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Autore: Adeia Di Elferas    29/12/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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I notabili di Forlì, per la Messa di quella Pasqua, si erano divisi equamente tra la chiesa di San Girolamo e il Duomo, combattuti tra il seguire la Contessa nella prima o suo figlio Cesare nella seconda.

Erano incuriositi dal Riario, che, ora che si apprestava a prendere il suo posto a Pisa, avrebbe presenziato in forma attiva alle celebrazioni, salendo sull'altare assieme agli officianti. Però erano anche in ansia, nel chiedersi cosa la Tigre potesse gradire di più: essere seguita a San Girolamo o vedere il plauso della gente nei confronti del suo secondogenito.

Tanti sostenevano che, se non fosse stato per il giuramento che aveva fatto alla morte del suo primo marito, probabilmente anche lei sarebbe andata in Duomo. Quindi in molti avevano preferito andare lì e tra questi c'era anche Ottaviano Manfredi.

Lui e la Sforza si erano confrontati per un po' e avevano deciso che fosse meglio non mostrarsi assieme, almeno a Messa. Le voci su di loro, tutt'altro che infondate, erano ormai di dominio pubblico, a la Tigre cominciava a essere impensierita dai possibili pericoli connessi a quella mancanza di discrezione.

Temeva che qualcuno potesse colpire Manfredi per colpire lei e, anche se farsi vedere di rado assieme in pubblico era solo una blandissima misura precauzionale, preferiva provare a metterla in pratica.

“Alla fine Naldi ci sarà, a cena?” chiese la Contessa, parlando a voce molto bassa con Luffo Numai che, con la moglie Caterina Paolucci, era giusto nella fila dietro.

“Sì, mia signora – confermò lui, mentre i canti si facevano più forti, tanto da arrivare a spaventare un po' Giovannino, stretto al collo della sorella Bianca – e porterà anche sua moglie, come avete chiesto.”

“Bene.” sospirò la Leonessa.

Finita la Messa, alla rocca sarebbero arrivati un po' di ospiti. Non molti, in realtà, ma sufficienti a poter dichiarare quello organizzato da Bianca un vero e proprio ricevimento. La Sforza voleva usare quell'occasione per discutere alcuni affari di Stato con i suoi uomini di fiducia, approfittando del clima relativamente disteso di quella festività, ma aveva anche avuto attenzione a invitare un numero congruo di dame, per permettere ai presti di danzare e distrarsi un po'.

Stavano arrivando tempi bui, su questo non aveva alcun dubbio, e ci teneva che i suoi ci arrivassero il più pronti possibile. Rigenerarsi un po', almeno per una sera, era importante tanto quanto comprare le munizioni per i cannoni e il grano per la dispensa.

I suoi figli, eccezion fatta per Cesare, erano tutti accanto a lei. Alla sua sinistra c'era Bianca con in braccio Giovannino, che aveva rifiutato la balia, non appena aveva intuito di potersi accollare alla sorella. E dopo di lei c'era Sforzino, lo sguardo fisso verso l'altare, l'espressione seria. Nel vederlo così, in quel momento, a Caterina ricordava un po' suo zio Ludovico da ragazzino.

Alla sua destra, invece, vestito in modo sobrio, ma elegante, la schiena dritta come un fuso, c'era Galeazzo. Portava la spada al fianco e indossava una corazzina molto bella, decorata con la rosa d'oro dei Riario e il biscione sforzesco. Accanto a lui, poi, c'era Ottaviano. Il paragone tra loro, messi così uno vicino all'altro, era un dolore per la madre.

Da un lato c'era Galeazzo, dall'ottima postura e dal volto fiero, apparentemente padrone di sé e sicuro del fatto suo, benché non avesse ancora quattordici anni. Dall'altro, invece, c'era Ottaviano.

Avrebbe compito vent'anni nel giro di una settimana. Era macilento, un po' curvo, la pancia, reliquato dei suoi stravizi, che sporgeva, tendendo la stoffa del giubbone decorato, gli occhi irrequieti e cerchiati da pesantissime occhiaie, i capelli portati più lunghi del dovuto, in ricci finemente inanellati come erano stati quelli di suo padre, e continuava a spostare il peso da una gamba all'altra, quasi non riuscisse più a sopportare di stare in piedi.

