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Autore: Adeia Di Elferas    24/12/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Andato via Manfredi, la Sforza aveva lasciato anche lei la tana e si era trasferita nella sua stanza ufficiale. Ci aveva messo un po' a prendere sonno, ma, quando c'era riuscita, non si era risvegliata all'ora in cui aveva sperato di alzarsi.

L'unica pecca di quel risvegliò era stato il motivo: un terribile incubo che le aveva tolto il fiato e l'aveva sorpresa, quando, nell'aprire gli occhi, non era trovata con le mani coperte di sangue come nel sogno.

Mancava ancora un po' all'alba, e così se l'era presa comoda. Si era vestita con attenzione, scegliendo abiti caldi e comodi. Nel cercare nella cassapanca si era resa conto di avere pochi vestiti in ordine. Negli anni, un po' per mancanza di occasioni, un po' per non spendere soldi e un po' per partito preso, non si era mai fatta confezionare nulla di nuovo e come risultato si trovava con un guardaroba degno di una dama di compagnia di infimo rango, se non della moglie di un luogotenente, e non di una Contessa.

Infilati gli stivali da caccia, aveva lasciato la sua camera, era andata nella sala delle armi e, senza indugio, aveva preso arco e frecce, una spada e la lancia da cinghiale che le aveva regalato Giovanni.

Preparò da sola il suo stallone, sistemando con cura le armi, e poi, dopo aver fatto sapere al castellano che sarebbe tornata entro il primo pomeriggio, nella nebbiolina rada che precedeva il sorgere del sole, uscì da Ravaldino, diretta alla sua riserva di caccia.

Cavalcò a lungo, godendosi l'aria ancora fredda che le sferzava il viso. Marzo stava finendo, ma l'odore del bosco le pareva ancora più invernale che non primaverile.

Affiancò la casina, tentata di entrare per riposare un po', ma poi si trattenne, restando a cavallo, e raggiunse uno dei punti del bosco in cui più facilmente trovava buone prede.

Legò il suo purosangue in un punto riparato, e poi, portando con sé la lancia e l'arco, si appostò.

Lasciò andare la piccola cacciagione: un paio di lepri, qualche coniglio, perfino un cinghialotto solitario che, dopo una vaghissimo momento di incertezza, era scappato.

La vera occasione le si presentò quando vide una daina. Camminava lenta, placida, il naso umido che saggiava l'aria fragrante, le zampe che affondavano nella terra un po' ammorbidita dall'umidità.

La Sforza trattenne il fiato. La bestia non si era minimamente accorta di lei. Aveva scelto una posizione ideale, controvento, e il cespuglio dietro cui si era accucciata era abbastanza folto da coprirla in modo pressoché perfetto.

Incoccò una freccia, badando bene a non far troppo rumore con la corda dell'arco, e poi fissò con attenzione l'animale, sapendo che nel momento stesso in cui sarebbe uscita allo scoperto avrebbe avuto appena il tempo di un respiro, per scoccare e colpire la sua preda.

Tuttavia, mentre l'osservava, notò il ventre rigonfio e teso. Si rese conto che la daina era incinta e che non le doveva mancare poi molto al parto. Da brava cacciatrice, Caterina sapeva che mancavano minimo un paio di mesi, alla nascita dei cuccioli, ma sarebbe stata pronta a scommettere che quella bestia avrebbe figliato un po' prima.

Tenne ancora per qualche istante le dita strette attorno alla cocca della freccia, ma poi abbandonò l'idea e, deliberatamente, mosse qualche ramo del cespuglio, spaventando la daina e lasciandola scappare.

Quell'episodio la rese pensierosa e dovette girare per un bel pezzo in mezzo alle piante, prima di riuscire a tornare calma. Alla fine, ricordandosi della mezza promessa fatta a Bianca, si rimise in cerca di qualche animale degno della sua attenzione.

Trovò molto più facile puntare l'arco contro un grosso cervo, le cui corna mostravano come nel pieno della giovinezza. Era un esemplare magnifico, muscoloso e forte. La Tigre fu felice di essere riuscita a ucciderlo con un unico, subitaneo dardo che gli si conficcò nel collo. Era il suo modo di mostrargli il suo rispetto, non farlo soffrire inutilmente. Il suo modo per ringraziarlo per la sua bellezza e per la succulenza delle sue carni.

Scuoiò l'animale e lo macellò, come faceva sempre, prendendosi per sé quel tempo, permettendo alla sua mente di svuotarsi del tutto, mentre il sangue ancora rovente della bestia le sporcava le mani.

