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Autore: Adeia Di Elferas    11/12/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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L'aria, nella sala consiliare, si stava surriscaldando. Niccolò Machiavelli, da buon Segretario di Stato, ascoltava tutto, cercando di carpire fino all'ultima parola, ma sapeva già chi avrebbe vinto quella diatriba.

Lorenzo Medici se ne stava seduto sul suo scranno, silenzioso da almeno un'ora, gli occhi tondi che restavano puntati, fisse e senza espressione, in direzione del Gonfaloniere di Giustizia.

Ciò di cui si stava discutendo, in quel freddo giorno di metà marzo, era la richiesta perentoria di Paolo Vitelli di ottenere un aumento della propria condotta. Tutto era nato dalla decisione della Signoria di accordare a Ranuccio da Marciano uno stipendio di trentamila ducati, la stessa cifra percepita fino a quel momento da Vitelli.

Questi, essendo il comandante generale delle truppe fiorentine, una volta saputo di quella manovra, si era immediatamente risentito, e aveva accusato Firenze di aver ceduto alle richieste di Ranuccio solo per via delle pressioni fatte dai di lui parenti Pandolfini.

Vitelli, allora, aveva subito fatto sapere alla Signoria che se non gli fosse stato accordato un aumento, in modo da tornare ad avere uno stipendio più alto di Ranuccio – che era a lui inferiore per grado – avrebbe lasciato seduta stante la campagna.

Arrivata a Firenze, però, la questione aveva preso connotati molto più politici e molto meno economici. Le tensioni non riguardavano più l'ingente spesa che avrebbe comportato, ma gli scontri ancora non del tutto sopiti tra i sostenitori di Lorenzo Medici e quelli di Savonarola che, in mancanza del defunto predicatore, si tenevano comunque saldi nelle loro posizioni, dando una valida opposizione al partito dei Popolani.

I sostenitori dei Medici, molti dei quali avevano fatto parte del partito dei Compagnacci, volevano che Vitelli ottenesse un aumento, in modo da riconfermarlo definitivamente come comandante generale delle truppe, gli oppositori del Popolano, invece, quasi tutti Piagnoni, sostenevano la legittimità dello stipendio di Ranuccio che, come tutti sapevano, non aveva mai fatto mistero, nei mesi e negli anni addietro, di essere un sostenitore del domenicano.

Machiavelli tendeva l'orecchio a tutti, gli occhi da faina che saettavano senza sosta da un lato all'altro della sala, ma, più il tempo passava, meno capiva l'atteggiamento di Lorenzo.

Sembrava spento, fumoso, ma allo stesso tempo tranquillo. Era come se non avesse la minima paura di vedersi sconfitto.

Alla fine della riunione, Machiavelli non si lasciò sfuggire quel dettaglio, il Medici fece un brevissimo cenno al Gonfaloniere e si procedette con la votazione. Con una maggioranza più che ragguardevole, si decise di aumentare la paga di Vitelli, con buona pace dei Piagnoni.

“Volevo farvi i complimenti per il vostro successo – disse Niccolò, che aveva aspettato appena fuori dal palazzo con pazienza sotto la fitta pioggerella che cadeva dal cielo plumbeo, quando finalmente incrociò il Medici – non era da tutti, portare a casa un simile risultato.”

Il Popolano lo guardò distrattamente. Lo trovava uno degli uomini più brutti e fastidiosi di Firenze.

Se avesse potuto, l'avrebbe fatto allontanare con la forza, ma, nella sua posizione, non poteva permettersi un simile lusso, dato che Machiavelli era Segretario di Stato.

Così si limitò a stirare un breve sorriso e commentare, aumentando il passo: “Non ho portato a casa nessun risultato personale, ho solo votato secondo coscienza. Se poi anche gli altri hanno pensato che fosse corretta la decisione di dare un adeguato compenso al nostro comandante generale, me ne compiaccio.”

“Sicuramente.” convenne Niccolò, con tono mellifluo: “Certo è che per Firenze la spesa militare, in questo modo, diventa veramente difficile da sostenere.”

Il Medici, strizzando un po' gli occhi tondi sotto la pioggerella, che andava via via facendosi più pesante, lo guardò stranito, come a chiedersi dove volesse andare a parare.

Siccome il modo in cui il Segretario gli si stava rivolgendo non gli piaceva affatto, Lorenzo provò a scrollarselo di dosso dicendo: “Fa freddo e comincia a piovere abbastanza forte. Fareste meglio a tornare a casa, o vi prenderete una polmonite.”