Distogliendo lo sguardo a fatica, chiedendosi come potessero, quei due giovani uomini essere fratelli ed essere entrambi figli suoi, Caterina venne colta da un pensiero improvviso.

Chinandosi appena verso Bianca, per parlarle nell'orecchio, le domandò: “Dov'è Bernardino?”

La ragazza si accigliò, poi guardò a destra e a sinistra e occhieggiò anche alle sue spalle, ignorando le brevi proteste di Giovannino, che le restava aggrappato come un polipo: “Era qui con noi, non ho visto quando si è allontanato.”

La Tigre avrebbe voluto andare a cercarlo immediatamente. Quell'improvvisa assenza non prometteva nulla di buono. Già Bernardino aveva fatto storie prima di lasciare Ravaldino. La madre l'aveva visto scambiare qualche frase acida con Ottaviano e sapeva che portarli entrambi a San Girolamo avrebbe potuto causare nel più piccolo un moto di fuga. Era nel suo carattere, ormai le era chiaro: quando non voleva fare qualcosa, la sua prima reazione era scappare. In un certo senso, quel tratto era stato tipico anche di Giacomo.

Attraversata da un'intuizione del momento, provò ad allungare il collo verso la cappella dei Feo, chiedendosi se per caso suo figlio fosse andato sulla tomba del padre, ma da lì le era impossibile comprovare la sua ipotesi.

Così attesa con pazienza che la Messa arrivasse alla fine. Dopo le ultime orazioni e l'ite missa est, la donna si scusò con quelli che volevano attenderla per andare assieme a Ravaldino, dicendo che doveva andare un momento sulla tomba del Barone Feo a pregare, e si allontanò dalla folla.

Arrivata alla cappella, però, si rese conto che il figlio non era lì. Restò qualche istante a fissare la lapide del marito, incapace, come sempre, di distogliere lo sguardo troppo in fretta, e solo quando la chiesa fu praticamente vuota, si rese conto di una voce, lontana, ma ben udibile che rimbrottava qualcuno dicendo: “Siete una peste! Se questo è comportarsi..! In una chiesa, per giunta!”

In un certo senso sapeva che suo figlio Bernardino doveva essere la causa di quelle urla e così, con passo spedito, seguì la voce fino a raggiungere la canonica. Uno dei preti di San Girolamo stava raccogliendo a fatica le pagine di un libro da terra, dove erano state sparpagliate, e un altro, continuando a inveire, aveva bloccato in un angolo proprio il piccolo Feo e un altro ragazzino.

Quando vide la Contessa, suddetto ragazzino ebbe più paura di lei che non del prete, e, sgusciando via senza che nessuno potesse trattenerlo, schizzò via dalla canonica e sparì.

L'arrivo della madre, invece, su Bernardino aveva avuto un effetto del tutto diverso. Si era come paralizzato. Lo sguardo di sfida che aveva mostrato fino a quel momento al prete, era stato sostituito da un'espressione livida e immobile che lasciava trasparire un panico profondo.

La Tigre non avrebbe mai voluto che suo figlio la guardasse a quel modo. La faceva sentire un mostro. Era come se, da lei, si aspettasse di tutto.

“Che cos'è successo?” chiese la donna, mentre il prete che gridava ammutoliva e quello che raccoglieva le pagine si bloccava.

“Ecco...” l'uomo deglutì e abbozzò un sorriso: “Nulla, nulla...”

Pareva che si fosse reso conto solo in quel momento che il ragazzino che stava sgridando fosse il figlio della Sforza e il lampo di terrore nei suoi occhi le lasciò intuire quali fossero i suoi pensieri: da accusatore era passato rapidamente a essere l'accusato e temeva di vedersi infliggere una pena esemplare.

Stanca di essere sempre vista come una despota pronta a colpire indistintamente i colpevoli e gli innocenti, la Contessa chiese, con voce più calma: “Che cos'è successo? Vi prego, ditemelo affinché possa punire mio figlio come merita.”

