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Autore: Adeia Di Elferas    05/12/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Quando Manfredi aveva raggiunto Caterina nella sua tana, malgrado la sua prima intenzione fosse quella di spiegarle come mai fosse di nuovo a Forlì e dei maneggi che aveva visto al campo fiorentino prima di partire, si lasciò subito prendere dalla voglia di stringerla a sé e baciarla.

La donna, che in quei giorni aveva pensato molto spesso al faentino, lo assecondò senza troppi problemi, riuscendo appena a chiedere, dopo qualche minuto: “Almeno questa volta Paolo Vitelli lo sa, che sei andato via?”

Ottaviano fece una risata sommessa e annuì: “Questa volta non ti metto più nei guai, Tigre, è una promessa.”

Abbastanza rassicurata dal tono del giovane, la Contessa aveva continuato a dedicarsi a lui, e, senza riuscire a ragionarci sopra in modo troppo organico, si era trovata assieme a lui sotto le coperte. Lo aveva trovato in forze, abbastanza disteso e, malgrado il viaggio, in ordine. Trovarselo davanti, dopo le lunghe notti da peregrina e le giornate colme di problemi che aveva trascorso, le aveva fatto provare un desiderio irrefrenabile di farlo suo, e così aveva fatto.

“Allora...” gli disse, stringendosi al suo petto e puntellandosi con il gomito al materasso per poterlo guardare meglio: “Devi spiegarmi perché sei qui.”

Manfredi, che nemmeno nei suoi più rosei sogni si sarebbe immaginato un'accoglienza tanto calorosa da parte della sua amante, si passò una mano tra i lunghi capelli biondi, puntando gli occhietti azzurri al soffitto e sospirando: “Perché i soldati di Firenze sono immobili, Tigre, come se fossero statue di sale. E Vitelli sa darsi una mossa solo per criticare Firenze e litigare con quelli che dovrebbero pagarlo.”

Sentito ciò, la donna si mise a fare altre domande, più precise, su chi fosse al campo e chi no e su quali nemici avessero incontrato o sapessero la posizione. Ottaviano, paziente, rispose a tutto quanto, con voce abbastanza tranquilla, terminando il tutto con un pensiero che fece storcere un po' le labbra alla Contessa.

“Comunque sia, la guerra sta per finire, ne sono tutti convinti.” aveva detto, una mano che tornava a indagare il corpo della Leonessa, nella speranza di convincerla a ricominciare tutto da capo.

Caterina, invece, si mise a sedere, sottraendosi al tocco del giovane. La luce del sole del mezzogiorno entrava dalla finestra con violenza, tanto da indurla a socchiudere le palpebre, quando si voltò verso il faentino per guardarlo in viso.

Steso, rilassato, una mano sotto la nuca e l'altra protesa per accarezzarle la schiena, Ottaviano le pareva un ragazzino, in quel momento. Sotto la fitta barba bionda – uno dei pochi reali segni della sua permanenza al campo di Vitelli – la pelle delle guance si stava tingendo di rosso, e le sue labbra si stavano sollevando in un silenzioso sorriso come se qualcosa lo stesse imbarazzando, pur facendogli piacere.

“Mi sei mancata tanto, Tigre.” disse, con appena un filo di voce, per poi distogliere lo sguardo, come se un po' si vergognasse per quell'esternazione.

La Leonessa gli voltò di nuovo le spalle e disse: “Pensiamo che il papa voglia togliermi le mie terre.” deglutì e continuò, per quanto quel discorso le pesasse: “Non abbiamo ancora capito in che modo di preciso vorrebbe farlo, non abbiamo, anzi, nemmeno capito se lo voglia fare davvero o se userà questa scusa per chiederci più tasse, a mo' di ammenda per le mancanze del mio Stato... Fatto resta che potrei anche perdere il mio potere e il mio titolo.”

Manfredi rimase in silenzio, la mano che scorreva sulla schiena liscia dell'amante si era fermata di colpo, e Caterina temette di aver fatto centro. Da un po' temeva di scoprire che Ottaviano provasse per lei esclusivamente un interesse da opportunista, e non da uomo innamorato. Gli piaceva giacere con lei, quello era abbastanza palese, ma non per questo poteva essere certa che provasse per lei qualcosa che andasse oltre l'attrazione fisica.

