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Autore: Adeia Di Elferas    23/12/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina mise di lato la lettera di Baldraccani, che le assicurava di essere già a metà strada e di non aver ancora incontrato alcun ostacolo. Pioggia permettendo, sarebbe arrivato a Milano prima del previsto.

Era felice di sentire che il suo Segretario non avesse avuto problemi, per il momento, ma quella tranquillità delle vie, così chiaramente espressa da Antonio non le tornava. Aveva cominciato da qualche giorno a fare pressioni sui mercanti forlivesi, affinché facessero di tutto per cominciare a convogliare in città beni di ogni tipo – soprattutto cibarie e armi – ma quasi tutti, tornando coi carretti mezzi vuoti, le dicevano che le turbolenze lungo la strada avevano reso loro quasi impossibile portare il carico pieno a destinazione.

Massaggiandosi la fronte, pensosa, la donna prese un nuovo foglio e si apprestò a scrivere di nuovo a suo zio. Sapeva che avrebbe mandato qualcuno dei suoi a Ferrara, ad assistere alle trattative della pace e dunque voleva sfruttare quell'occasione per raccomandargli di nuovo Boschetti, che aveva con il Duca Ercole dei trascorsi poco piacevoli. La Sforza voleva appianare quelle divergenze tra il suo capitano e l'Este, ma sapeva di non avere voce in capitolo con lui. Dunque Ludovico restava la sua carta migliore.

“Madre...” Bianca si affacciò alla porta della camera della Tigre, che non era chiusa a chiave, e rimase un momento in attesa.

La Contessa finì la frase che stava scrivendo e poi, rivolgendosi a lei nel tono più pacato che le riuscì, le chiese: “Hai bisogno di qualcosa?”

“Per la festa di Pasqua...” sussurrò la ragazza, sentendosi improvvisamente una sciocca a non pensare ad altro che quel ricevimento, quando di certo sua madre aveva la mente immersa in importantissimi affari di Stato e bellici: “Ecco, mi chiedevo se foste d'accordo ad avere anche dei musici in sala...”

“Ti ho detto di fare come preferisci.” ribadì la donna, tornando a guardare il foglio steso sulla scrivania, la penna a mezz'aria: “Ma nulla di troppo chiassoso. E resta nel fondo spese che ti ho detto. È giusto far capire che non siamo senza un soldo, ma non è necessario sprecare troppo denaro.”

La Riario annuì, una mano che correva ai capelli biondi per sistemarsi una ciocca ribelle dietro l'orecchio, e poi soggiunse: “Caccerete qualche bestia, per la festa?”

Caterina rimase un po' sorpresa da quella domanda. Non tanto per il suo significato, quanto per il tono con cui la figlia l'aveva espressa. Era un tono speranzoso, quasi che si augurasse che la madre andasse a caccia, non solo per avere carne buona da servire agli ospiti, ma anche per vederla svagarsi un po'.

Appoggiando la penna alla scrivania, la Sforza deglutì e disse: “Potrei... Ma non so se ne troverò il tempo.”

“Spero che ci riusciate.” sorrise appena la ragazza, chinando poi un po' il capo, a mo' di saluto.

“Ah, Bianca!” la richiamò la madre, facendola tornare subito sui suoi passi: “Hai sentito di Giovan Francesco Sanseverino?”

Nel sentire nominare l'uomo che era stato ospite da loro per un bel po', con la scusa di riprendersi da un'improvvisa infermità, la Riario scosse il capo, rendendosi conto di non aver mai più pensato a lui, da che se n'era andato da Ravaldino.

“Si è sposato con Barbara Gonzaga, a Bozzolo.” raccontò la Tigre: “Alla fine, ha trovato una sposa migliore di me e te messe insieme, non trovi?”

Ricambiando stentatamente la mezza risata della madre, Bianca chiese: “Barbara la figlia Gianfrancesco? Quella che doveva sposare Diomede Carafa?”