A quel punto, vedendo che il Popolano stava per sfuggirgli, Niccolò decise di mostrare le proprie carte, senza più avvalersi di sofismi e giri di parole: “A Firenze presto serviranno altri uomini e armi, lo sapete anche meglio di me, e vostro cognata possiede l'una e l'altra cosa.”

“E quindi?” domandò il Medici, imboccando a passò spedito la strada che portava fino al Duomo, e, da lì, alla Via Larga.

“E quindi io sono un uomo abile, Firenze crede in me e so di poter contrattare con questa donna di cui tutti hanno paura.” spiegò Machiavelli, stando al passo, grazie alle sue gambe agili.

“Vorreste essere proposto come ambasciatore a Forlì?” indagò il Popolano, fermandosi di colpo, ormai incurante della pioggia e del vento freddo che spirava da nord.

“Magari non subito. Ho bisogno che la Signoria si fidi del mio operato, o non si azzarderanno a lasciarmi partire per la Romagna. Sapete bene quanto me che l'ultimo ambasciatore arrivato alla rocca della Tigre è stato già rispedito a Firenze... Devo dimostrare di essere un diplomatico valido, prima. Fatemi mandare a Pontedera, da vostro cognato Jacopo Appiani. La Signoria è insofferente, nei suoi confronti perché di recente si è rifiutato di opporsi agli uomini di Filippo Albanese, Annibale da Doccia e Braccio di Montone.” prese a dire il Segretario, ricominciando a camminare, questa volta con il Medici che doveva sforzarsi per tenere il passo: “E io potrei aiutarlo ad appianare le cose, a convincersi che è bene, per lui, riprendere in mano la spada, dato che Firenze al momento non è contenta del suo operato... Certi arrivano perfino a tacciarlo di fare il doppio gioco e voler favorire in realtà Venezia...”

Lorenzo, nell'udire il nome del fratello di Semiramide, si era irrigidito. Il signore di Piombino, per lui, come, purtroppo, anche per sua moglie, non era che uno sconosciuto.

Malgrado la donna avesse cercato, nei primi anni di matrimonio, di riallacciare un po' i legami con la sua famiglia d'origine, che l'aveva mandata a sposarsi a Firenze solo per interesse, senza nemmeno domandarsi se avesse avuto fortuna o meno, con il marito che la sorte le aveva affidato, da parte dei suoi parenti era rimasta una freddezza notevole e così lei per prima aveva desistito, lasciando che i contatti con Piombino fossero meramente politici.

Tuttavia, ciò non toglieva che i Medici fossero imparentati con Jacopo e che, in momenti come quelli, fosse fondamentale dissipare ogni nube possibile.

“Penserò a quello che mi avete detto.” fece il Medici, le mani dalle dita tozze che armeggiavano con il bavero del suo giubbone per ripararsi un po' dall'umidità: “Ma vi assicuro che andare a Forlì potrebbe tradursi per voi in una condanna, più che in una promozione.”

Niccolò fu sul punto di dire al suo interlocutore che nessun uomo che potesse definirsi tale poteva aver paura di una donna, o, ancor peggio, lasciarsi soggiogare da lei, ma si ricordò per tempo di Giovanni Medici e di come, arrivato a Forlì proprio in veste di ambasciatore, si fosse fatto incastrare in pochi mesi dalla Leonessa di Romagna, fino a legarsi a lei – si diceva – in matrimonio, facendoci un figlio e lasciandole tutte le sue sostanze.

“So bene quello a cui potrei andare incontro – rispose allora Machiavelli, un sorriso indecifrabile, mentre il Duomo cominciava a profilarsi in lontananza – e so bene che si deve stare attenti a ciò che si desidera, perché lo si potrebbe ottenere.”

“Bene.” annuì Lorenzo, smettendo di guardarlo e desiderando con tutto se stesso di essere già in poltrona, davanti al camino, a scaldarsi: “Ci si vede, Segretario.”

“Messer Medici...” salutò Niccolò, fermandosi per un profondo inchino che il Popolano, lanciato com'era nella sua marcia forzata, non vide nemmeno.

 

“Sì, però pare che abbia fatto la rassegna, a Ravenna, e che la sua compagnia non sia stata trovata in ordine.” stava dicendo Luffo Numai, un po' piegato in avanti verso la Sforza.