“Dobbiamo prepararci a combattere, allora, Tigre.” disse con voce tetra l'uomo, mettendosi a sua volta a sedere, fino a trovarsi spalla a spalla con la Sforza: “Lo sai meglio di me che il Borja non va per il sottile, e suo figlio è in Francia, e ti ricordo che il re di Francia ha già implicitamente dichiarato guerra a tuo zio.”

“Credi che non le sappia anche io, queste cose?” fece la Contessa, guardandolo in tralice, per quanto quella reazione la facesse ben sperare.

Aveva temuto che il faentino, vedendo venir meno l'importanza e l'autorevolezza della sua alleata, avrebbe subito cercato di scaricarla, in cerca di qualcuno di più affidabile che potesse aiutarlo concretamente a strappare dalle mani di Astorre il suo Stato.

“E allora che conti di fare?” chiese l'uomo schiarendosi la voce, andata persa ogni velleità di darle di nuovo battaglia sotto le lenzuola.

“Prima di tutto – cominciò a dire Caterina, apprezzando il calore della pelle di Ottaviano contro la sua, così come il suo modo di tenerle vicina la testa, quasi a dimostrazione del suo appoggio – mi servono soldi per comprare nuove armi, e, magari anche qualche compagnia di ventura, anche se vedo difficile trovare abbastanza fondi per entrambe le cose. Dopodiché, devo cercare di crearmi un corridoio di fuga verso Milano. Se da Roma dovessero arrivare minacce reali, devo avere le spalle coperte.”

“Vorresti scappare?” chiese, sorpreso, il faentino, scostandosi appena da lei: “Tu?”

La Tigre strinse i denti. Capiva benissimo quello che l'uomo intendesse e lei per prima non apprezzava quel piano, ma non vedeva molte alternative sensate. Se anche lei e la sua famiglia fossero rimasti a fare i martiri, a cosa sarebbe servito?

“Ho ancora sette figli, Manfredi. Sette. Non posso permettere che li uccidano tutti, uno dopo l'altro.” deglutì e concluse: “Perché è così che farebbero, se riuscissero a uccidere me o a entrare a Forlì.”

Da sotto le coperte, Ottaviano stava cercando con una mano la coscia della Contessa, stringendola accorato, e chiedendo: “Ma se voi scappaste... Cosa... Cosa ne sarebbe di tutti i nostri piani? Cosa ne sarebbe della gente che hai giurato di difendere? Che ne sarebbe dei tuoi soldati? Che...”

Prima che l'uomo potesse rivolgerle anche solo un'altra domanda, Caterina lo allontanò con un piccolo spintone, alzandosi poi subito dal letto: “Cosa credi, Manfredi?! Non lo so nemmeno io cosa devo fare! Pensi che possa prevedere il futuro? Pensi che io sappia cosa passa per la testa di quel caprone del papa?!”

Il faentino si morse il labbro e poi, mettendosi a sua volta in piedi, cercò di avvicinarsi alla Leonessa, sussurrando: “Mi chiedevo solo se non avessi paura che...”

“Paura?” soffiò la Sforza, guardandolo come se non lo riconoscesse nemmeno: “Io ho paura tutti i giorni, continuamente! Solo perché cerco di combattere contro tutte le ansie e le preoccupazioni che mi assalgono, non significa che io non sia terrorizzata!”

A quel punto, vincendo le – deboli – proteste della sua amante, la raggiunse, stringendola con forza a sé. Sentiva, contro il petto, il suo seno sollevarsi e abbassarsi furioso, il suo respiro caldo contro il petto, mentre le accarezzava la testa, e la sua pelle, accapponata dal freddo improvviso a cui l'aveva sottoposta lasciando le coperte, che poco per volta tornava a rilassarsi, scaldata dal suo tepore.

