate pazientemente fuori dalla sala della guerra, nella speranza che sua madre, colta di sorpresa, ascoltasse quello che aveva da dirle. Quando la vide uscire, in coda alla fila di Capitani e Consiglieri, spalla a spalla con il castellano, fece un passo avanti.

La madre vide subito il secondogenito e da come lui la fissava capì che fosse lì per un motivo ben preciso. Così, scusandosi con il Feo, gli si avvicinò. Lasciò che la piccola folla che aveva preso parte alla riunione si disperdesse lungo il corridoio e per le scale e poi chiese al ragazzo che volesse.

Con il naso lungo che vibrava appena, Cesare le disse: “Mi ha scritto nostro cugino Raffaele.”

Dato l'argomento appena discusso in Consiglio, Caterina si fece tutta orecchie, credendo che si trattasse di qualche notizia confidenziale circa il processo.

Tuttavia il suo interesse sfumò subito quando il Riario riprese: “Mi ha detto che ci sono buone probabilità che io possa raggiungerlo a Roma già in aprile e che a maggio possa prendere possesso del palazzo apostolico a Pisa.”

“Bene. Anche se speravo potessi partire prima.” sbuffò la donna, accennando ad andarsene.

“Aspettate.” Cesare, per frenare la madre, l'afferrò per un braccio.

Sentire le dita lunghe e secche del figlio che stringevano per tenerla ferma, ricordò alla Sforza il modo imperioso e prepotente con cui Girolamo aveva cercato di bloccarla per anni. Malgrado, però, un piccolo momento in cui dovette dar fondo a tutta la sua forza d'animo per non scaraventare il figlio, che le aveva riportato alla mente sensazioni che avrebbe voluto scordare per sempre, la Contessa riuscì a mantenersi tranquilla e, seppur scocciata, a girarsi di nuovo verso di lui per domandare che volesse.

“Nostro cugino Raffaele mi ha detto che potrò far affrescare i quattro quadranti dell'ingresso del palazzo e mi ha suggerito di mandare fin da ora il mio ordine, affinché comincino a lavorarsi, in modo che sia tutto pronto per il mio arrivo.” spiegò il Riario, le labbra sottili che si muovevano appena, mentre lasciava scorrere le parole.

“Non vedo come questo possa interessarmi. Adesso scusa, ma ho molti impegni e...” tentò di nuovo di svicolare Caterina.

“Vorrei il vostro permesso, prima di mandare l'ordine a Pisa.” disse in fretta Cesare.

Capendo che non l'avrebbe lasciata in pace, se non gli avesse prestato orecchio, la donna sospirò e gli disse: “Avanti, dimmi che vuoi farci dipingere.”

“In un riquadro vorrei mettere lo stemma personale di nostro cugino Raffaele, che ha accettato di lasciarmi la sua carica. Nell'altro vorrei far dipingere lo stemma degli Sforza Riario, e poi...” fece il ragazzo, ma la madre lo stava già zittendo.

“Va benissimo, tutto quello che vuoi.” e tentò ancora una volta di sottrarglisi.

Non lo sopportava, il modo in cui parlava, inespressivo, il modo in cui teneva le mani strette attorno al suo crocifisso, la sua voce... Più lo guardava e lo ascoltava più si dimenticava del bambino dolce che era stato e più si ricordava del cadavere smembrato di Giacomo, morto a ventiquattro anni anche per volontà di Cesare.

Nel vedere la madre allontanarsi di nuovo, il Riario non ce la fece più ed esplose, alzando la voce, seppur senza usare un tono particolarmente intimidatorio: “Dovete ascoltarmi! Non mi avete ascoltato per più di diciotto anni, ma adesso vi prego di farlo!”

Siccome in fondo al corridoio un paio di servi aveva sollevato il capo, attirati dalla voce di Cesare, che si era dimostrata molto più tonante del previsto, Caterina lo ammonì con lo sguardo, ma questa volta rimase davvero in ascolto.

“In un altro riquadro – riprese il giovane, senza mollare un momento gli occhi verdi della madre, per paura che bastasse perdere il contatto visivo per farla sfuggire di nuovo – voglio far raffigurare uno scudo imperiale con lo stemma del Duca di Milano, per rispetto al vostro sangue e alla terra da cui venite. E nell'ultimo voglio, ed è per questo che ho bisogno del vostro permesso, far inserire lo stemma di messer Giovanni Medici, che è stato un uomo che ho stimato moltissimo, e che per me è stato come un secondo padre.”

Caterina non sapeva cosa dire in risposta a quella richiesta. Mentre il figlio diceva il nome di Giovanni, forse per suggestione, la donna aveva rivisto nel suo viso i tratti dolci di quando era piccolo, di quanto, al contrario del fratello Ottaviano, ne cercava il calore e l'affetto con gentilezza, senza imporlesi e senza rispondere con rancore alla sua incapacità di amarlo.

“Ho il vostro permesso, madre?” chiese Cesare, distogliendo infine lo sguardo, un nodo che gli stringeva la gola, mentre, nel guardare la Tigre, gli tornavano in mente alcuni tra i momenti più belli e più brutti della sua vita.

“Sì.” sussurrò la Contessa: “Giovanni ne sarebbe stato orgoglioso.”

“E per lo stemma del Duca?” indagò meglio il Riario.

“Trovo che potrebbe tornare utile. Sempre meglio ricordare al mondo che per metà sei uno Sforza anche tu.” convenne la Leonessa, passandosi poi una mano sulle labbra, pensosa: “Anche se...” ma non fece in tempo a finire, perché, un po' affannato, il castellano stava risalendo dalle scale velocemente, andando poi verso di lei.

