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Autore: SirioR98    26/12/2018    2 recensioni
In fisica, un sistema isolato è un sistema posto così lontano dagli altri da non interagire con loro, oppure un sistema chiuso che non ha scambi con l’ambiente circostante.
È un sistema perfetto, in equilibrio, costante.
Mi chiamo Noah e mi hanno costretto in un sistema isolato.
Noah è un sedicenne nato e cresciuto in una piccola comunità di mormoni nello Utah. Apertamente omosessuale e fiero di esserlo, si ritrova a convivere per cause di forza maggiore con Alex, la sua “persona preferita”, che si identifica come nonbinary. Esplorando la comunità LGBTQ+ di Salt Lake City e sopravvivendo alle sfide della città natale di Joseph Smith, Noah si vede costretto a crescere prima del tempo e a cercare la sua voce.
Genere: Azione, Dark, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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*Angolo dell'autrice*
Buonsalve a tutti e BUON NATALE! Spero stiate passando bene le feste, a qualunque religione (o spiritualità, o assenza di fede)  apperteniate. Il brano di oggi è Peace, singolo del 2009 dello storico gruppo alternative rock Depeche Mode. Il gruppo è in giro dagli inizi degli anni '80, nella loro carriera si sono distinti per l'uso di Synth in canzoni dalla tonalità sul pop-rock o new wave. Con quasi quarant'anni di carriera alle spalle, il gruppo è stato uno dei capisaldi della scena britannica.
Vi auguro buona lettura!

 
Capitolo 15

 
“Per quanto possa essere brava nel mio mestiere, non so leggere la mente. Parlami, Noah. Stando in silenzio non aiuti me e, sicuramente, non migliori la tua situazione.”
Smetto di torturarmi le mani e la guardo impassibile.
La dottoressa cerca di rimanere composta, ma il tic della gamba tradisce la sua frustrazione.
Il ticchettio dell’orologio appeso al muro riempie la stanza, rispondendo perfettamente al ritmo della donna. La lancetta segna quasi la fine di questa tortura.
Mi concentro così profondamente su di esso da iniziare a sbattere le palpebre ogni tre secondi.
Penso che se ne accorga, data l’espressione perplessa sulla sua faccia.
Ha provato di tutto: il classico test delle macchie, farmi creare una storia breve a partire da alcune fotografie, infine farmi disegnare la mia famiglia.
Non è riuscita a scalfirmi.
“Cosa dovrei scrivere sul mio rapporto? Il paziente si rifiuta di parlare?” Domanda retoricamente.
Sì, scrivilo pure.
La dottoressa si passa una mano fra i capelli, aggiustandosi un ciuffo dietro l’orecchio.
“Parliamo dei tuoi amici. Avrai sicuramente degli amici, no?”
Mi stringo nelle spalle.
La donna sospira, posando il blocchetto degli appunti e la penna sul tavolo.
“Noah, sei consapevole del fatto che questa valutazione influenzerà la decisione del giudice, vero?”
Di nuovo, faccio spallucce.
“So che hai degli amici. Ho visto i video che circolano in rete. Parlami un po’ di quella persona che hai difeso quando sei svenuto. Ricordi quel video?”
“Che c’entra Alex?” Rispondo sgarbatamente, non lasciandole spazio per altre domande.
La donna alza le braccia al cielo in segno di vittoria, mascherando il gesto come se stesse stirando le braccia, alla vista della mia espressione decisamente poco felice.
“Sì! Parliamo di Alex, perfetto. Che rapporto hai con lui?” Chiede, riprendendo penna e blocco.
“Non è un lui.” Preciso atono.
La prendo alla sprovvista.
“Ah. Va bene, che rapporto hai con lei?” Si corregge, marcando il pronome secondo lei corretto.
“Non è una lei.” Replico, alzando gli occhi al cielo per mascherare un accenno di divertimento.
La dottoressa rimane perplessa.
“In che senso, scusa?” Domanda, il tono abbassato di almeno un’ottava.
Non-binary. Serve il neutro.” Rispondo semplicemente, come se fosse ovvio.
Lo è per me, ormai ci convivo. Anche perché ormai me lo sono fatto spiegare un centinaio di volte.
“Ok. Che rapporto hai con questa persona?” Riprende, sperando di non perdere l’occasione per farmi parlare.
Alzo le spalle.
“No, no, no! Parlami, ti prego!” M’implora la donna, allungandosi verso di me. Il risultato è una figura stesa sul tavolo come un islamico in preghiera.