Ciò che aveva attirato la sua attenzione, riguardo alle chiacchiere che aveva sentito mesi addietro sul matrimonio tra la Gonzaga e Carafa non era stato tanto né la portata di quelle nozze, né il fatto che poi fossero sfumate, con grande scorno, per vari motivi, di ambo le parti.

Ciò che l'aveva messa sull'attenti era stato il fatto che Barbara aveva più o meno la sua età. In un certo senso, quel dettaglio l'aveva portata a immedesimarsi in lei e a chiedersi che ne sarebbe stato di lei, se sua madre l'avesse davvero ceduta come sposa a qualcuno, che questi fosse Astorre Manfredi o un altro uomo qualsiasi.

Si era messa a pensare a ogni dettaglio, non solo al dover lasciare la propria casa e la propria famiglia, ma anche e soprattutto a dover condividere l'intimità con uno sconosciuto, a dover partorire i suoi figli, a dovergli restare fedele, senza la possibilità di trovare un compagno di vita voluto e non imposto, salvo rischiare finanche la vita, in caso fosse stata scoperta.

Ragionarci sopra le aveva permesso di apprezzare ancora di più la propria condizione che, per quanto moderatamente precaria, le stava regalando anni di libertà che nessuno le avrebbe mai più potuto strappare.

“Lei.” confermò la Contessa: “E vedrai, l'hanno data come moglie al Sanseverino convinti di avvicinarsi a Milano... Aspetta che i francesi scendano davvero di nuovo in Italia e vedremo quel voltafaccia di Giovan Francesco cosa farà...”

La giovane deglutì, sapendo che probabilmente sua madre aveva ragione. Difficilmente si sbagliava su quel genere di cose e le era grata come non mai, in momenti come quello, di averla risparmiata sempre da matrimoni trappola.

Con Astorre non aveva avuto scelta, ma fino a quel momento era sempre riuscita a tenersela vicina e a non cederla in via definitiva a Faenza. Adesso era arrivata ad architettare un periglioso piano per renderla vedova e quindi libera e dandola in sposa a Ottaviano Manfredi, in pratica, la voleva rendere libera in modo definitivo, tutelandola con un marito di facciata e permettendole di vivere la propria vita sentimentale nel modo più autonomo che fosse possibile per una donna del suo rango.

Avrebbe voluto fare qualcosa, per sdebitarsi con lei, ma c'era ben poco che potesse fare in concreto.

Avrebbe voluto poter tornare indietro nel tempo ed evitare la morte di Giacomo. Parlare a sua madre dei suoi sospetti e poi delle sue certezze. Fare la spia e sventare la congiura ordita dai suoi fratelli. Ma non si poteva.

Così cercava di ripiegare su altri modi, per ringraziare la Tigre. Si era offerta di occuparsi della festa di Pasqua, perché le era stato chiaro che sua madre la volesse fare per mantenere una buona facciata, ma non avesse alcuna voglia di occuparsene e poi, per quanto apparentemente inutile, voleva cercare di indurla a riposarsi un po'.

Si diceva che la Contessa non dormisse quasi mai, e l'aspetto tirato del suo volto in quei giorni non toglieva alcun dubbio, e le sue giornate erano un continuo rincorrersi di impegni e sforzi sia fisici sia mentali. C'era solo una cosa, che Bianca sapesse, capace di farla distendere un minimo.

“Vi prego, madre – fece la Riario, appena prima di salutarla di nuovo – prendetevi qualche ora per andare a caccia. Ne avete bisogno.”

Caterina, mordendosi il labbro, sospirò e convenne: “Hai ragione. Lo farò.”

 

“Burckardt avete fatto un ottimo lavoro... Sì, è stato davvero come me lo aspettavo...” fece Alessandro VI, raggiungendo il cerimoniere nel salottino in cui lo stava attendendo.