La donna, nervosamente, si stava tormentando l'anulare sinistro, sfilandosi e rinfilandosi di continuo il nodo nuziale.

Nello studiolo, oltre a lei, a Numai e al castellano, c'erano anche suo figlio Galeazzo e l'Oliva. Le notizie appena arrivate, secondo la Tigre, andavano prima discusse in quella cerchia ristretta e solo dopo condivise con il Governatore e con gli altri Capitani.

“Quindi Polidoro Tiberti non è riuscito a fornire i duecento fanti che gli erano stati chiesti?” chiese la Contessa, restando seduta sulla poltrona che un tempo era stata di suo marito Giacomo.

Cesare Feo, alla scrivania, guardò l'Oliva e Numai interrogativo, dato che ne sapeva quanto la sua signora, mentre Galeazzo, in piedi accanto alla madre, restava impassibile. Voleva cercare di capire tutto, ma non poteva negare con se stesso che certi passaggi gli erano oscuri.

“Pare di no. O, quanto meno – spiegò il notaio – quelli che ha presentato erano in parte mal equipaggiati o troppo mal messi per potersi dichiarare operativi.”

“Bene, questo rallenterà anche Niccolò Orsini, dato che dovevano partire assieme.” commentò piano Caterina, continuando a rimuginare: “Anche se non li fermerà. Abbiamo solo guadagnato qualche giorno.”

“Certo che non me lo sarei aspettato, da Polidoro...” borbottò Cesare Feo, approfittando del lungo silenzio che era seguito alle parole della Sforza: “Insomma... Vi aveva servito bene, quando lo avevate mandato a Roma. Suo fratello Achille milita per Forlì da anni... Non pensavo che sarebbe passato così facilmente dalla parte del Doge.”

La Contessa sollevò appena un sopracciglio e commentò, a denti stretti: “La fedeltà degli uomini è legata ai soldi. Il Doge poteva promettergli di più di quanto non gli promettessi io.”

“Valesse solo questo discorso – si permise di dire Numai – non saremmo più in un mondo di gente per bene.”

La donna guardò il Consigliere e poi, mordendosi l'interno della guancia, guardò il figlio Galeazzo che, sempre attentissimo, pareva un po' contraddetto da quell'ultimo scambio di battute.

“Ci sono tanti tipi di fedeltà – fece alla fine la Leonessa, più per far chiarezza nella testa del ragazzino, che altro – così come ci sono tanti tipi di uomini. La maggior parte seguono il denaro, questo è un dato di fatto. Solo in pochi, ormai, preferiscono sentirsi a posto con la coscienza e non tradire quelli a cui il giorno prima avevano giurato fedeltà.”

Galeazzo mosse il peso da un piede all'altro, senza dare apparentemente segno di aver capito che quella precisazione fosse a suo vantaggio.

“Resta il fatto – concluse Caterina, alzandosi dalla poltrona e massaggiandosi la fronte con fare stanco – che dobbiamo capire se Achille Tiberti sapeva qualcosa su questa decisione di suo fratello, perché se così fosse...”

L'Oliva, il castellano e Numai, a quelle parole, si scambiarono uno sguardo eloquente e, ancora una volta, la Sforza ebbe la sensazione che suo figlio si fosse sentito escluso da un discorso che non poteva comprendere. Fu tentata di farglielo capire, ma si trattenne. Voleva considerarlo un uomo a tutti gli effetti, ma la realtà era che aveva perso da pochi giorni l'ultimo dente da latte, che ancora amava giocare assieme a Bernardino, che si spaventava, per quanto lo volesse nascondere, appena si rendeva conto dei rischi che stavano correndo. In altre parole, la realtà era che era ancora un bambino, sotto tanti punti di vista.

“Avete notizie di Naldi?” chiese la Contessa, andando verso la porta, desiderosa di andarsene e riordinare un po' i pensieri in solitudine.

“Se tutto va come speriamo, dovrebbe essere liberato tra una manciata di giorni.” annuì Luffo, con un'espressione soddisfatta: “Non so come abbiate fatto, ma le vostre lettere hanno fatto miracoli, mia signora. Anche se non è stato scagionato, pare che tutti siano d'accordo nel volerlo scarcerare.”

La Tigre fece un cenno con il capo, per dimostrare il suo compiacimento per quella notizia e poi, mettendo una mano sulla maniglia, si congedò con un rapido: “Ci vediamo più tardi, adesso ho da fare.”