Caterina, di contro, accettò l'abbraccio del faentino nella speranza che potesse davvero calmarla un po'. Sentiva il suo cuore battere sicuro e profondo contro il proprio, la sua barba un po' ispida premerle contro la fronte e le sue mani che le passavano in rassegna ora la schiena nuda, ora i capelli un po' arruffati.

“Se solo riuscissi a farmi dare da Firenze tutti i soldi che ancora mi sono dovuti...” sospirò Ottaviano: “Con quelli potrei aiutarti a comprare le armi che ti servono e...”

“Non basterebbero comunque. Oltre a quelli servirebbero i soldi dell'eredità di Giovanni, allora forse potremmo combinare qualcosa, ma ragionare con mio cognato è impossibile.” ribatté la donna, che, finalmente, era tornata a respirare normalmente.

Senza lasciarla, il faentino riprese: “Però intanto con i miei soldi qualcosa potremmo iniziare a fare... Potrei partire oggi stesso per Firenze e...”

“No. Tu resti qui.” il tono perentorio con cui la Tigre aveva parlato indusse Ottaviano a trattenere il fiato, pronto a chiedere se vi fosse qualche motivo particolare per cui dovesse farlo, come una qualche missione o ambasceria che richiedesse il suo intervento personale.

Quando, però, cercò di liberarsi un po' dall'abbraccio della Contessa, questa lo tenne ancor più strettamente a sé, proseguendo: “Ho bisogno di averti vicino. Non ce la faccio più a restare da sola.”

“Ti servo per scaldarti il letto tra una mattina passata in Consiglio e un pomeriggio trascorso a tirar di spada?” chiese l'uomo, cercando di sdrammatizzare, la gola che risuonava con una bassa risata.

“Ho bisogno di qualche punto fermo.” fece lei, rimanendo tanto seria da spegnere ogni tentativo di lui di alleggerire il discorso: “Ho fatto troppa fatica, negli ultimi giorni. Con te accanto, almeno posso illudermi di avere qualche certezza.”

“Se sono io, il tuo punto fermo, allora sei messa davvero male...” sospirò il faentino, slegandosi infine dal suo abbraccio, un'espressione un po' ostile in viso.

Caterina preferì non dire nulla. Aveva espresso un pensiero che covava da tempo, ma che non aveva mai rivelato a nessuno, e Ottaviano ribatteva a quel modo. Forse si era illusa, sperando di poter trovare in lui qualcosa che andasse oltre il conforto fisico.

“Sai cosa si dice di te, al campo fiorentino?” fece l'uomo, andando a recuperare le brache lasciate in terra e infilandosele.

“Che si dice?” chiese la donna, recuperando a sua volta i propri vestiti, cominciando a rimetterseli uno strato dopo l'altro.

Avrebbe, forse, voluto restare ancora un po' con il suo amante, ma aveva capito benissimo che il clima non era più ideale e che era meglio, prima di finire a litigare, separarsi per qualche ora. Se appena si erano rivisti era stata la passione a parlare per loro, adesso che si stavano confrontando su altri piani, la loro sintonia tornava a vacillare e lei non voleva che succedesse.

“Dicono che...” cominciò Manfredi, sedendosi con un tonfo sul letto sfatto per infilarsi gli stivali più facilmente: “Ecco, ho sentito alcuni graduati dell'esercito di Firenze prenderti in giro, dicendo che passi in rassegna tutti i membri del tuo esercito, almeno uno per notte.”

La Contessa si morse le labbra e poi, controllando che l'abito appena indossato fosse discretamente in ordine, commentò: “Dovevi dirgli che a volte sono due, per notte.”

“Altri dicono che faresti bene a comprarti qualche nave, e far la guerra con quelle, dato che ormai la tua camera da letto è un porto di mare...” proseguì l'uomo, recuperando anche il camicione.

“Certo che non hanno poi molta fantasia, questi soldati fiorentini... Almeno i veneziani favoleggiano su come io uccida i miei amanti, il mattino dopo averli fatti miei. Se ci pensi, hanno menti più agili...” commentò distaccata la Leonessa, aspettando che Ottaviano fosse pronto per uscire dalla camera.