Era ormai scesa la notte su quel Giovedì Santo e Rodrigo Borja non avrebbe potuto sentirsi più stanco e soddisfatto assieme.

Aveva voluto fortemente indire quel Giubileo Straordinario proprio appena prima di Pasqua, appena dopo l'emissione delle bolle con cui spodestava, almeno sulla carta, tutti i signori di Romagna, concedendo a suo figlio Cesare il vicariato di tutte quelle terre.

Per il momento, nessuno dei destinatari di quegli ordini aveva fatto quanto richiesto, né pareva che qualcuno di loro volesse davvero dare battaglia a Roma. Sembrava, piuttosto, che tutti quanti stessero attendendo un'altra mossa del papa, una richiesta di soldi, magari, o di regalie. Solo il pontefice sapeva che quelle richieste non sarebbero ami arrivate: lui voleva il dominio assoluto sulla Romagna e, da lì, sul resto d'Italia.

Da quando sua figlia, poi, aveva perso il bambino, agli inizi di febbraio, si sentiva anche molto meno legato agli Aragona e quindi anche Napoli, forse, avrebbe potuto essere nel suo raggio di interesse, una volta pacificata la Romagna.

“L'apertura di ben quattro Porte Sacre è stato un colpo di genio, Burckardt, un vero colpo di genio... Nulla da invidiare a quel panzone dello Sforza, che continua a millantare di avere a corte il più grande cerimoniere della Storia... Quel... Come si chiama?” fece il papa, andandosi a sedere su una poltrona, davanti Johannes.

Questi, con il suo forte accento tedesco, completò il pensiero del Santo Padre: “Leonardo, Vostra Santità, viene da Vinci, se non erro...”

“Ecco, lui.” fece il Borja, sollevando l'indice e annuendo: “Come vi è parso che sia stata accolta, l'apertura della nuova Via Alessandrina?”

Il Vescovo Burckardt sorrise, benevolo e rispose: “Credo sia piaciuto a tutti, Vostra Santità. Così come il Borgo Nuovo. Credo che riuscire a inaugurare entrambi oggi sia stato davvero il massimo.”

“Il nuovo secolo aveva bisogno di questo Giubileo, Johannes.” fece Rodrigo, premendosi le dita sugli occhi, sopraffatto da un attacco di sonno che lo indusse anche a sbadigliare: “Tra poco mesi saremo nel Millecinquecento, tutti dovranno ricordarsi di me e dei Borja, tutti dovranno collegare il nuovo secolo al nostro nome.”

“Vostra Santità – una delle guardie che il papa aveva messo alla porta del salone, si era affacciata sulla porta – c'è vostra figlia. Vorrebbe parlarvi...”

Burckardt sollevò ambo le mani e disse: “Me ne vado, Vostra Santità. Vi lascio con vostra figlia, avremo modo di parlare ancora di questa cerimonia domani.”

Alessandro VI, il naso imponente che vibrava appena, lo ringraziò ancora e gli concesse di allontanarsi con un cenno della mano.

Lucrecia entrò con passo un po' titubante, incontrando proprio sull'uscio il Vescovo, che la salutò con ossequio, com'era nel suo stile.

“Vieni qui, bambina mia...” le fece Rodrigo, sistemandosi un po' sulla poltrona, la papalina storta sulla testa e la mano sollevata a chiamarla a sé.

La giovane fece come le veniva detto, ma non si sedette, quando le parte le indicò l'altra poltrona.

“Volevo farvi i complimenti per la cerimonia di oggi.” disse, con voce un po' roca.

“Ti ringrazio, ma potevi aspettare domani. A quest'ora sarai stanca... Il banchetto è durato più di quel che credevo... Faresti meglio ad andare a dormire.” ribatté l'uomo, che sentiva ancora i meravigliosi intingoli e i forti vini assaggiati quella sera rimescolarsi nel suo stomaco.