Adesso inizia a farmi pena, questa povera donna. La sto torturando.
È chiaro come il sole che mi voglia aiutare… e poi sembra una brava persona, non mi sento a mio agio a trattarla così.
Mi schiarisco la gola, incrociando le braccia al petto.
“Ok, va bene. Cosa vuole sapere?”
La donna alza la testa di scatto, sul viso ha un’espressione sospettosa.
“Davvero?” Chiede per assicurarsi delle mie intenzioni.
Annuisco e le faccio segno con la mano di andare avanti.
La dottoressa torna a sedersi dritta, impugna bene la penna e mi guarda dritto negli occhi.
“Che rapporto hai con…” Tentenna, non sapendo bene quale pronome usare.
“Alex.”
“Alex, sì. Perché hai difeso quella persona?”
Mi prendo il tempo per ordinare i pensieri e formare una risposta completa. Nella mia testa c’è sempre quel piccolo neurone che m’implora di non rivelare nulla, urla che sto per commettere uno sbaglio, che è inutile confessarmi, perché tanto non cambierà nulla. L’altra parte di me, invece, vuole alleggerirsi del peso di questi pensieri.
Voglio liberarmi.
Dare sfogo alle mie sensazioni, d’altro canto, le renderà così incredibilmente reali.
Reali da far paura.
Non voglio che prendano corpo, ma se non le affronto di sicuro non me ne libererò mai.
Sono stanco.
Vorrei soltanto trovare un minimo di pace.
“Alex… è l’unica persona che, per molto tempo, mi ha trattato come un essere umano.” Formulo, fissando lo sguardo sul blocco di fogli in mano alla psicologa.
“È facile dimenticare chi siamo quando il mondo ti chiama con un nome diverso, ti considerano in modo diverso. Per anni ho creduto di essere un animale, perché così mi trattavano.
Sono stato buttato fuori di casa, emarginato, spintonato, picchiato, chiuso periodicamente a chiave in un ripostiglio e ignorato da tutti. A nessuno importava se stessi soffrendo, nemmeno all’agente sociale che si sarebbe dovuto accertare della mia sicurezza. Ma non Alex. No, la mia persona preferita in questo universo dimenticato da Dio ha sempre avuto una parola gentile per me, ha sempre saputo cosa fare per restituirmi, anche in minima parte, il sorriso.
Mi conosce meglio di tutti. Non che sia difficile conoscermi meglio degli altri, visto che non sanno molto di me.”
“Perché non ti apri facilmente con gli altri, esatto?” Commenta la dottoressa, approfittando di un momento di silenzio.
Ridacchio nervosamente e sposto lo sguardo verso il basso.
“Da che cosa l’ha capito?” Chiedo sarcastico, cercando di sdrammatizzare.
“Come mai, secondo te?”
Mi mordo l’interno della guancia.
Davvero, dovrei trovare un altro modo per calmarmi. Quando mi lavo i denti sputo sangue, e ho un vago sospetto che non provenga dalle gengive.
Mi stringo nelle spalle.
“Non lo so. Mi sento come se… se fossero tutti contro di me. Come se stessero fingendo di essere gentili con me per ottenere qualcosa, o per prendermi in giro. Se mi aprissi con gli altri, se mi mostrassi vulnerabile, ne approfitterebbero e mi farebbero del male.
È già successo una volta, cosa mi assicura che non capiterà di nuovo?”
La dottoressa scrive qualcosa sul blocchetto.
“E non hai timore che Alex potrebbe farti la stessa cosa, giusto?” Domanda senza alzare gli occhi dal foglio.
“Esatto. Con Alex ho la sensazione di poter essere più autentico, di non dover attivare lo scudo deflettore. Certo, non è che sappia ogni mio segreto, fino a qualche tempo fa non sapeva quasi niente della mia famiglia, nemmeno il mio vero cognome. Insomma… io mi fido, però s’immagina come potrei sentirmi se, invece, si rivelasse essere una persona completamente diversa? Nessuno può mai sapere cosa l’altro stia pensando.
Non lo so… a volte mi sento incredibilmente solo. Come se fossi l’unico a sapere del crollo della società e fossi costretto a vivere da sopravvissuto in una città abitata. Come se il resto dell’umanità vivesse in un universo parallelo dove tutto va bene ed è sicuro potersi fidare degli altri. Non sanno di cosa può essere capace l’essere umano. Lo immaginano, ma non lo sanno. E questa conoscenza mi soffoca, ad essere sincero.”