Al che il religioso, dopo una piccola indecisione, spiegò che Bernardino e il suo amico – che Caterina capì essere uno dei figli della coppia a cui lo aveva affidato da piccolino – erano entrati in canonica di nascosto per nascondere nelle rane nei cassetti, per far spaventare i preti, ma che nell'inseguire uno degli animaletti scappati dalle loro tasche, avevano fatto rovinare in terra un prezioso libro di preghiere, rompendone la costa e facendone andare pagine ovunque.

La donna si passò una mano sulla fronte e disse: “Bernardino: aiutali a mettere in ordine e porta fuori le rane, se ce ne sono ancora. Quando avrai finito, ti aspetto alla rocca. E vi ripagherò il libro.”

L'ultima aggiunta, a beneficio dei preti, venne accolta da una serie di educate rimostranze, con cui le dicevano che non fosse il caso, ma la Leonessa sapeva bene che nessuna chiesa rifiutava mai del danaro.

Uscì da San Girolamo di pessimo umore, la testa immersa nei suoi pensieri, gli occhi del figlio ancora ben impressi in mente. Quando faceva certe espressioni le ricordava tanto se stessa, anche se nell'insieme, era Giacomo a cui assomigliava di più. Crescendo, ne era certa, sarebbe diventato molto bello, e allora sarebbe stato ancora più difficile riuscire a tenerlo su una strada abbastanza dritta.

“Allora, che era successo?” Ottaviano, che aveva lasciato che i fratelli lo precedessero a Ravaldino, stava aspettando la madre appena fuori dalla chiesa.

“Perché non sei già alla rocca?” gli chiese Caterina, che tutto aveva, fuorché voglia di parlare con lui.

“Bernardino ha combinato qualche disastro?” il tono del Riario non era particolarmente aggressivo, ma alla donna bastò per provare un profondissimo senso di irritazione: “Lo sapete che tutti tengono gli occhi puntati su di lui, per via di chi era suo padre. Dovreste stare più attenta a come...”

Il fatto che proprio Ottaviano si permettesse di farle certe ramanzine, fece perdere ogni parvenza di pazienza alle Tigre, che, per zittirlo, chiese, interrompendolo: “Come sta tua figlia?”

Il ragazzo non disse nulla, facendosi tremendamente serio. Caterina sapeva di aver toccato un argomento complicato, che nemmeno lei voleva affrontare, e sperava che in quel modo avrebbe tappato la bocca a suo figlio almeno fino al giorno dopo.

“Io...” iniziò invece lui, con il tono di chi non sa di cosa si stia parlando.

“Oh, giusto, forse è meglio dirti di quale figlia sto parlando, con tutte le poveracce che avrai messo incinta con la violenza, in tutti questi anni...” fece la Contessa, deglutendo e accelerando un po' il passo: “Sto parlando di Cornelia, la figlia a cui passi con sommo istinto paterno un appannaggio mensile che, a conti fatti, paghi coi miei soldi.”

Il Riario si grattò un po' la nuca e poi, già pentito di aver atteso la madre – nei suoi intenti c'era solo la puerile speranza di stare un po' solo con lei, lungo la strada che portava alla rocca – e commentò, a disagio: “Io... Ho una cosa da fare. Vi prego, andate pure avanti, io... Io arrivo presto.” e senza aspettare il benestare materno, girò nella prima stradina in cui si imbatterono, senza una meta precisa, con il solo scopo di allontanarsi dalla Tigre.

Quando arrivò alla rocca, Caterina ancora non era sbollita. Si era arrabbiata con Bernardino – e paradossalmente si era adirata di più per il solito confronto con Giacomo che non per la sua bravata da discolo – e subito dopo con Ottaviano, e le risultava difficile farsela passare.

All'altezza della statua bronzea del suo secondo marito, sentì qualcuno chiamarla: “Tigre!”

Si voltò di scatto, riconoscendo la voce di Manfredi e attese che la raggiungesse in un paio di ampie falcate. Quando lui le chiese come fosse andata e non ottenne risposta, capì che qualcosa doveva averla irritata e così cambiò subito discorso.