Erano ancora in Quaresima, ma non poteva certo morire di fame o far languire i suoi ospiti. Era un marchio della sua famiglia, essere generosi con chi sedeva a tavola accanto a un Borja.

“Non c'è solo questo... Padre...” Lucrecia si tormentò per un momento il polsino ricamato del suo abito da sera e poi, sollevando sul papa i suoi occhi, così profondi e tentacolari da saper aggrapparsi anche a un'anima sfuggente come quella di Alessandro VI, annunciò, rapida e secca: “Sono incinta.”

Il Borja parve raggelarsi di colpo. Tutte le sue congetture di poco prima su Napoli andavano a finire in cenere in un colpo solo.

Il modo, comunque, in cui la figlia gli aveva parlato, lo mise in forte agitazione. Puntellandosi sulla poltrona, si sporse in avanti e le prese una mano tra le sue.

Schiarendosi la voce un paio di volte, le chiese: “Così presto? Ma com'è potuto accadere? Non siete stati attenti? È troppo presto... Vi è successo per errore? Ma poi, ne sei sicura? Ha perso da poco l'altro bambino... Non potresti sbagliarti? È di tuo marito?”

All'ultima domanda, la ragazza sottrasse la mano alla stretta del padre e, arrossendo con violenza, rispose: “Certo che è di mio marito. E l'abbiamo voluto, l'abbiamo voluto tantissimo. E ne sono sicura, sì. Ho già chiesto anche alla levatrice e anche lei pensa...”

“Ti sei fatta visitare dalla levatrice prima di parlarne con me?!” lo scatto di rabbia del pontefice fu talmente improvviso che la giovane si ritrasse di un paio di passi, quasi temendo di vedersi colpire.

Resosi conto della sua reazione fuori luogo, Rodrigo respirò a fondo un paio di volte e si rimise seduto.

“Volevo dirvelo prima, ma ho trovato il coraggio solo adesso.” confessò Lucrecia: “Perché è da un po' che avevo il sospetto, ma...”

“Sono tuo padre. Queste cose me le devi dire subito. Non devi avere paura di me.” sottolineò Alessandro VI, una mano sulla fronte e l'espressione cupa che stava spazzando via tutta la gioia di quel giorno.

“Sì, lo so, ma...” balbettò la ragazza, la gola che le bruciava un po' e gli occhi che pizzicavano.

Ma cosa?” indagò il padre, guardandola di sottinsu.

Quella figlia era stata la sua benedizione e la sua condanna. Impalpabile come una brezza marina e poi distruttiva come una tempesta. Non era mai riuscito a non viziarla, eppure non era nemmeno mai riuscito a lasciarla davvero libera. E lei glielo faceva pagare, di continuo, con i suoi sguardi, i suoi movimenti, i suoi atteggiamenti provocanti... Sarebbe stata la sua dannazione, era venuta sulla Terra al solo scopo di farlo andare all'Inferno...

“Quando sono rimasta incinta la prima volta, voi...” provò a spiegare la giovane.

“Stavo trattando il tuo divorzio con lo Sforza! Ti sei fatta mettere incinta non so ancora adesso da chi! Come potevo non arrabbiarmi?!” sbottò il Santo Padre, picchiando una manata contro il bracciolo della poltrona e sputacchiando a ogni parola.

Stringendo le mani a pugno, e guardando in terra, Lucrecia si lasciò scivolare addosso quelle frasi, così come il ricordo del suo piccolo Giovanni, che era uscito dal suo corpo, aveva bevuto il suo latte e poi era stato affidato alle suore, come un orfano.

“Se questo sarà un maschio – sussurrò, accarezzandosi il ventre che ancora non lasciava minimamente intravedere la nuova vita che vi stava crescendo – io e Alfonso lo chiameremo Rodrigo. È questo che ero venuta a dirvi.”

Prima che il papa riuscisse ad assorbire quella notizia, la ragazza aveva già voltato i tacchi, piangendo sommessamente, lasciando il salotto.