Rendendosi conto solo al momento di ripartire di quanto fosse grossa la sua preda, si decise a caricarla sullo stallone, conducendo poi il purosangue a mano.

Ci avrebbe messo parecchio, ma si sarebbe goduta quella passeggiata lenta e soligna, prima di rituffarsi nella confusione della sua vita.

 

Bernardi aveva appena finito di scaricare i suoi bagagli che già i primi curiosi si erano avvicinati per chiedergli notizie. Volevano sapere dove fosse stato, perché fosse stato via così tanto e come mai fosse infine tornato.

Il barbiere, che si era quasi dimenticato di quanto fossero pettegoli i suoi concittadini, riuscì comunque a non perdere la pazienza, scrollandoseli tutti di dosso e chiudendoli fuori, quando entrò in casa.

Si prese qualche minuto per sistemarsi, facendosi perfino la barba e cambiandosi d'abito, e poi uscì di nuovo. Quando era partito alla volta di Bologna, la Contessa era stata abbastanza chiara, nel fargli capire che voleva essere tenuta informata sui suoi spostamenti.

Era stato tentato di mandarle una lettera, prima di lasciare la sua città d'origine, ma alla fine aveva preferito mettersi in strada e basta, pensando che, mettendosi di buon passo, sarebbe arrivato prima lui di un eventuale messaggio.

Con una determinazione dipinta in volto che, a chi lo incontrava, ricordava un po' quella di un condottiero deciso a espugnare una città imprendibile, l'uomo attraversò Forlì a marce forzate, arrivando a Ravaldino in pochissimo tempo.

Passò accanto alla statua del Barone Feo, senza sollevare lo sguardo verso il suo profilo di bronzo, e poi si presentò alle guardie, che, pur conoscendolo, gli chiesero chi fosse e perché fosse lì.

“Sono Andrea Bernardi – rispose lui, tentando di non offendersi per il fatto di dover dire il proprio nome, come fosse uno sconosciuto – e devo incontrare la Contessa.”

I due soldati si guardarono un momento e poi uno di loro chiese di aspettare e entrò nella rocca.

Dopo qualche minuto, restando all'altezza del rastrello aperto, si palesò il castellano, che, vedendo il Novacula, chiese: “Che volete?”

“Cerco la Contessa. Devo dirle che che sono tornato, dato che voleva sapere i miei spostamenti e volevo anche parlarle di alcune cose che ho visto e udito mentre ero a Bologna.” spiegò il barbiere, osservando per un po' Cesare Feo, cercando di trovare in lui un'eco di quello che era stato suo nipote Giacomo, il giovane così bello da essere riuscito a far perdere la testa a una donna forte come la Tigre.

Mentre giungeva alla conclusione che, benché i due condividessero in parte il sangue, non condividevano alcun tratto somatico, il castellano gli disse: “La Contessa non c'è, e non so quando torna. Se avete qualcosa da dire, potete dirla a me, e io la riferirò.”

“Ma la Contessa...” provò a dire il Novacula, con un mezzo passo avanti.

“Vi ho detto che non c'è.” ripeté il Feo: “Potete riferire a me.”

Ad Andrea quella sembrava tanto una scusa. Tuttavia, non aveva voglia di fare polemiche. Lui si era presentato, se poi era la Sforza a non volerlo vedere, era tutta un'altra questione. Nel caso, invece, in cui quella non fosse stata solo una frottola, ma la realtà, allora avrebbe atteso un altro momento per incontrarla.

“Preferisco riferire direttamente a lei.” declinò il barbiere e, toccandosi la fronte con un dito, come se avesse fatto il gesto di levarsi una berretta che non portava, salutò e girò sui tacchi.

“Davvero la Contessa non c'è?” chiese Luffo Numai, che, nel frattempo, aveva attraversato il ponte levatoio e stava raggiungendo a sua volta l'ingresso di Ravaldino.

Le guardie lo lasciarono passare, questa volta senza fare alcuna domanda, come da ordini della Sforza, e, appena fu accanto al castellano, gli domandò: “Dov'è andata?”

A bassa voce, ma non abbastanza bassa da riuscire a non farsi sentire, una delle due guardie, dando di gomito all'altra, commentò: “E dove vuole che sia andata? Sanno tutti che quella donna vive solo per tre cose: i cannoni, la caccia e il ca...”

“Attento a come parli tu!” lo riprese Cesare Feo, fermandolo all'istante, prima che potesse completare la frase: “Dirò subito al Primo Capitano Maldenti di sostituirti e di metterti in punizione!”