Mentre attraversavano fianco a fianco il ponte levatoio, lasciandosi alle spalle il monumento alla memoria di Giacomo e la città, bagnata dalla luce pomeridiana che stava già volgendo al serale, il faentino le disse: “La Messa in Duomo è stata bella. Molto solenne, davvero. Anche tuo figlio ne ha officiate delle parti.”

“Non credevo potesse già.” fu l'unico commento della Sforza.

Ottaviano sollevò appena le spalle. Aveva un po' freddo. Per vestirsi bene, aveva scelto l'abito più bello che avesse, che, però, era irrimediabilmente primaverile e troppo leggero per quella giornata dal sapore ancora di fine inverno.

“Fatto sta – riprese l'uomo, i capelli biondi che ondeggiavano un po' a ogni passo – che è stato davvero bravo, a parer mio. Si vede che crede in quello che fa.”

“Sì, ci crede anche troppo, temo.” ribatté la Leonessa, aspra.

Il faentino trattenne una risata. Non gli piaceva molto quel lato della sua amante. L'aveva sentita spesso parlare in modo sprezzante della religione e di Dio. L'aveva sentita bestemmiare in dialetti che nemmeno capiva. Però aveva sempre cercato di non dare troppo peso a quella sua vena miscredente. Conosceva la sua storia personale e poteva ben capire il suo astio. In certi momento non riusciva a passar sopra alla sua mancanza di rispetto, ma non aveva voglia di litigare, perciò almeno quella volta cercò di buttarla sul ridere.

“E dovevi vedere i tuoi sudditi: lo trattavano come fosse già un papa!” fece lui, standole accanto anche mentre oltrepassavano il portone e salutavano le guardie con un cenno del capo.

“Dio scampi l'umanità da un papa come Cesare.” disse la donna, fermandosi poi appena prima di imboccare la scale: “Devo andare a cambiarmi, aspettami nella sala dei banchetti.”

Ottaviano avrebbe voluto trattenerla, o seguirla un momento al piano superiore, ma alla fine lasciò perdere e fece come gli era stato detto. Lui non doveva cambiarsi, anzi, in un certo senso non poteva, dato che portava già addosso il suo vestito migliore, e quindi non gli restava che attendere l'arrivo degli altri ospiti.

 

“No, no, non dico che avrebbe dovuto invitare anche me...” stava dicendo Alessandro Orfeo, guardandosi il dorso della mani, come fingendo di controllarsi le unghie: “Solo che credevo che si trattasse di una festa ufficiale, ecco tutto. Come ambasciatore di Milano, contando anche che l'ambasciatore della Contessa, Baldraccani, a Milano verrà sicuramente tenuto in massima considerazione e verrà di certo accolto a ogni ricevimento...”

Andrea Bernardi, che aveva incontrato per puro caso il milanese ed era rimasto spiazzato nel vedersi chiamare e fermare per chiacchierare, annuì in silenzio.

Nemmeno lui era stato invitato alla rocca, quella sera, così come non era stato invitato mai, per nessun'altra festa. Avrebbe voluto lamentarsi a sua volta, ma gli pareva irrispettoso, da parte sua, paragonarsi a un ambasciatore della levatura dell'Orfeo. Un barbiere e il messo del Duca di Milano, nel suo modo di concepire il mondo, avevano ben poco a che spartire.

La piazza si stava lentamente svuotando, mentre da nord spirava un venticello abbastanza freddo, che stava rendendo il Novacula sempre più desideroso di lasciare al suo destino il milanese e tornarsene a casa.

In altri tempi sarebbe stato famelico di notizie che riguardavano la Tigre, ma in quei giorni si sentiva quasi nauseato dalla sua presenza. La città era un brulicare di soldati, sulla Torre Pubblica ancora svettavano le teste di uomini di cui la gente aveva ormai dimenticato il nome e il motivo della punizione che avevano subito – ma non l'identità della loro assassina – e non c'era quasi palazzo che non portasse il biscione degli Sforza inciso o dipinto. In un certo senso, non si poteva fare un passo, a Forlì, senza ricordarsi che quella donna comandava su tutti loro.

Per Andrea era già un tormento così, senza dover parlare di lei anche con l'Orfeo.