“Rodrigo d'Aragona.” sbuffò il pontefice, dopo quasi dieci minuti: “Non suonerà mai bene come Rodrigo Borja.”

 

“E non se l'è presa?” chiese Tommaso Feo, guardando in tralice la sorella.

Lucrezia, fingendo di affaccendarsi con le fiamme del camino, scosse il capo: “Simone è un uomo intelligente, ha capito che gli affari di campagna, lasciati al loro destino, finiscono in malora.”

“Se ti parlo altri cinque minuti finirai per farmi credere che è addirittura stato lui a dirti di restare qui, mentre è a Forlì!” la zittì il fratello: “Sei sempre stata brava, tu, con le parole. Hai sempre saputo far fare a tutti quello che volevi!”

“Perché sei tornato qui nell'imolese per Pasqua? Solo per criticare me?” lo rimbrottò la sorella, voltandosi di scatto verso di lui: “Per sputarmi in faccia in tuo rancore? Guarda che lo so che non è con me che ce l'hai, ma con la tua maledetta Tigre!”

“Vuoi forse negare di essere una manipolatrice?” continuò imperterrito Tommaso, gli occhi scuri che apparivano quasi spersi, come se si stesse impelagando nelle nebbie della sua mente: “Ti ricordi quando mi aveva chiesto, quindi anni fa, di intercedere presso la Sforza e farti trovare un marito ricco?”

La Feo si morse le labbra e incrociò le braccia sul petto. I capelli neri erano un po' in disordine e le sue gote erano rosse, infervorate per la discussione che con il fratello era sempre sul filo del rasoio.

“Sai quanto mi era costato, scrivere a una donna che quasi non conoscevo e di cui era innamorato perso, per chiedere un favore per mia sorella?” chiese il Feo, prendendo dal tavolino davanti a sé il calice di vino caldo speziato che gli era stato servito ormai da oltre mezz'ora: “L'avevo fatto solo perché mi sentivo responsabile per te. Come mi sentivo responsabile per tutti, per Giacomo e per...”

“Ascoltami – lo interruppe bruscamente Lucrezia – non siamo più ragazzini. Quando siamo rimasti senza genitori ci hai fatto da figura paterna e te ne ringrazio, ma adesso ognuno ha la sua vita, quindi smettila di rinfacciarmi certe cose.”

“Sei solo un'ingrata.” rimarcò l'uomo: “Se non fosse stato per la mia protezione ora...”

“E Giacomo come l'hai protetto?” fece la sorella, sapendo che quello era l'unico vero punto debole di Tommaso, assieme al suo amore disperato per la Contessa.

L'ex Governatore di Imola bevve un sorso di vino, trovandolo ormai freddo, amaro e completamente indigesto. Non lo risputò nel bicchiere solo per non apparire un villano.

Si alzò e borbottò: “Sono tuo fratello, dovresti portarmi rispetto.”

“Se sei tornato dal Bosco solo per venire qui a farmi la predica, te ne puoi anche andare.” mise in chiaro la donna.

Tommaso ci pensò un istante. Aveva lasciato il Bosco in un impeto di tristezza. Si era sentito solo e si era subito messo in viaggio. Arrivato a Imola era stato sulla tomba di sua moglie Bianca e di sua suocera. Aveva pregato per loro e poi, arrivando la sera, si era chiesto dove passare la notte.

La soluzione che gli era parsa più sensata era stata andare da sua sorella, ma evidentemente aveva fatto male i suoi calcoli.

“Me ne vado.” tagliò corto: “Tanto non avevo ancora disfatto i bagagli.”

“Bravo, finalmente capisci qualcosa. Sei dovuto arrivare ad avere quasi quarant'anni, per fare un ragionamento sensato.” nelle parole di Lucrezia c'era più veleno che buon senso.