Mentre camminava svelta in corridoio, stringendosi un po' nelle spalle, per far fronte al freddo, ripensò a come, in effetti, aveva convinto il signore di Urbino a liberare Dionigi Naldi. Non ne andava fiera, ma si era convinta che dare la colpa a Ottaviano Manfredi – conosciuto da tutti come scostante e violento con i suoi nemici – sarebbe stata la cosa più indolore per tutti.

Senza contare che Naldi era stato un suo fedelissimo servitore, da quando l'aveva preso a stipendio, mentre il faentino aveva già dimostrato più di una volta di essere meno controllabile, e dunque, tra i due, pensando esclusivamente agli affari di Stato, era più logico difendere dalle accuse il primo che non il secondo.

Il suo amante godeva della sua protezione e, finché restava a Forlì, non doveva avere paura di nulla e nessuno. Quando avesse poi deciso di andarsene, l'avrebbe fatto quando ormai la questione di Corbizzo sarebbe stata dimenticata da tutti, sorpassata senza fatica da affari più importanti, come l'epilogo della guerra tra Firenze e Venezia o la conquista di Faenza.

Dopo essere andata nella sua stanza ed essersi vestita con abiti più pesanti, la donna andò nelle stalle, prese un cavallo e uscì. Non aveva una meta precisa, non aveva nemmeno intenzione di andare nei boschi. Fece solo un giro della città, passando un paio di volte davanti alla bottega chiusa di Bernardi, e finì per cercare Francesco Fortunati, trovandolo in preghiera alla chiesa di San Girolamo.

“Dovete accelerare l'incontro con Orfeo. Adesso che anche Polidoro è passato dalla parte del Doge, voglio sapere di preciso almeno che posizione ha mio zio nei miei confronti.” gli sussurrò, dopo essersi inginocchiata accanto a lui, davanti all'altare.

Il piovano, schiudendo appena un occhio, ma restando con il capo chino, come se fosse ancora immerso nella sua meditazione, le chiese: “Quindi volete che lo convinca a far chiamare a Milano Baldraccani e a cercare una sistemazione nell'esercito di vostro zio ad Achille Tiberti?”

“Sì.” confermò la donna.

“Va bene.” fece Francesco, con un sospiro leggero: “Avete pensato a quella cosa che vi dicevo ieri?”

“Non mi chiuderò in un convento per scappare da una guerra.” rispose secca Caterina, ricordando come Fortunati le avesse tessuto le lodi del convento delle Murate di Firenze.

“Non è quello che vi ho detto di fare.” precisò l'uomo, tornando a chiudere gli occhi, le mani giunte ancora più saldamente sul petto: “Vi chiedo solo di tenervele buone. Non si può mai sapere. Avere un porto sicuro dove attraccare, in certi momenti della vita, può fare la differenza.”

“Tra cosa?” si incaponì la Contessa, irritata come il giorno addietro all'idea che quel mezzo prete potesse anche solo pensare che un luogo come un monastero di clausura fosse adatto a lei.

“Tra incontrare il Padreterno immediatamente o dopo qualche anno ancora di vita.” soffiò il piovano, abbozzando poi un sorriso e chiedendole: “Volete confessarvi?”

“Non ora.” declinò ella, rimettendosi in piedi e facendo un frettoloso segno della croce: “Fate quello che vi ho detto.”

Francesco annuì e poi si rimise a sciorinare le sue orazioni, come se l'incontro con la Leonessa fosse stato solo una parentesi senza storia tra un ave maria e un pater noster.

 

Quel giorno di marzo era benedetto da un sole splendente, per quanto ancora freddo, e Francesco Gonzaga non avrebbe potuto essere più felice, per quel clima tutto sommato mite. I giorni addietro aveva temuto che la pioggia gelida – che a sera si mescolava ancora con la neve e che, evaporando, all'alba faceva piombare Mantova sotto una fitta nebbia – potesse ritardare o comunque rovinare quella giornata, e invece la buona sorte pareva sorridergli.

Al suo fianco, seduta rigidamente sul suo scranno di legno, regina tra le regine che stavano sul palchetto d'onore, sua moglie Isabella sorrideva a tutti quelli che la guardavano, perfetta nelle vesti di padrona di casa.

Il Marchese, nello sfiorarla di quando in quando con lo sguardo, però, non vedeva una giovane e delicata donna abbigliata magnificamente e coperta di gioielli, che assisteva a un duello per puro dovere, ma una belva feroce, che non attendeva altro che veder scorrere il sangue.