“Ascoltami, Tigre...” sussurrò il giovane, prendendola per una mano: “Quella che stanno combattendo contro di te è anche una guerra fatta di parole. Fai paura a tutti, ma...”

“Lasciali parlare. Che mi sminuiscano pure, non mi importa. Sarà ancora peggio per loro, quando perderanno contro quella che ritengono solo una...” stava dicendo la Sforza, ma il faentino la bloccò.

“Ho capito, non ti interessa. Ma, per esempio, adesso che sono qui... Limitati ad avere me. Ecco, potrebbe essere un buon inizio.” propose lui, mentre la donna apriva già la porta.

“Come se non potessero sparlare anche di noi. L'amante del promesso sposo della figlia. Roba che farebbe svenire certi delicati porporati di Roma...” scherzò la Tigre: “Lo so che dici così solo perché vuoi essere l'unico.”

Ottaviano si schiarì la voce e poi alzò le spalle, mentre attraversavano il corridoio: “Anche se fosse, Tigre, a questo punto non ci sarebbe nulla di male, non credi?”

“Piuttosto, meglio che tu vada a farti sistemare... Hai la barba lunga.” cambiò discorso la donna.

“Passerò da Bernardi, più tardi.” valutò il faentino, saggiando con la mano la lunghezza dei peli biondastri che gli erano cresciuti sul mento e sulle guance.

“Bernardi è chiuso. È a Bologna e non sappiamo quando tornerà di preciso.” scosse il capo Caterina.

“A Bologna?” Manfredi la fermò, una mano sulla spalla: “E che ci è andato a fare?”

“Affari di famiglia.” rispose lei, senza dare altre spiegazioni: “Ora scusami, ma ho da fare. Vai dal castellano, fatti dare una stanza qui alla rocca e poi fatti ragguagliare sulla situazione.”

L'uomo non si oppose, lasciando che la sua amante accelerasse il passo, andando alle scale, tuttavia, mentre raggiungeva con calma lo studiolo di Cesare Feo, non poté fare a meno di chiedersi se davvero quello strano barbiere fosse nella città di Giovanni Bentivoglio solo ed esclusivamente per far fronte a problemi di famiglia.

 

Lorenzo Giustinian, provveditore di Venezia, si strinse un po' di più nel mantello. Non sopportava l'aria umida e opprimente di Ravenna. Gli sembrava quasi di respirare acqua, e, a ogni passo, la strada fangosa gli ricordava le sabbie mobili.

Finalmente arrivò al palazzo in cui lo stava aspettando Giacomaccio da Venezia. Si trattava bene, per essere un condottiero di ventura. Malgrado i suoi modi rozzi e la sua ignoranza, riusciva sempre a farsi ospitare nei posti migliori e alle migliori condizioni.

Quando Giustinian riuscì finalmente ad arrivare nel salone, riscaldato da un grosso camino, che in parte mitigava la sensazione salmastra e spiacevole di quel clima insalubre, Giacomaccio era già lì ad attenderlo.

Era mastodontico, esattamente come il provveditore lo ricordava, e vederlo seduto in poltrona, con un calice di vino tra le grandi dita, non attenuava il suo aspetto minaccioso.

“Che volete?” chiese il condottiero, bevendo un sorso e puntando gli occhi pungenti verso l'uomo del Doge: “Siete qui per darmi anche il resto?”

Lorenzo sapeva a cosa si riferiva. Pochi giorni prima un altro messo aveva visitato Giacomaccio per dargli cento ducati, in acconto, e non era strano pensare che l'armigero si aspettasse di vedersi versare quel che rimaneva.

“No, no, sono qui per conto del Doge Barbarigo. Sapete dell'offensiva che, a giorni, Niccolò Orsini lancerà contro gli uomini di Vitelli...” iniziò a dire Giustinian, restando a debita distanza dal suo interlocutore che, già dalla prime parole, si era puntellato sul bordo della poltrona, fissandolo in modo strano: “Ebbene, con lui ci sarà anche uno dei fratelli Tiberti, ma il Doge sarebbe più tranquillo sapendovi impegnato con loro.”