Il soldato, giovane e dalla lingua troppo sciolta, sbiancò, ben sapendo che Maldenti, con i sottoposti da punire, era tutt'altro che morbido. Non provò, comunque, a cercare di scusarsi, sapendo che in tal modo avrebbe solo aggravato la sua posizione.

“A caccia.” soffiò il Feo, rivolgendosi a Luffo Numai, mentre lo accompagnava nelle viscere della rocca: “La Contessa è andata a caccia.”

 

“Riferite al comandante Orsini che sono di diverso avviso e che non approverò nessun tipo di attacco o rappresaglia a Cortona, tanto meno nel perugino.” fece Barbarigo, con tono un po' stanco, il mento appoggiato a una mano e gli occhi lontani.

Il portavoce di Niccolò, mandato a Venezia espressamente per ottenere il nulla osta per quelle operazioni, provò a suggerire: “Devono quindi provare nuovamente a forzare il blocco di Paolo Vitelli e concentrarsi sul fronte fiorentino?”

Il Doge scosse il capo, restando momentaneamente in silenzio. Avrebbe voluto mettere davanti al naso di quel messaggero la realtà dei fatti, ma si rendeva conto di quanto fosse giovane e ingenuo: non avrebbe capito.

Già pareva un pesce fuor d'acqua, in quel salone decorato con oro e affreschi, figurarsi se avesse potuto capire gli affari di Stato o quelli internazionali.

Appena dopo Pasqua sarebbe stata trovata una pace, con Firenze, e la guerra sarebbe diventata di ben altra portata. La Signoria sarebbe passata da essere una loro acerrima nemica e una loro tiepida alleata.

Milano, quello era il nuovo fronte contro cui schierarsi. I francesi cercavano alleati forti in Italia e Venezia avrebbe avuto il suo ruolo, guadagnandoci il più possibile.

Da quando quel maledetto Cristoforo Colombo aveva cominciato a raccontare storie su una terra lontana e inesplorata, Barbarigo aveva notato uno spegnersi – lento, ma inesorabile – del traffico in laguna.

Era un uomo lungimirante e a modo suo visionario e sapeva che alla fine la ricchezza si sarebbe spostata sempre più a ovest, abbandonando la via della seta, prediligendo quelle traversate da avventurieri verso una landa desolata e ignota.

Aveva sentito dire che dall'ultimo viaggio quel maledetto genovese aveva portato delle campionature di tutti i tesori trovati al suo sbarco. Per la stima che portava verso i genovesi, era arrivato a credere che fosse tutta una truffa, ma doveva ammettere che, truffa o meno, quella dimostrazione aveva fatto breccia nella fantasia e nella sete di danaro di molti.

Non si sarebbe sorpreso se alla fine i commerci e le ricchezze sarebbero scivolate nemmeno nelle mani di Genova, ma addirittura degli spagnoli! Anche il papa l'aveva intuito e fin dall'inizio del suo pontificato aveva emesso bolle e dato ordini per assicurarsi un posto nel Nuovo Mondo. Nemmeno lui aveva capito le reali potenzialità di una terra che nemmeno si sapeva quanto fosse estesa, ma a scanso di equivoci aveva subito messo in chiaro che una parte della torta doveva finire anche a lui e alla Chiesa.

Il Doge, nel suo piccolo, aveva invece tentato di ravvivare le vie commerciali tradizionali, agevolando i commerci e impegnandosi senza sosta contro i turchi, che sembravano essere nati solo per rompergli le uova nel paniere.

Era tutto uno sforzo vano, però. Aveva sentito abbastanza racconti e letto abbastanza dispacci per capire che il mondo – il Vecchio Mondo – sarebbe cambiato per sempre, e tutto per colpa di un genovese che aveva voluto strafare.

Forse lui non sarebbe vissuto abbastanza per vederlo, ma sentiva che Venezia stava vivendo gli ultimi sprazzi di vita e voleva cercare di ritardarne la fine il più possibile.

“Dite a Niccolò Orsini – sospirò Barbarigo – di tornare nel ravennate e attendere lì i miei nuovi ordini.”

Il messaggero schiuse le labbra, per aggiungere qualcosa, ma il Doge sollevò una mano nodosa e scosse il capo, frenando le sue rimostranze sul nascere.

“Andate e riportate le mie parole al vostro comandante.” disse: “E prestate attenzione, lungo la strada. Mi dicono che di questi tempi non ci si possa fidare nemmeno più dei romiti.”