Avevano litigato come due pazzi, i giorni precedenti, avendo ben cura di non mettersi in mostra con cortigiani e servi, ma senza mai darsi tregua. Appena si vedevano, come cane e gatto, si saltavano alla gola, dicendosi tutto il peggio che avevano in animo e la miccia che aveva innescato quella battaglia tanto aspra era stata proprio la decisione del Gonzaga di permettere a Rinieri della Sassetta e Gherardo Roberti di sfidarsi nella sua città, davanti alla sua corte, approfittando della sua ospitalità.

Isabella l'aveva sgridato, dicendogli che era uno sciocco a pensare che una spesa del genere, in un momento tanto delicato, potesse riabilitarlo come sperava agli occhi del Doge.

“Penserà solo che non ti servono i soldi che ti ha promesso e che sei più interessato a far spettacoli che a far la guerra!” l'aveva attaccato, rossa in viso e con gli occhi accesi di rabbia.

Francesco aveva ribattuto per le rime, dicendole che, fosse stato per lei, avrebbero speso chissà quante centinaia di ducati per chiamare a Mantova quel pittore che si faceva chiamare Leonardo da Vinci, buono solo a creare macchine da guerra che non funzionavano.

E da lì, come se la guerra tra Milano e Venezia si fosse ricreata in piccolo nelle stanze del loro palazzo, marito e moglie avevano continuato con affondi e stoccate finché non era giunto il giorno del duello di Rinieri e Gherardo.

Il pubblico accolse con una mezza ovazione la carica dei due sfidanti. Al primo giro di lizza, Rinieri aveva ferito il cavallo dell'altro, che, però, non aveva voluto cambiare bestia. Al ritorno, era stato Gherardo a colpire la bestia del suo sfidante.

Dichiarando la prima parte del duello finita in parita, erano passato a uno scontro in campo aperto, molto meno regolamentato e senza più esclusione di colpi.

Francesco teneva la mano della moglie nella sua, ben in vista, sul bracciolo del suo seggiolone intarsiato, e non gli sfuggiva come, a ogni colpo più duro dell'uno o dell'altro campione di Venezia, la donna gli stringesse appena di più le dita attorno alle sue. Da un lato era una sensazione piacevole, perché da troppo tempo, ormai, i loro contatti fisici erano stati pressoché assenti, e al Gonzaga mancavano molto. Dall'altro, però, trovava quasi inquietante, quella morsa, un po' come fosse quella delle spire di una vipera, come la vipera sforzesca, la vipera di Ludovico il Moro, il simbolo del tradimento...

Rinieri, con una mossa degna di un signore della guerra, aveva appena piantato uno spiedo nel centro del petto del cavallo di Gherardo. Il fracasso che ne seguì e la polvere che si sollevò dal suolo per qualche istante resero impossibile ai presenti capire cosa fosse successo di preciso.

Fradicio del sangue della sua cavalcatura, Roberti era rovinato al suolo, restando poi immobile, sulla schiena, accanto alla carcassa del suo animale.

Lo sfidante, smontando da cavallo con solerzia, gli era andato vicino e, dopo appena un istante di smarrimento, Gherardo aveva ripreso conoscenza, allungando un braccio verso Rinieri e dicendo, la voce un po' roca, dietro la celata dell'elmo: “Complimenti... Non mi avete ammazzato, ma ci siete andato vicino.”

Siccome i due duellanti parevano aver deciso che l'offesa – qualunque fosse, dato che nessuno aveva capito di preciso cosa li avesse portati a quello scontro tanto plateale – fosse stata lavata dal sangue del cavallo, senza bisogno che si versasse anche quello di un uomo, Gonzaga, liberatosi un po' a fatica dalla stretta che Isabella continuava a imprimere alla sua mano, si alzò dal suo scranno e chiamò a sé il vincitore.

Gli fece dono di una cappa meravigliosa, di uno stocco e di centocinquanta ducati.

Mentre lo abbracciava per congratularsi con lui per la vittoria, Francesco si stupì nel sentire Rinieri sussurrargli all'orecchio: “Ora che so di essere vivo e quindi di poterlo fare, sappiate che tra qualche giorno partirò per Ferrara, dove vostro suocero prenderà nelle sue mani il lodo della pace tra Firenze e Venezia.”