“E dove condurrebbero questo attacco?” chiese Giacomaccio, finendo il suo vino e battendo un paio di volte le palpebre.

“Nel Casentino. Si stanno già muovendo, ma a velocità ridotta, per attendervi.” spiegò il provveditore, illudendosi di sentire nella voce dell'altro uno spiraglio di apertura nei suoi confronti.

Alzandosi come una furia, invece, l'uomo d'armi gli andò incontro, con tanta furia da farlo spaventare a morte, abbastanza, per lo meno, da fargli mancare l'aria nei polmoni.

Sputacchiando a ogni parole, Giacomaccio, preso per il bavero l'inviato di Barbarigo, gridò: “Dite al vostro Doge che se vuole i miei servigi, li deve pagare! In cinque mesi non mi ha dato nemmeno un soldo! Avevamo un accordo preciso, io combattevo e lui mi pagava! Io ho combattuto, ma lui che ha fatto?! E non venitemi a parlare di quei cento ducati!”

Lorenzo aveva sollevato le mani, per ripararsi il viso, terrorizzato dalla sfuriata del condottiero, sicuro che un uomo tanto grezzo e animalesco avrebbe anche potuto ucciderlo senza pensarci due volte, per il puro gusto di sfogare la propria rabbia.

Giacomaccio, invece, lasciò la presa dal colletto del giubbone del veneziano e, abbassando sensibilmente la voce, tornò verso la poltrona, dicendo: “Cento ducati, se voglio, li spendo in una sola notte. Se il Doge si è scordato di quanto mi aveva promesso, allora sappia che io mi sono scordato di quello che dovevo fare.”

Giustinian si sistemò meglio il vestito e poi, la voce un po' arrochita, chiese: “Quindi volete che riferisca che non farete quanto vi è stato chiesto?”

“Precisamente. Non combatto senza essere pagato. Nessun uomo di buon senso lo farebbe.” si affrettò a confermare l'armigero.

“Ma ricevereste gli onori del Doge per il vostro valore e...” provò in ultimo il provveditore, che già vedeva davanti a sé la barba bianca di Barbarigo e le sue labbra sottili stringersi in una morsa di disapprovazione.

“Le medaglie si danno ai morti. E io non intendo morire gratuitamente.” concluse Giacomaccio, lo sguardo cupo che inseguiva i movimenti nervosi di Lorenzo: “E ora levatevi di mezzo. Ho già perso abbastanza tempo. Quei cento ducati non basterebbero nemmeno per ripagarmi dell'incomodo di avervi ascoltato.”

Non vedendo che altro avrebbe potuto fare, Giustinian chinò il capo e ribatté: “State con Dio, messere.” e se ne andò.

 

Alessandro Orfeo aspettava in silenzio l'arrivo della Sforza. Gli aveva chiesto di attenderla appena fuori dalla rocca, perché voleva mostrargli con precisione le fortificazioni esterne della città, affinché poi riferisse al Moro lo stato di salute della sua 'più grande e cara alleata' e se ne rallegrasse.

Tuttavia, mentre guardava il cielo che andava scurendosi, l'ambasciatore non poteva far a meno di pensare che quella donna fosse una pazza, a voler cavalcare con il buio e con quel freddo, a maggior ragione vista la fitta nebbia che si stava già alzando appena fuori dalla cinta muraria.

Aveva, però, avuto ordine di carpire più notizie possibili e visto che la Tigre aveva storto il naso, quando lui aveva proposto di posporre il tutto al mattino seguente, alla fine Alessandro aveva accettato di buon grado quell'uscita serale.

Quando vide un piccolo capannello di uomini in sella a cavalli da guerra, per poco non pensò di aver le traveggole, finché non riconobbe chi guidava quel manipolo di soldati.

In sella a un enorme stallone nero, la Contessa guidò i suoi fino al misero drappello di Orfeo – un paio di segretari e due guardie del corpo – e disse: “Avanti, alle porte della città. Per vederla meglio, dobbiamo uscire.”