Stava ancora, tra l'altro, aspettando che la Contessa lo chiamasse a Ravaldino, per chiedergli che notizie portasse da Bologna, ma gli era sempre più chiaro che probabilmente la Leonessa non l'avrebbe convocato mai.

“Vedete, la cosa che mi fa soffrire maggiormente...” stava dicendo Alessandro, prendendo Bernardi per un braccio, per non lasciarlo scappare: “Ecco, è soprattutto vederla così scostante nei miei confronti. L'ho scritto anche al Duca, e lui mi ha detto di non dar peso al carattere della nipote, ma io temo che il suo modo di trattarmi sia invece uno specchio di quel che pensa di Milano e...”

“La Contessa ha un pessimo carattere, su questo non ci piove. Pessimo, davvero.” provò a taglia corto il Novacula, azzardando un paio di passi, ma vedendosi praticamente inseguito dal suo interlocutore: “Se vi tratta in un modo che vi appare scostante, ha ragione il Duca: è solo perché ha un carattere terribile, ve lo posso confermare.”

L'ambasciatore si era messo a seguire il barbiere. La città si stava ritirando nelle case, dalle finestre arrivavano i primi bagliori serali e solo i quartieri ricchi di bordelli o locande si stavano rianimando, come se per loro il giorno stesse appena iniziando.

Andrea, che aveva una grandissima voglia di ritirarsi e pensare un po' agli affari suoi, tentò di scollarsi di dosso il milanese con un lapidario: “Tutti gli Sforza hanno un pessimo carattere. Voi dovreste saperlo quanto me, visto che vivete alla corte del Moro.”

L'Orfeo strinse un momento i denti. Aveva sentito dire, specie da un certo Leone Cobelli, che quel barbiere fosse stato in passato uno degli uomini più fedeli alla Tigre. Qualcuno, addirittura, lo additava come uno dei suoi tanti amanti respinti. Ciò che era chiaro a tutti, comunque, era che ultimamente il Novacula aveva avuto sempre meno contatti con la Sforza e che tra i due, forse, si stava aprendo una frattura.

L'ambasciatore voleva scavare nel solco e tirarne fuori informazioni utili, dato che dalla Contessa non riusciva a cavare se non frasi di circostanza e richieste formali di aiuto e alleanza.

“Avete ragione, avete ragione...” borbottò, accelerando un po' il passo per sta dietro ad Andrea, che si era messo a camminare spedito: “Certo che anche i suoi figli, che pure sono dei Riario, non hanno un carattere migliore del suo.”

“Certo, il Conte Ottaviano è un giovane uomo scostante e pieno di difetti, ma chi non lo è, a vent'anni?” sbuffò il barbiere, vedendo, finalmente, in lontananza la propria casa.

“Mi riferisco più che altro a madonna Bianca e messer Cesare. Evitando di parlare del piccolo Feo, quello è peggio di un ragazzino di strada.” disse, freddo, l'Orfeo.

Nel sentire nominare Bianca, il Novacula si accigliò e si fermò di colpo. Non si era sorpreso di sentir lamentele su Cesare. Lui stesso non aveva mai sopportato il secondogenito della Contessa, tanto meno dopo l'incidente occorso a Giacomo Feo. E su Bernardino si trovava ancora una volta in parte d'accordo. Era un ragazzino davvero bellissimo, ma i suoi modi erano da selvaggio e non c'era giorno che non combinasse qualche disastro. Ma Bianca...

“Perché dite che madonna Bianca ha un brutto carattere?” chiese Bernardi, fissando il viso un po' smorto dell'ambasciatore.

Alessandro apparve seriamente divertito nel vedere il barbiere non concordare con lui, tanto che, quando parlò, lo fece con un tono ironico che risultò particolarmente indigesto al barbiere: “Ma come, voi no? Suvvia... Si atteggia come se potesse davvero parlare alla pari con un uomo. Io stesso ho avuto modo di scambiare con lei qualche parola e mi si è rivolta senza nemmeno abbassare lo sguardo o restare composta. E poi l'avete vista anche voi, di certo, assieme a tutti quei soldati... Si dice che giochi con loro ai dadi e che si interessi come la madre di alchimia, ma sappiamo tutti che sono solo scuse. Non vedete com'è disinvolta, con gli uomini? Quella ha imparato l'arte da sua madre, ve lo dico io. Ah, come possa pensare la Contessa di farla passare per innocente, lo sa solo il cielo. Fosse in Astorre Manfredi, sarei io a far annullare le nozze, altro che... Merce di terza mano, ecco cos'è, madonna Bianca Riario, non è certo quella che si cred...”