La dottoressa mi lascia parlare. Noto che sta scrivendo molto, chissà cosa diranno gli appunti.
“Il tuo tutore, Joshua Winterfield, ha notato che sei sempre in allerta. Posso chiederti il perché?”
Mi stringo nuovamente nelle spalle.
“Un’abitudine acquisita a Riverton, credo.”
Annuisce, posando un secondo la penna.
“Credi che da questo tuo stato di perenne allerta derivi la tua aggressività?”
Mi prende alla sprovvista.
“Sinceramente non ne ho idea.”
La dottoressa storce la bocca, chiedendosi quale domanda sia giusta da pormi per arrivare a una risposta chiara.
“Prima che i tuoi genitori ti mandassero via di casa, se mai stato coinvolto in risse… o hai mai avuto anche solo istinti aggressivi più forti del normale?” Mi chiede, mordendo il tappo della penna.
Un momento, mi sono perso.
“In che senso?” Ribatto confuso.
La donna agita la penna in aria, come a cercare le parole per spiegarsi meglio.
“Potrebbe posare la penna, per favore? Mi sta facendo venire l’ansia.” Sbotto, interrompendo il suo flusso di pensieri.
La psicologa guarda prima me, poi la penna. Torna a guardarmi, mentre posa lentamente la penna sul blocchetto degli appunti.
“Hai mai avuto l’istinto di fare del male a qualcuno di proposito? Non il pensiero, ma l’istinto.”
“Prima del sistema d’affidamento?” Chiarisco.
Annuisce.
Mi mordo l’interno della guancia, pensando a un tempo così lontano da farmi dubitare che appartenga a questa vita.
“No, mai.”
La dottoressa sorride, scrivendo qualcosa sul suo blocchetto.
Si alza dalla sedia e mi tende la mano.
“Penso di avere tutte le informazioni che mi servono. Buona giornata, Noah.”
Il ticchettio delle lancette riempie la stanza buia, schiarita dalla luce della luna che entra dalle finestre.
La sveglia sul comodino accanto a me non accenna a silenziarsi, avanza imperterrita verso il giorno del giudizio.
Metaforico e letterale.
Ad accompagnarla è il respiro regolare di Alex. Le sue spalle si alzano e si abbassano d'accordo, creando quel moto ondulatorio che governa l'universo.
Si alzano, si fermano, si abbassano, e dal primo passo ricominciano.
Osservo la sua figura, avvolta nelle coperte. Non vedrò quella sagoma per altri due mesi, forse tre, dipende dalla mia forza di volontà.
Una cosa è certa: tornerò in riformatorio.
Non voglio nemmeno pensare alla delusione di Jared, gli avevo promesso che non mi avrebbe più rivisto là dentro.
In più, adesso dove troverò i soldi per aprire il negozio di tatuaggi con Steve? Potrei chiedere a suo cugino se serva un lavapiatti, lo ha assunto subito dopo essere stato rilasciato, non penso abbia problemi.
Eccetto che Steve è di famiglia, io sono uno sconosciuto con tre reati a carico, tra cui furto.
Posso anche dire addio a quel sogno. Posso abbandonare il disegno, tanto a che serve? È meglio che mi prepari a una vita di mediocrità.
No, nemmeno a quella.
Mediocrità è avere un lavoro che si odia e ritrovarsi a quarant'anni a fare il sottosegretario di una compagnia telefonica in fallimento.
Io avrò fortuna a essere assunto a tempo pieno per servire nel diner in cui mangia quel sottosegretario il venerdì, quando ha voglia di avvicinarsi alla morte un boccone alla volta, visti i valori dei piatti che preparano.
Certo, anche gli ex-galeotti riescono a trovare un lavoro e forse nel campo dell'arte riuscirei anche a trovare qualcosa, ma non penso proprio avrei fortuna.
Mi alzo di scatto a sedere sul letto.
Ma che sto pensando? Piangersi addosso non cambierà niente, è inutile. Devo lavorare con la situazione che mi ritrovo, devo trovare una soluzione.
Cosa potrei fare per migliorare?
Pensa, Noah. Pensa.
Se andassi di nuovo in riformatorio, il mio futuro sarebbe più duro di quanto non sarebbe già stato.
Posso fare appello? Ne ho la possibilità?
Perché so per certo che domani il giudice mi darà da scontare almeno due mesi, ma potrei fare appello per legittima difesa?