Il Marchese trasecolò. Ne aveva sentito parlare, ma credeva che alla fine fossero solo chiacchiere, non avrebbe creduto possibile che una simile decisione non gli fosse stata resa nota per tempo.

Mentre il pubblico ancora applaudiva e motteggiava, il Gonzaga tornò a guardare di nuovo sua moglie, che, come gli altri, sorrideva e batteva le mani, gridando incitamenti per Rinieri, chiamandolo vincitore e lodandolo per la sua bravura.

E anche quella volta, però, non vide una donna, né la sua sposa, ma una vipera, avvelenata e infida.

Lei doveva per forza sapere tutto quanto, perché non c'erano segreti, per Isabella, sulle mosse di Ferrara. Eppure non gli aveva detto nemmeno mezza parola.

“Tu sapevi del lodo della pace che verrà affidato a tuo padre?” le bisbigliò, chinandosi appena su di lei.

“Sì.” rispose l'Este, senza il minimo sforzo, restando impassibile, sorridente e preda dei festeggiamenti.

“E perché non mi hai detto che il suo incarico era stato riconfermato?” chiese Francesco, sbiancando, per quanto quella non fosse che una conferma ai suoi già fondatissimi dubbi.

“Perché tu non me l'hai chiesto.” lo zittì Isabella che, per sottrarsi ad altre domande, si allontanò da lui, andando a porgere i suoi personali omaggi all'eroe di quella giornata, il condottiero di Venezia Rinieri della Sassetta.

 

Quella sera, salita sui camminamenti per controllare che fosse tutto in regola, Caterina intravide una figura che non si sarebbe aspettata di vedere. Ritta con lo sguardo fisso davanti a sé, i palmi delle mani posati sulla pietra fredda delle merlature, sua figlia Bianca spiccava, con il suo abito lungo, in mezzo ai soldati che, pigramente, facevano la ronda.

Ciò che aveva portato la Riario fin là in alto alla Contessa interessava relativamente. Aveva dato libertà di movimento, all'interno della rocca, ai suoi figli e dunque non doveva sorprendersi, se se ne avvalevano.

Tuttavia, quando le arrivò accanto, non trovò di meglio che chiederle: “Che ci fai qui?”

La ragazza ebbe un breve sussultò, non aspettandosi l'arrivo così improvviso della madre, e, in tutta risposta, scosse un po' la testa e sollevò una spalla.

La Sforza, allora, seguì lo sguardo della figlia e capì che era puntato dritto verso la statua bronzea di Giacomo. Mordendosi il labbro, posò una mano su quella di Bianca e la strinse un po', senza dire nulla.

In realtà, Bianca era salita sui camminamenti per tutt'altra ragione. Aveva cercato uno dei soldati che erano di turno quella sera al solo scopo di mettere le cose in chiaro con lui. La sera prima si erano avvicinati, più di quanto avesse creduto, e, benché non gli avesse concesso che qualche bacio, era sicura che presto, se non avesse chiarito meglio la sua posizione, le avrebbe chiesto di più.

Non era facile, per lei, che sentiva la vita pulsare sotto la pelle e il cuore fremere a ogni passo, vivere in mezzo a così tanti uomini giovani e, tutto sommato, alla sua portata. Tutte le volte che si sentiva tentata di rischiare e andare oltre, le tornavano alla mente le parole di Giovanni Medici e, subito dopo, rivedeva chiara davanti a sé la propria situazione: era sposata ad Astorre Manfredi, e questa verità non sarebbe cambiata fino alla morte di uno dei due, e se anche il signore di Faenza fosse stato assassinato, come tutti sembravano sperare, avrebbe dovuto sposare Ottaviano Manfredi, e sarebbe stato tutt'altro che semplice.

Così, malgrado di quando in quando si divertisse a spingersi un po' oltre con qualcuno dei giovani che si aggiravano a Ravaldino, aveva promesso a se stessa di non compromettersi con nessuno, almeno finché non fosse stata la moglie di Ottaviano Manfredi. Egli le aveva fatto delle promesse precise e la ragazza sapeva che le avrebbe rispettate. Dunque era meglio attendere la sua protezione, prima di cedere a qualche colpo di testa.

Così aveva cercato il soldato, gli aveva parlato, badando bene di farlo in un luogo relativamente affollato, come erano i camminamenti, e poi era rimasta lì per un po' a ragionare. Era stato a quel punto che la statua del Barone Feo aveva catturato la sua attenzione.