 

“Mia signora – disse Cesare Feo, intercettando Caterina che era appena rientrata alla rocca – è stato qui Andrea Bernardi, poco fa, chiedeva di voi.”

La donna, stanca per la lunga camminata, che, tuttavia, l'aveva aiutata a distendere i nervi, guardò in tralice il castellano e chiese: “E che voleva? Dirmi che è tornato?”

“E parlarvi di quello che ha visto a Bologna.” aggiunse l'uomo.

La Contessa si guardò un momento l'abito. L'aveva coperto di malta, nel tornare a Ravaldino a piedi. Non voleva andare alla barberia in quello stato, quindi, comunque, prima avrebbe dovuto cambiarsi.

“Andrò da lui nel pomeriggio.” decise.

Il castellano annuì e poi riprese, mentre la donna indicava la bestia che aveva catturato e già macellato a un paio di servi di cucina che erano accorsi a vedere se vi fosse qualcosa da portare in dispensa: “E poi è arrivata questa da Firenze.” e le porse una lettera: “E messer Numai vi cercava per discutere di quelle lettere che volete spedire ai signori di Romagna per...”

“E che diamine, Cesare! Sto via per un paio d'ore e quando torno non mi lasciate nemmeno il tempo di respirare!” esclamò la Tigre, sentendosi già risucchiata nel gorgo dal quale si era illusa di poter scappare passando una mattinata nei boschi.

“Sono nel mio studiolo, se mi cercate.” fece l'uomo, capendo che non era il caso di irritare ulteriormente la sua signora.

Caterina, con uno sbuffo, aprì immediatamente la lettera che arrivava da Firenze. Non era del cognato, come si era attesa, ma arrivava direttamente dalla Signoria.

Iniziò a camminare, arrivando fino al palo per i cavalli che stava a lato del cortile d'addestramento.

C'era un certo andirivieni di soldati, ma quasi non li sentiva, completamente immersa nella lettura di quello che le pareva tanto un ordine categorico, più che una richiesta amichevole, come era invece dichiarato nelle prime righe.

Era stanca di vedere come tutti, dal papa, a suo zio, e perfino Firenze, si permettessero di darle ordini senza nemmeno provare a mascherare il tono paternalistico con cui lo facevano. Di certo, si diceva, se fosse stata un uomo, nessuno si sarebbe mai nemmeno sognato di trattarla a quel modo, soprattutto dopo aver avuto prova di quello che era capace di fare.

E invece, benché avesse fatto guerra, ucciso uomini, tenuto saldamente il potere nelle sue mani malgrado mille avversità, tutti continuavano a considerarla e a trattarla come una vedovella senza arte né parte, senza cervello e, soprattutto, senza spina dorsale.

Il messaggio della Repubblica era chiaro: le chiedevano di far ripartire subito Ottaviano Manfredi alla volta di Firenze. Si dicevano scontenti di lui, sostenendo che avesse lasciato il campo di Vitelli con un permesso valido per pochi giorni, e che invece ne stesse approfittando. Sostenevano che il faentino avesse fatto i suoi comodi fin dall'inizio, non onorando mai la sua condotta e che adesso fosse giunto il momento di impiegarlo come meglio credevano.

Avevano già scritto più volte a Manfredi in persona, ma, evidentemente, o non aveva ricevuto i messaggi o aveva fatto finta di non averli capiti, giacché non aveva risposto, tanto meno aveva eseguito gli ordini ricevuti.

Le chiedevano quindi, in modo abbastanza equivoco, per altro, di rinunciare alla sua compagnia e di agire da persona sensata, per quanto donna, e riconsegnarglielo il prima possibile, assieme ai balestrieri che aveva al soldo con sé, che, per quanto fossero una ventina mal contata, potevano comunque tornare molto utili alla causa.

Appoggiata alla sbarra dei cavalli, la Sforza rilesse un momento l'ultima parte e poi, riconoscendo in alcuni sprazzi dei modi di esprimersi che erano propri di suo cognato, non le fu difficile capire il vero motivo di quel richiamo.

Dimentica di Bernardi e perfino di Numai, Caterina andò in camera, prese carta e penna e, prima di ragionarci in modo lucido, scrisse una lettera di fuoco per Lorenzo.

'Perché levarlo? È per far dispetto a me sapendosi quanto io l'abbia caro? Se si vuol proprio togliere di qua le sue genti, rimanga almeno la persona sua' scrisse, tanto di fretta da lasciare sulla pagina una linea spezzettata, abbastanza diversa dalla sua consueta grafia.