No, non reggerebbe, sono stato il primo ad aggredirlo.
A meno che... Tecnicamente sono stato minacciato, Sayid testimone. E l'uomo mi ha minacciato perché stavo flirtando con un altro ragazzo in un luogo pubblico, questo è un chiaro crimine d'odio.
Potrei proporlo a mio padre!
Eppure, quanto reggerebbe questa scusa davanti a un giudice?
Peggiorerei la situazione, mi processerebbero come un adulto, con giuria e tutto il resto. E la giuria mi dichiarerebbe sicuramente colpevole: il mio episodio d'ira è stato filmato, i suoi commenti di odio invece non si sentono. Non si legge nemmeno il suo labiale, per quanto ne sanno potrei anche aver avuto una reazione esagerata a una sua decantazione mal eseguita de "La vecchia fattoria".
No, peggiorerei la situazione.
Allora che posso fare?
Non posso permettermi di tornare in riformatorio, ho già due reati a mio carico e un periodo in istituto.
In più, non ci voglio tornare. Non voglio trascorrere altri due mesi in quel posto dimenticato da Dio, privato della mia libertà.
Va bene, ho sbagliato, non avrei dovuto aggredire quell'uomo, avrei dovuto trattenermi. Me ne sono pentito immediatamente.
Ho già perso il mio lavoro, il rispetto degli adulti, l'appoggio dei sostenitori della causa e la mia dignità.
Non sono già stato punito a sufficienza?
Non basta la gogna mediatica a cui sono sottoposto da due giorni a questa parte?
Le uniche persone che ancora mi stanno accanto sono i miei amici... Ma non sono sicuro ci saranno a lungo.
Le persone vanno e vengono, è lo scorrere naturale della vita.
Succede qualcosa, oppure non succede niente, semplicemente si parla di meno, prima una volta la settimana, poi una al mese, poi solo per le feste. Arriverà un giorno in cui guarderò i loro profili e non penserò neanche di mandare un messaggio.
Prima o poi perderò anche loro, non conviene cercare il giubbotto di salvataggio negli altri.
Gli esseri umani sono inaffidabili, si deve trovare la propria salvezza in sé stessi. Non posso decidere cosa le altre persone facciano, ma posso dettare le mie azioni.
Perché dovrei lasciare che qualcun altro decreti il mio destino?
Che ne sa il giudice di quello che ho passato? Che ne sa come ci si sente a essere traditi dalle persone che dovrebbero proteggerti solo perché non rispondi alla loro idea di "figlio perfetto", solo perché sono nato diverso? Che ne sa il giudice di cosa voglia dire essere piazzato dallo stato, contro la tua volontà fra l'altro, in una casa estranea dove regna la violenza?
Che ne sa il giudice cosa voglia dire avere paura di non sopravvivere alla notte, o, peggio ancora, di avere il terrore di non riuscire a salvare l'unica persona a cui tieni veramente, che ti ha mostrato quel minimo di rispetto di cui tutti gli esseri viventi hanno diritto?
Che ne sa il giudice di quanto freddo faccia durante le notti primaverili qui nello Utah, del dover stare attento ai criminali che potrebbero ucciderti o farti del male mentre cerchi un minimo di riposo sopra un cartone?
Che ne sa il giudice di quanto si soffra a essere umiliati pubblicamente da giornali in televisione, articoli su social network, messaggi da sconosciuti e dita puntate per strada a causa di una fama che ti hanno praticamente imposto?
Nulla. Assolutamente nulla, ecco quanto ne sa.
E io dovrei lasciare che degli estranei decidano per me, precludendomi non solo la libertà, ma anche un tentativo a un futuro decente?
A quanto pare la strada è il mio destino: gira e rigira, è lì dove finisco sempre. Perché quella è più probabile che mi attenda, con questa seconda pena.
Con due reati e una sola pena in carcere avrei ancora una possibilità, vista la mia giovane età. Ma una seconda subito dopo essere uscito di riformatorio, tra l'altro per un reato già commesso?
Nessuno mi assumerebbe dopo.
No, non posso permettermi di essere rinchiuso nuovamente, assolutamente no.
Non mi rimane altra scelta.
Che si fotta il giudice.
Facendo meno rumore possibile, mi alzo dal letto e prendo il mio zaino, lo stesso che mi è servito per mesi da guardaroba, cuscino, comodino e cestino. Apro silenziosamente il mio cassetto e prendo quanti più vestiti riescano a entrare nello zaino, già occupato dal carica batterie del cellulare, dispositivo accoppiato e portafogli.