Il fratello fu sul punto di ribattere, ma alla fine lasciò perdere. Non aveva più voglia di litigare, nemmeno per un motivo che gli pareva giusto. Avrebbe trascorso la notte in una locanda e poi, magari, avrebbe preso un alloggio in città per qualche giorno. Se avesse trovato il coraggio, sarebbe andato a Forlì.

Il clima malinconico di quei giorni gli aveva fatto tornare in mente Caterina, ma non solo lei. Pure Bernardino. Era pur sempre suo nipote, il figlio di suo fratello. Non lo vedeva ormai da anni e non poteva non soffrire di quella distanza.

Ricuperate le sue cose, senza che Lucrezia andasse alla porta della magione a salutarlo, il Feo rimontò a cavallo e diede ordine al suo carrettiere di seguirlo.

Sollevò gli occhi verso il cielo e cercò di ritenersi fortunato: c'erano le stelle, nemmeno una nuvola e la luna illuminava il suo cammino.

 

Caterina restava con la schiena appoggiata alla testiera del letto. Nella tana si era creata una bolla di tepore che le permetteva di non avvertire il minimo freddo, benché fosse nuda. Con una mano, distrattamente accarezzava i lunghi capelli biondi di Manfredi, che teneva la testa abbandonata sul suo ventre, dandole le spalle, le braccia strette attorno alle sue cosce.

Si era messo in quella posizione non appena la passione tra loro si era spenta, e non si era spostato più.

Erano entrambi in silenzio da parecchio tempo, assorti nei loro pensieri, smangiati dalle preoccupazioni e dalle difficoltà. L'illusione di un sollievo, di un'evasione, che avevano avuto fino a poco prima, mentre si annullavano l'uno nell'altra era svanita in fretta ed era rimasta solo la realtà.

“Non lo senti anche tu, a volte?” sussurrò Manfredi, seguendo il filo dei propri pensieri, cogliendo un po' alla sprovvista la donna, che in quel momento stava facendo un conto mentale delle corazzine che ancora avrebbe dovuto far forgiare per poter equipaggiare in modo sicuro almeno gli uomini di stanza a Forlì.

“Che cosa?” gli chiese, smettendo di passargli la mano sui capelli e sistemandosi un po'.

Ottaviano si rigirò, tornando a quel modo a fronteggiarla, ma senza l'intenzione di riprendere la loro schermaglia amorosa: “Come un... Un laccio, che ti stringe la gola e ti toglie il fiato.” tentò di spiegarsi, portandosi una mano al collo, quasi a mimare quella tremenda sensazione.

La Tigre sentiva il petto del suo amante avvicinarsi al suo, il suo corpo, in quel momento avvertito come ingombrante e prepotente, addosso.

Allontanandolo da sé con un gesto abbastanza deciso, rispose, in un soffio appena udibile: “A volte sì.”

“E come fai, quando ti capita?” chiese l'uomo, scostandosi come lei aveva tacitamente chiesto e mettendolesi accanto, anche lui seduto contro la testiera del letto.

La notte era ormai inoltrata e il silenzio che riecheggiava nella tana della Sforza era il simbolo più perfetto di quell'ora. Forse sui camminamenti i passi e qualche parola svelta delle guardie avrebbe rotto un po' quella pace, ma lì, tra lei e il faentino, c'era solo il suono leggero del loro respiro, le loro parole appena sussurrate e il crepitio del camino ancora acceso a contrastare quella quiete.

La Contessa si morse le labbra, piegando le gambe e circondandole con le braccia, avvertendo improvvisamente un po' di freddo. Forse, fino a qualche istante prima, era stato il corpo di Manfredi a scaldarla, più che le fiamme del camino.

“Ti sei mai chiesto perché a volte bevo più di quel che sarebbe opportuno, o perché ci sono periodi in cui cambio un uomo a notte?” gli domandò, guardandolo con un sopracciglio alzato.