Chiuse il messaggio, dopo averlo firmato solo con il suo nome, senza aggiungere cariche, in modo da suonare più conciliante e familiare possibile, e poi andò subito a consegnarlo a una staffetta rapida.

Non sapeva nemmeno lei se quella fosse o meno una mossa giusta, ma non voleva separarsi da Manfredi. Quella proposta da Firenze sembrava tanto una trappola, qualcosa di escogitato al solo fine di metterla in difficoltà.

Litigavano, spesso, ed erano più i momenti in cui non si capivano, di quelli in cui viaggiavano sulla stessa strada, ma non poteva rinunciare a lui. Le ore che passavano insieme, nella tranquillità della sua tana, stavano diventando per lei una consuetudine necessaria.

Si conosceva troppo bene, ormai, e sapeva che senza il faentino avrebbe ricominciato a essere un'anima in pena e quel suo peregrinare le avrebbe tolto lucidità, impedendole di concentrarsi quanto avrebbe dovuto su tutto il resto.

Non sapeva dire se amasse o meno Manfredi: sapeva solo che aveva bisogno di lui e tanto le bastava per mostrare le zanne a chiunque cercasse di portarglielo via.

 

Lorenzo si alzò lentamente, con fatica, e avrebbe tanto voluto avere qualcosa a cui appoggiarsi. Si sentiva invecchiato, benché non avesse ancora compiuto trentasei anni.

Sollevò gli occhi tondi verso la tomba del fratello e fece una breve smorfia. Ricordava anche troppo bene il modo in cui si erano detti addio, l'ultima volta che si erano visti, quando Giovanni era passato da Firenze per rivederlo. Era un uomo completamente diverso da quello che aveva lasciato il loro palazzo quel maledetto giorno in cui era partito alla volta di Forlì per fare da ambasciatore fiorentino alla corte della Tigre.

“Ti ha rovinato – sussurrò il Medici, posando una mano sulla fredda pietra tombale dell'altro Popolano – ti ha sporcato, ti ha tolto la cosa più bella che avevi... Ti ha fatto diventare come lei.”

Deglutì, serrando un momento le palpebre e cercò di non lasciare che la rabbia che ancora provava, viva e prepotente, lo annientasse.

Era Pasqua, doveva sentirsi in comunione con il mondo, si era confessato da poco, a breve sarebbe andato a Messa e si era ripromesso di restare calmo, di pregare per suo fratello, per la loro patria, e di chiedere ammenda anche per i peccati di Giovanni, per aiutarlo, dato che, sicuramente, essendosi accompagnato a una sgualdrina dello spesso della Sforza, probabilmente stava cercando di risalire i gironi del Purgatorio. Pregare per lui e chiedere ammenda erano ormai le sole cose che potesse fare per dimostrargli il suo affetto.

“Se non fosse stato per quella strega – sussurrò ancora, la gola che cominciava a bruciare e gli occhi che pizzicavano – tu adesso saresti qui accanto a me. Avremmo fatto grande Firenze insieme, saremmo stati i nuovi padroni della Repubblica. E invece lei ha rovinato tutto.”

Rimase ancora qualche momento accanto alla lapide, trattenendo a stento lacrime di frustrazione e risentimento, e poi, riattraversando la chiesa di San Lorenzo, scansando gli sguardi curiosi dei fedeli che si stavano accalcando già in vista della funzione, per quanto mancasse ancora parecchio, uscì.

L'aria di Firenze era sottile, fresca, prometteva finalmente una primavera degna del suo nome e quel dettaglio al Medici parve solo una crudeltà inutile.

Non riusciva più a trarre piacere da niente, né dal clima mite, né dalla bellezza del cielo azzurro. A lui, ormai, tutto pareva coperto da un velo di cupezza, come se un manto grigio rendesse ogni cosa diafana e scolorita, indegna della sua attenzione.

Entrò a palazzo ed evitò in modo categorico il salone e qualunque altra stanza in cui pensasse potessero esserci i suoi figli. Non aveva voglia di vedere nemmeno loro, perché i loro visi ingenui, la loro mal celata euforia per quel giorno di festa e il loro incessante crescere non facevano altro che ricordargli Averardo, che non sarebbe mai diventato un ragazzo, mai diventato un uomo. Sarebbe stato un bambino per sempre e Lorenzo si malediceva ogni giorno per non essere stato in grado di tenerlo in vita. Aveva sempre cercato di essere un buon padre, tutti quanti gli avevano sempre detto che lo fosse, ma poi Averardo era morto e lui non era nemmeno stato al suo fianco, mentre si spegneva, perché troppo impegnato con la politica, con gli affari di Stato, risucchiato da un gorgo, da quel perverso vortice alimentato dalla sua stessa sete di potere e rivalsa.