“Mia signora, Ottaviano Manfredi è arrivato alle porte della città e chiede di poter essere ricevuto da voi.” le disse, riprendendo fiato a fatica.

Nel sentire dell'arrivo del faentino, Caterina si accigliò, ma ordinò prontamente: “Date ordine di farlo entrare e... E fategli sapere che lo aspetto nel vostro studiolo. Anzi... fategli sapere, ma con discrezione, che lo aspetto in stanza.”

Il Feo annuì, e si dileguò subito, il fisico non più troppo atletico – fuori allenamento anche per colpa del suo lavoro che s'era fatto negli anni molto sedentario – messo a dura prova.

A quel punto, vedendo la madre corrucciata, il Riario sospirò e concluse: “Vi ringrazio, allora.” e per una volta tenne per sé i commenti acidi che avrebbe tanto voluto fare in risposta alla decisione della madre di incontrare Manfredi in camera sua.

La Contessa annuì, iniziando ad andare verso la sua tana, chiedendosi come mai Ottaviano fosse tornato così presto a Forlì e, soprattutto, come mai non gliene avesse data notizia prima, ma benché fosse già abbastanza lontana, riuscì comunque a sentire la frase detta a mezza bocca da suo figlio.

Per quanto avesse saputo trattenersi quando la madre gli stava ancora accanto, appena l'aveva vista camminare veloce verso l'alcova in cui avrebbe accolto ancora una volta il suo amante, Cesare aveva borbottato: “Messer Giovanni non l'avete mai meritato...”

 

“E per vostro fratello, invece, allora non c'è proprio speranza?” chiese il messo veneziano, giungendo le mani in grembo e fissando con insistenza Polidoro Tiberti.

Questi sospirò, stringendosi nelle spalle: “Io ho provato a parlargli, e vi assicuro che anche lui non si trova più bene, con la Tigre. Però è un uomo testardo, lo è sempre stato. E ha paura di lei.”

“Paura di una donna!” rise il veneziano, occhieggiando verso Niccolò Orsini, in piedi alle sue spalle, accorso quel giorno ad assistere a quell'ingaggio soprattutto allo scopo di spiegare al Tiberti le sue mansioni in caso avesse accettato: “Avanti! Siamo uomini! Come può vostro fratello temere una donna?!”

Polidoro stava per ribattere, ma a farlo al suo posto fu proprio l'Orsini: “Non riderei, se fossi in voi, messere.”

Il sorriso ilare sul volto del Serenissimo si spense poco per volta, nel vedere come sia Tiberti, sia Niccolò si erano fatti serissimi.

“Quella donna non è da sottovalutare. Io stesso ho potuto saggiare la sua ostinazione in politica, ma so che con una spada in mano è molto più pericolosa che quando si limita a scrivere lettere e incontrare ambasciatori. Ricordate il mio parente, Virginio?” fece l'Orsini, tenendo gli occhi puntati sull'uomo del Doge.

Questi annuì e confermò: “Uno degli uomini d'armi più apprezzati e preparati d'Italia. La sua scuola di scherma era famosa anche fuori dalla penisola, come potrei non ricordarlo?”

“Ebbene, lui era suo amico, e vi posso giurare che perfino lui la riteneva una donna da temere, anche più del più famigerato dei soldati.” spiegò Niccolò: “Non mi sorprende che Achille, che è al suo servizio da anni, abbia paura a tradirla. Ne avrei anche io, al suo posto.”

Il veneziano deglutì, non capendo fino a che punto i due che stavano con lui stavano esagerando e quanto, invece, avessero ragione, e alla fine decise di chiudere la questione con un semplice: “Oh, bene, capisco... Quindi tutto ciò va a maggior onore del nostro amico Polidoro, che ha deciso di accettare la condotta offerta dal Doge.”

Il Tiberti annuì e chiese: “Duecento fanti e la vostra protezione, giusto?”

Niccolò Orsini parlò sopra al messo della Serenissima, che aveva già cominciato a confermare con le sue pedanterie da diplomatico: “Duecento fanti, la nostra protezione e la possibilità di farvi un nome, al mio fianco.”

“Quali sarebbero le nostre prima azioni?” chiese Polidoro.

“Saccheggiamo Galeata, tanto per iniziare.” spiegò l'Orsini: “Ci serve da mangiare e i miei uomini stanno diventando molto irrequieti a tenere le mani in mano. Ci sarà un buon bottino anche per i vostri, non temete. Divideremo equamente cibo, donne, armi ed eventuali denari.”

“E dopo Galeata?” fu la naturale richiesta di Tiberti.

Il veneziano, ormai, lasciava che i due Capitani parlassero tra loro, ed era andato da una delle guardie che aveva messo alla porta per chiedergli di cominciare a preparare il suo cavallo.

“Andremo verso gli Appennini e, quanto è vero che nelle mie vene scorre il sangue di mio padre Aldobrandino Orsini, da lì attraverseremo Pieve Santo Stefano e arriveremo a Paolo Vitelli. Quello ormai si occupa solo di contarsi le monete in tasca, lo prenderemo alla sprovvista e vinceremo questa guerra prima che possano imporre una pace!” elencò l'Orsini, allungando una mano verso Polidoro.

Questi fissò per un istante il braccio teso dell'armigero e, sperando che così facendo non stesse condannando a morte suo fratello Achille, accettò il gesto d'amicizia, stringendogli la mano con forza ed esclamando: “Marceremo su Firenze prima che arrivi l'estate!”

 
 
   
 
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