Alla luce algida della luna riluceva come un relitto in fondo al mare. Era l'emblema della grande colpo di cui anche lei, oltre ai suoi due fratelli maggiori, si era macchiata. Non si sentiva un'assassina, tranne quando provava a ripensare a quanto accaduto in quel terribile agosto. Si sentiva colpevole, però, di aver tradito sua madre, di non aver fatto abbastanza, di essere stata superficiale e di aver così permesso che un uomo morisse.

“Perdonatemi, madre.” sussurrò Bianca, abbassando gli occhi e corrugando la fronte.

“Ti ho detto che con te non ne voglio parlare più.” le ricordò la Tigre, togliendo di scatto la mano dalla sua: “E adesso vai a riposare. È tardi.”

Senza farselo ripetere, la Riario la salutò con un breve inchino e poi andò alle scale più vicine, lasciando le merlature della rocca.

La Contessa sospirò, prendendo il posto lasciato libero dalla figlia. Poteva sentire una sorta di tepore, sulla pietra, laddove fino a pochi istanti prima Bianca aveva tenuto appoggiate le mani. Si mise a guardare nella stessa direzione in cui stava guardando la giovane e nelle ombre scure e quasi innaturali che avvolgevano l'effige di Giacomo, poté rivedere anche lei i fantasmi del passato.

Rimase sui camminamenti ancora per un'ora, controllò che tutto fosse in regola e, quando raggiunse Manfredi, che l'aspettava nella sua tana come ogni sera, si scoprì di pessimo umore.

Per non rovinare quello che riteneva essere l'unico momento di pace della sua giornata, però, cercò di controllarsi, non dando a vedere al suo amante quanto fosse in difficoltà.

Le preoccupazioni politiche, quelle familiari e il ricordo sempre presente del suo secondo marito la stavano schiacciando, quella sera. Eppure, quando si sedette un attimo davanti allo specchio, cercò di apparire tranquilla e rilassata, come se non avesse nemmeno mezzo pensiero per la testa.

Ottaviano era steso a letto, in brache e camicia, le mani dietro la nuca e gli occhietti azzurri che indagavano, poco convinti, il profilo della Leonessa, mentre questa diceva: “Oggi a mezzogiorno faceva abbastanza caldo... Se continua così, scommetto che per i primi di aprile inizierà la primavera.”

“Stai bene?” le chiese, notando, soprattutto, come le sue dita tremassero appena, nello slacciarsi i nodi dell'abito.

La donna, che si era alzata e stava lasciando scivolare in terra il vestito, lo guardò in tralice, ma non rispose. Sentendosi allora autorizzato a indagare più a fondo, il faentino si alzò e le si avvicinò.

“Sto bene.” rispose allora Caterina, conoscendo il fare inquisitorio con cui Manfredi aveva inclinato il capo di lato: “Dovresti comprarti un paio di brache nuove.” soggiunse, tanto per cambiare discorso.

L'uomo abbassò lo sguardo. Sapeva che si stavano lisando sulle ginocchia. Erano state di ottima fattura, ma ormai erano troppo vecchie. Per il resto gli rimanevano un paio di calzabrache, che andavano bene per cerimonie e momenti importanti, e un paio di spesse brache da caccia, di cuoio bollito.

“Sì, lo so...” fece, sospirando: “Quando avrò il denaro per farlo, mi comprerò un'intera cassapanca di brache.”

“Se vuoi, per il momento, te ne posso far confezionare un paio io.” propose la donna, distrattamente, sfiorandogli il fianco con la mano: “In fondo il mio sarto è abbastanza abile.”

“Non ho soldi, al momento.” ribadì il faentino.

“Te le pagherei io.” ribatté la Contessa: “Il mio Stato ha pochi fondi, ma un paio di brache posso ancora pagarlo.”

“Preferisco pagarle da me, le mie cose.” si oppose l'uomo, punto nel vivo del suo orgoglio ferito.

Da quando, da ragazzino, era diventato un esule, la scarsa disponibilità economica era stato per lui un cruccio costante. Aveva detestato ogni alloggio offerto gratuitamente, ogni pasto condiviso senza averlo pagato di tasca propria, ogni abito o arma regalati. Era una condizione che lo faceva sentire sempre in torto, un miserabile, un parassita. Sviliva la sua voglia di rivalsa e alimentava la rabbia che aveva da sempre nel cuore, trasformandolo, a volte, in un tipo di uomo che detestava. Era quella sensazione a caricare i suoi pugni, quando si infilava nelle risse da osteria, sempre quel senso di inferiorità a portarlo poi davanti a un altare a pregare in ginocchio, chiedendo perdono per tutte le sue mancanze.