Arrivato in camera sua, si passò le mani dalle dita tozze sul viso, sedendosi pesantemente sul letto, le spalle curve e le lacrime che tornavano a tentarlo.

Non riusciva a non sentirsi a quel modo. Era lui per primo a stare male e così faceva star male tutti quelli che lo circondavano.

“Lorenzo...” la voce di Semiramide lo colse alla sprovvista.

Aveva lasciato la porta aperta, convinto che fossero tutti troppo occupati a prepararsi per accorgersi del suo ritorno. E invece lei se n'era accorta, come sempre. Lei si accorgeva sempre di lui, sempre.

“Che vuoi?” le chiese, la voce arrochita, levandosi le mani dal viso e guardandola da sopra la spalla.

“Hai pianto?” chiese lei, vedendo i suoi occhi arrossati e lucidi.

“No.” rispose subito lui, alzandosi: “Sono stato un momento in chiesa per parlare col prete e l'incenso mi ha dato fastidio.” mentì.

L'Appiani lo fissò un istante. Li separava un paio di metri, ma la donna in quel momento lo sentiva lontano come se tra loro ci fosse un intero mondo.

“Volevo dirti che mentre eri fuori, è arrivata questa per te.” sussurrò la donna, porgendogli una lettera: “Con una staffetta rapida.”

“Notizie dal fronte?” chiese lui, facendo un paio di passi per colmare la distanza tra loro.

“Da Forlì.” rispose lei, appena udibile.

Nominare quella città bastò a trasformare il viso sofferente del Popolano in una maschera di rabbia.

“Quella meretrice non mi lascia in pace nemmeno a Pasqua. Fosse per me, avrei già dato ordine di radere al suolo le sue città.” disse, i denti stretti, le parole appena intellegibili.

Strappò il messaggio di mano alla moglie e l'aprì all'istante. Lesse in fretta, trovando l'accorato appello della Tigre ridicolo e patetico. Senza contare che ogni sua preghiera gli parve fuori luogo, anzi, quasi offensiva.

“Questa... Ah, non so nemmeno più come chiamarla...” borbottò, gettando la lettera sul letto e indicandola con la mano: “Tu, che a volte la difendi, sappi che quella donna di strada di tua cognata, Caterina Sforza, che si fa pomposamente chiamare la Leonessa di Romagna, mi ha scritto per pregarmi di convincere la Signoria a non portarle via il suo amante, Ottaviano Manfredi. A me, ti rendi conto?”

Semiramide deglutì. Non le piaceva il modo in cui suo marito stava parlando, tanto meno il fare minaccioso con cui le stava puntando contro l'indice.

“Mio fratello è morto a settembre. Oggi è l'ultimo giorno di marzo, e questa donnaccia viene a chiedermi di fare quel che posso per lasciarle tenere nel suo letto il suo amante. E tu continui a dirmi che dovrei riappacificarmi con lei?” domandò il Popolano, gli occhi tondi che si offuscavano sempre di più: “Un bordello, ecco qual è il suo posto. Altro che a capo di uno Stato.”

L'Appiani trattenne il fiato, mentre suo marito si avvicinava ancora un po'. Per un istante, si chiese se il Medici avrebbe finito per sfogarsi con lei. Non l'aveva mai ritenuto un uomo violento, si era sempre sentita al sicuro, con lui, ma dalla morte di Giovanni, Lorenzo era diventato un altro, e quindi non sapeva più cosa aspettarsi.

Respirando pesantemente, alla fine il Popolano fece mezzo passo indietro e sussurrò: “Adesso lasciami solo, per favore. Devo prepararmi per la Messa.”

La moglie fu sul punto di dire qualcosa, ma alla fine l'unica cosa che riuscì a fare fu allungare una mano e accarezzare la guancia del marito.

Il Medici si scansò leggermente, rifiutando, ancora una volta, l'affetto di Semiramide che, malgrado tutto, continuava ad amarlo. Amareggiata e sconfitta da quella reazione, però, la donna sospirò e si ritrasse.

Prima di lasciare la camera, gli disse: “Stai attento, Lorenzo. Nemmeno tu puoi farcela, se resti veramente solo.”

 
 
   
 
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