Ottaviano non disse nulla, ricambiando il suo sguardo con un'intensità che le ricordava un po' quella che aveva offuscato la vista di Giacomo, le poche volte in cui aveva cercato di capire qualcosa in più di lei. Quando il suo secondo marito era vivo, però, lei non aveva ancora preso certe brutte abitudini. Non faceva ancora gli incubi dilanianti che l'avevano assillata dal giorno in cui Giacomo era morto. Aveva solo il fantasma di Girolamo, a tormentarla, e poi quello di Mordano, eppure, anche se a quei tempi la sua mente era più lineare, suo marito non riusciva comunque a capirla fino in fondo.

“Ecco, quando lo faccio, lo faccio perché è il mio modo per cercare di allentare un po' il cappio.” si risolse a dire lei, dato che il faentino pareva incapace di formulare un'ipotesi a voce alta.

“E ce la fai?” chiese lui, gli occhietti azzurri che inseguivano quelli verdi dell'amante, faticando a incrociarli.

Caterina deglutì e ammise: “No.”

“Tra poco sarà Pasqua.” cambiò discorso Ottaviano, mettendosi a fissare il camino: “Tu credi nella Resurrezione?”

“Non sono la persona adatta a cui fare domande di teologia.” ribatté la donna, prendendo un lembo del lenzuolo per coprirsi.

“Non ti ho chiesto nulla di teologia, ti ho chiesto se ci credi, è diverso.” fece notare lui, ben capendo, però, che con quella domanda si era precluso ogni tipo di dialogo con lei, almeno per quella notte.

“Faresti meglio a ritirarti nelle tue stanze, adesso – sussurrò la Leonessa – sono stanca e ho bisogno di dormire qualche ora. All'alba esco a caccia e devo essere presente a me stessa, se non voglio diventare io la preda di qualche bestia selvatica.”

“Posso venire a caccia con te?” si offrì Manfredi.

Non aveva mai amato molto, la caccia, e a conti fatti non partecipava a una battuta da anni. Quasi non si ricordava nemmeno come si facesse. La trovava un'occupazione noiosa e futile, più adatta a dei servi di cucina che non a un nobile.

Ma pur di passare del tempo con la sua donna, avrebbe accettato anche di restare per ore al freddo, immobile dietro a un cespuglio, pregando per l'arrivo di una lepre.

“No.” fu tutto ciò che gli venne risposto.

“Perché no?” continuò lui: “Posso aiutarti e in due è meno pericoloso e...” provò a dire lui, fingendo di non accorgersi di quanto la sua amante si stesse indisponendo.

“Ti ho detto di no. Smettila di insistere.” lo zittì: “E adesso vattene, ti ho detto che devo dormire.”

Grattandosi il mento, l'uomo desistette. Si alzò dal letto, si rivestì con calma, passando continuamente davanti alla donna, quasi volesse mettersi in mostra.

Quando alla fine fu pronto, andò alla porta e l'avvisò: “Verrà un giorno in cui rimpiangerai di non avermi tenuto più stretto a te.”

“Hai per caso intenzione di passare dalla parte dei veneziani?” chiese la Sforza, accigliandosi.

Non era mai riuscita a fidarsi in modo completo del faentino e quella frase, buttata lì quasi per caso, come colpo di coda della frustrazione per un rifiuto che a lei pareva in realtà abbastanza futile, per scaldarlo così tanto, la mise subito in allarme.

“Ma quali veneziani...” sbuffò lui, scuotendo il capo: “Non tutti continuano a pensare solo agli affari di Stato come fai tu, sai, Tigre?”

“Vai al diavolo, Manfredi, mi hai già fatto perdere abbastanza tempo.” fece lei, rispondendo più sull'onda emotiva che non con un ragionamento logico.

Ottaviano si ravviò i lunghi capelli e, guardandola un'ultima volta, la salutò con un: “Vai al diavolo anche tu, Tigre.”

 
 
   
 
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