Passarono almeno un paio d'ore a girare attorno alle mura di Forlì. Malgrado la Sforza indicasse di continuo questo o quell'accorgimento preso nel rimodernare la struttura difensiva, tra il buio e la nebbia l'ambasciatore non vedeva praticamente nulla.

Quando provava chiedere delucidazioni, poi, la donna gliele forniva, ma usando termini talmente tecnici, che Alessandro vi capiva ancora meno e così altro non poté fare se non cercare di mandare tutto a memoria, sperando che il Duca, leggendo certe parole, sapesse più di lui cosa indicassero.

Ci fu un momento, quando erano nei pressi di porta San Pietro, in cui la Contessa diede ordine a uno di quelli che la seguivano di andare a vedere cosa stesse succedendo, visto che c'erano degli uomini che discutevano con le guardie alla porta. Non si capiva se stessero litigando, o se fossero solo concitati per qualche motivo, perciò la Tigre voleva vederci chiaro.

Nell'attesa che i suoi tornassero con delle risposte, Caterina indicò il rivellino, poco visibile, nella nebbia, e disse: “Sapete, Orfeo, è proprio lì che ero stata rinchiusa assieme ai miei figli, a mia madre, a mia sorella e alcune balie, durante la rivolta degli Orsi.”

Il milanese stava per dire qualcosa, una costatazione vaga su come, in quella circostanza, l'aiuto del Moro fosse stata per la Leonessa fondamentale, ma un nitrito particolarmente stizzito dello stallone di lei lo mise a tacere.

“Il vostro è un cavallo bellissimo.” disse, cambiando argomento, grato che quell'animale gli avesse dato uno spunto per evitare di parlare di politica – era così stanco e infreddolito che difficilmente avrebbe vinto una battaglia dialettica con la padrona di casa – e poi soggiunse: “Uno stallone davvero meraviglioso.”

“Lo so, è una bestia fantastica. È intelligentissimo e molto resistente.” convenne la donna, accarezzando il collo nero della sua cavalcatura.

“Non è troppo irruento, per una...” cominciò Orfeo, lo sguardo attirato dai soldati sforzeschi che, intanto, avevano raggiunto la porta e stavano iniziando a fare domande.

“Per una donna?” completò la domanda Caterina per lui.

Alessandro annuì appena, ben sapendo di aver commesso l'ennesimo errore.

In tutta risposta, però, la Tigre rise di gusto, e poi, voltandosi per cercare man forte nei suoi uomini, ribatté: “Questa bestia è impaziente e molto forte, ma io so come tenerlo a bada. Ho domato stalloni molto più irrequieti di lui!”

I Capitani che componevano il suo seguito risero con lei, un paio addirittura le diedero ragione a parole e un altro ancora batté la mano guantata di ferro contro la piastra della sua armatura, in segno di approvazione.

L'ambasciatore, felice che ci fosse troppo buio per lasciar intravedere il rossore del suo viso, fece un colpo di tosse imbarazzato e non disse più nulla.

La Contessa, invece, smettendo poco per volta di ridere, riprese il discorso, tornando a un piano molto meno faceto: “Questo stallone, secondo chi me l'ha venduto anni fa, discende addirittura da un cavallo dei Gonzaga di Mantova. Non so se avete presente...”

Orfeo stava per rispondere con un secchissimo sì, quando però venne interrotto da uno degli armigeri che stava tornando da porta San Pietro, chiamando la sua signora: “Venite, presto! Dovete sentire!”

Dando di sprone al suo cavallo, Caterina si distaccò all'istante dal gruppo e Alessandro fece del suo meglio per starle dietro e sentire che fosse successo.

“Ripetete alla Contessa cos'è successo.” fece una delle guardie, rivolgendosi agli uomini con cui stava vociando fino a poco prima.

Uno di questi, in abiti da soldato, chinò il capo, nel riconoscere la Tigre e spiegò: “Eravamo al seguito di Dionigi Naldi, mia signora, ma senza di lui... Insomma, mentre tenevamo la posizione, abbiamo saputo che i veneziani hanno preso la bastida dei fiorentini, qualche giorno fa e così siamo corsi qui per dirvelo.”