Lancio un'ultima occhiata ad Alex prima di uscire dalla stanza, salutando la mia persona preferita con la mano.
Attraverso la casa evitando le tavole che so essere scricchiolanti, arrivo fino allo studio dei Winterfield e apro il cassetto in cui hanno conservato i soldi guadagnati da me e Sayid fino ad ora.
Li abbiamo consegnati per pagare un avvocato o per essere aggiunti al budget della casa, ma ora serviranno più a me.
Prendo solo la mia parte, però. Nonostante la mia fedina penale, non sono un ladro: ho guadagnato questi soldi, quelli che non mi appartengono rimarranno qui.
Quando esco dalla porta posteriore, la chiudo lentamente per non far rumore, e mi avvio per la strada buia che ho percorso più volte in questi giorni. Mi avvio senza guardarmi indietro, così da non essere tentato di cambiare idea.
"Dopo tutto quello che abbiamo passato insieme, te ne vai senza dire una parola?"
Mi fermo in mezzo all'asfalto, bloccato come sotto un incantesimo da una voce fin troppo familiare.
Mi volto per affrontare la mia persona preferita.
"Non volevo svegliarti." Sussurro, sperando di non attirare l'attenzione di nessuno.
"Dove stai andando?" Mi domanda tagliente, ignorando le mie scuse.
Mi mordo la guancia, cosciente che la mia controparte stia soltanto chiedendo conferma delle sue supposizioni.
"Via." Rispondo alla fine, sistemandomi lo zaino in spalla.
"Via?" Domanda, assicurandosi di aver sentito bene.
Annuisco.
Alex si avvicina tempestivamente.
"Non puoi andartene, domani hai il processo!" Afferma, come a ricordarmi della mia imminente condanna.
"Non posso andare nemmeno al processo, mi rimanderanno in riformatorio!" Ribatto, facendo un passo indietro.
"E quindi vuoi scappare? Emetteranno un mandato d'arresto, se non ti presenti. Questo vuol dire che se venissi fermato da un poliziotto, ti porterebbero immediatamente in carcere. Non in riformatorio, Noah, in carcere. Hai sedici anni, ti possono benissimo processare come un maggiorenne." Mette in chiaro, afferrandomi per un braccio. "Non peggiorare la situazione, rientriamo in casa." Mi urge, tirandomi verso il rifugio.
Mi libero dalla sua presa.
"No, Alex. Non voglio tornare in riformatorio. Non me lo posso permettere."
"E cosa vorresti fare? In città ti conoscono tutti, di nome o d'aspetto."
Mi stringo nelle spalle, abbassando lo sguardo.
"Mi nasconderò finché non si calmano le acque. Conosco questa città come il palmo della mia mano, so come non farmi trovare. Poi cambierò nome, aspetto... Non so, magari mi tingerò i capelli, userò lenti a contatto colorate, ho tempo per pensarci!"
Alex mi guarda con espressione sconvolta, non riesce a credere alle sue orecchie.
"Noah, ma che stai dicendo?"
La sua sfiducia non mi colpisce, un po' me l'aspettavo.
Compiere un piano del genere da solo è complicato per una persona. Non impossibile, ma difficile. Molto, molto difficile.
Con l'aiuto di qualcuno, invece...
Rialzo lo sguardo, fissandolo sul viso della mia persona preferita.
"Alex, vieni con me." Propongo di punto in bianco.
Alex si blocca per la sorpresa.
Percorro la distanza fra noi due e stringo le sue spalle.
"Scappa con me. Vivremo solo noi due, come qualche mese fa, prima di questo casino. Tornerà tutto come prima."
Alex si risveglia dal suo torpore, allontanando le mie mani.
"Cosa? No." Sbotta, allontanandosi da me. "Lo sai quanto ho lottato per avere un tetto sulla testa e tre pasti sicuri al giorno. I Winterfield ci hanno accolto come se fossimo figli loro, non me ne andrò da una casa sicura per tornare a vivere per strada. E non lo farai nemmeno tu." Dichiara, puntandomi un dito contro.
Mi mordo nuovamente la guancia, cercando di rimanere calmo.
"Alex, non posso. Ti prego... Ti prego, vieni con me. Non abbandonarmi." imploro con voce spezzata.
La mia persona preferita scuote la testa.
"Mi dispiace Noah, stavolta non ti seguirò." Risponde irremovibile, incrociando le braccia.
  
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