Detestava quella condizione di precarietà, acuita negli ultimi tempi dalla malafede di Firenze, che gli aveva promesso una cifra decorosa, senza mai mantenere l'impegno preso. A maggior ragione, con la donna che sentiva ormai di amare come mai gli era capitato con nessun altra, non voleva per nessun motivo sentirsi in quel modo.

“Avanti, Manfredi...” sbuffò la Contessa, alzando una mano in segno di impazienza: “Per un paio di brache!”

“Non sono il tuo mantenuto!” sbottò il faentino, senza riuscire a controllarsi, riassumendo in quell'unica esternazione tutta la frustrazione che lo assillava da anni: “Quello che si faceva comprare con favori e bei vestiti era il tuo Giacomo, non io!”

Nel sentirsi attaccata a quel modo, e senza, secondo lei, un reale motivo, la Sforza reagì all'istante, prendendo il suo amante per il colletto della camicia.

“Ecco, brava!” l'aizzò lui, sentendo la propria rabbia defluire come un fiume in piena, impossibile da arginare: “Alza le mani! Quando non sai cosa fare, alzi le mani! Sempre con queste maledette mani!” gridò, prendendola per i polsi, liberandosi dalla sua presa.

“Come ti permetti di parlarmi così?” ribatté lei, spintonandolo: “Io ti ho aperto la mia casa, ti sfamo alla mia tavola e...”

“E in cambio ti aspetti che io dica 'sì, signora' tutte le volte che mi dai ordini!” insistette Ottaviano, i capelli biondi che saettavano ogni volta che si muoveva per schivare i colpi della donna, che aveva ripreso a cercare di colpirlo.

In modo che a entrambi pareva distruttivo e basta, ma che nessuno dei due osteggiò, quella che era nata come una mezza zuffa, li portò a cercarsi in modo diverso. Prendendosi con movimenti furibondi e nel continuo tentativo di prevaricare l'altro, dopo quella che parve a entrambi un'eternità, si trovarono senza fiato, stremati, intrecciati in modo scomposto l'uno all'altra sul letto completamente disfatto.

“Adesso puoi andartene...” fece Caterina, il fiato ancora spezzato, le labbra che, nel parlare, sfioravano il ventre del faentino.

“In queste notti mi hai sempre permesso di dormire con te, dopo.” provò a opporsi lui.

“Ho capito che è stato un errore.” tagliò corto lei e così, dando un pugno al cuscino, in segno di contrarietà, Ottaviano si alzò, sgusciando via dal mezzo abbraccio della Sforza e si rivestì in fretta.

“Lo vedi? Perché mangio al tuo tavolo e dormo nella tua rocca, mi tratti come se fossi uno di quelli che paghi per...” iniziò a dire lui, ma poi si interruppe, scuotendo il capo, non volendo ricordare i pettegolezzi che aveva sentito al bordello, dove si sosteneva che la Contessa, nei suoi momenti più irrequieti, arrivasse perfino a cercare nei ragazzi del postribolo un po' di compagnia.

La donna non disse nulla, restando immobile a fissare il faentino che si sistemava. Non era felice per come era andata la serata. Aveva preso quello che voleva, l'aveva usato, come faceva con tanti altri, ma il vuoto che provava dentro di sé era ancora più profondo di quello che la tormentava quando si prendeva un amante a caso.

“Tanto per sapere... Domani sera mi vorrai ancora?” chiese il giovane, guardandola da sopra la spalla, appena prima di lasciare la camera.

“Sì.” rispose in un soffio la Leonessa, senza guardarlo più.

Annuendo tra sé, Manfredi finalmente aprì la porta e borbottò: “Passa una buona notte. E...” stava per scusarsi per tutto quanto, ma cambiò idea a metà frase e concluse: “E cerca di dormire qualche ora, o a non dormire mai finirai per ammalarti.”

Non sentendo risposta, il faentino sospirò e uscì in corridoio, diretto alla stanza che gli era stata concessa. L'ennesima stanza ottenuta senza dover versare nessun altro obolo in cambio, se non un pezzetto della propria dignità.

 

 
 
   
 
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