La donna, nel sentire che quel prezioso pezzo d'assedio era passato nelle mani dei Serenissimi, in un primo momento parve estraniarsi, immersa in chissà che pensieri, e poi sbottò: “E perché diamine Firenze non me l'ha fatto sapere! Io devo saperlo, se Venezia ha per le mani una bastida! È impensabile che io venga a sapere una cosa del genere dai miei uomini, quando Firenze mi scrive per rompermi l'anima sulle più piccole delle idiozie! Dio mi è testimone, se avessi una coscienza, ordinerei stasera stessa di marciare su Firenze e vendicarmi per come mi stanno trattando!”

Orfeo avrebbe voluto chiedere qualche delucidazione, ma la Leonessa stava andando avanti a gridare, infilando una bestemmia ogni tre parole, facendosi sempre più volgare man mano che le sue invettive si spostavano da Firenze a Lorenzo Medici.

“Torniamo alla rocca! Devo mandare delle lettere.” ordinò, dando un cenno ai suoi.

Alessandro e i quattro gatti che lo seguivano rimasero indietro, mentre i cavalli da guerra della Sforza correvano veloci come il vento in direzione di Ravaldino.

Arrivata alla rocca, Caterina lasciò il suo cavallo a uno stalliere, mandò Mongardini a chiamarle Luffo Numai e Simone Ridolfi, e poi corse allo studiolo del castellano, dove trovò Manfredi, che discuteva con Cesare Feo.

“Fuori di qui.” ordinò la Contessa, indicando al faentino la porta: “Ho affari urgenti da discutere con il mio castellano.”

“Cos'è successo?” domandò Ottaviano, preoccupandosi nel vederla tanto rabbiosa.

“È successo che hai ragione tu, quando dici che la Repubblica di Firenze tratta tutti come se fossero i loro servi!” rispose la donna, indicandogli di nuovo l'uscio: “E ora lasciami in pace! Ti ho detto che ho da fare!”

Manfredi, a quel punto, non provò più a contrastarla, uscendo in fretta dallo studiolo, ma restando in zona. Quando, però, vide arrivare Luffo Numai e poco dopo Simone Ridolfi, capì che la questione si sarebbe fatta lunga.

La sera arrivò al suo culmine e scivolò nella notte, e nello studiolo si sentiva ancora parlare, a tratti a voce bassa, a tratti altissima, come se si altalenasse dal confronto tra cospiratori alleati, a una rissa da osteria.

Stanco di aspettare la sua amante, alla fine Ottaviano, quando fu passata la mezzanotte da quasi un'ora, voltò i tacchi e andò a sistemarsi nella stanza che era stata scelta per lui.

Avrebbe voluto fare qualcosa, qualsiasi cosa per aiutare Caterina e, di contro, per aiutare anche se stesso, ma non aveva idea di cosa fare. L'unica speranza, si diceva, era andare a Firenze e ottenere qualche vantaggio sia per se stesso sia per la sua donna. Prendere i soldi che gli dovevano, tanto per cominciare. Magari anche un indennizzo per il ritardo nei pagamenti. O, ancora meglio, una via di fuga sicura per la Sforza e per i suoi figli. Lei stessa gli aveva detto che tutti loro avevano la cittadinanza fiorentina. Forse Manfredi avrebbe potuto sfruttarla per metterli al sicuro.

Ricordava bene Giovanni Medici e aveva capito subito, benché l'avesse conosciuto in un brutto momento e frequentato per poco, quanto fosse intelligente e generoso. Se aveva voluto dare la cittadinanza a sua moglie e ai suoi figli a costo di compromettersi, significava che era lì, la chiave della loro salvezza.

Arrovellandosi nei suoi pensieri, Ottaviano quasi non si accorse come, ad alba quasi fatta, mentre era in dormiveglia, la Tigre si era infilata nel suo letto e, senza dirgli una parola, l'aveva stretto a sé, prima di cadere in un sonno pesante e sordo.

 
 
   
 
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