L'Orfeo non fece in tempo a concludere la frase, perché Andrea gli aveva puntato contro il dito e lo stava guardando con l'espressione più minacciosa che gli riusciva: “Badate bene a non parlare mai più così di madonna Bianca, soprattutto in mia presenza.”

Il milanese strinse le palpebre, indeciso se ricambiare la minaccia o meno. Per fortuna un mezzo rombo del cielo, forse un tuono molto lontano, venne seguito a ruota dalle prime gocce di una pioggia fitta e gelida, che lo indusse a desistere.

“Vi auguro una buona serata, Bernardi. Passate bene quel che resta di questa Santa Pasqua.” disse Alessandro, toccandosi la berretta con indice e medio e passando accanto al barbiere, in direzione del suo alloggio.

Anche il Novacula si mise a camminare veloce, per sfuggire alla pioggia. Arrivato a casa, dopo essersi sommariamente asciugato, mise sul fuoco la minestra del mezzogiorno, per riscaldarla. Non gli era piaciuto quello che gli aveva detto l'Orfeo, né il modo sicuro in cui l'aveva detto.

I pettegolezzi, come storiografo ne aveva avuto esperienza diretta, potevano far più male dei cannoni e la Tigre si ostinava a non capirlo, accordando troppa libertà ai suoi figli, in primis, e comportandosi lei stessa in modo troppo disinvolto.

Mescolando distratto il minestrone, Andrea si chiese come avrebbe potuto aiutarla, ma, appena la cena fu calda, accantonò anche solo l'ipotesi di farlo. Negli anni, tutte le volte che si era adoperato per lei, aveva finito per trovarsi con un pugno di mosche nella mano, e non voleva più fare la figura del fesso.

 

Caterina ci aveva pensato per un po', passando in rassegna tutti gli abiti migliori del suo guardaroba, e alla fine aveva optato per l'abito rosso, dalla scollatura generosa, che era piaciuto tanto a suo marito Giovanni.

Aveva indossato un buon numero di gioielli, avendo cura di sceglierne di molto preziosi, ma poco appariscenti. Non voleva che tutti guardassero i suoi monili, ma trovava importante dar risalto a quella ricchezza che, a conti fatti, avrebbe potuto tornarle utile.

Mentre richiudeva il piccolo forziere che custodiva i suoi preziosi, la donna si trovò una volta di più a pensare a come quel patrimonio di oro e pietre preziose andasse difeso. Il Medici aveva speso una cifra esorbitante, per ricomprarglieli e quel sacrificio andava onorato. Se le cose fossero andate per il peggio, con un po' di accortezza e di pazienza, i suoi figli avrebbero potuto usare, un giorno, quei gioielli per comprarsi la libertà o di che mangiare.

Si diede un'ultima sistemata, controllando i lunghi capelli ormai bianchi, tenuti sciolti, com'era suo costume, e poi lasciò la stanza.

Quando arrivò nella sala dei banchetti trovò molti invitati già pronti alla cena, mentre altri stavano arrivando alla spicciolata.

Quando la Contessa varcò la porta, molti occhi si voltarono verso di lei e per qualche minuto il silenzio fu pressoché assoluto. Per fortuna, però, salvo qualche sguardo un po' troppo insistente di certi uomini, l'attenzione su di lei andò sfumando abbastanza in fretta.

La Sforza si guardò attorno per un po', e infine vide, vicino al tavolo d'onore, Ottaviano Manfredi, Bianca e Galeazzo che parlavano con Dionigi Naldi, affiancato da una donna, e così seppe subito dove recarsi, per cominciare quella serata.

“Sono felice di vedere che vi siete ripreso un po'.” disse la Tigre, avvicinandosi al Capitano.

Nel vederla arrivare, sia Galeazzo sia Bianca si ritirarono in buon ordine, per lasciarla parlare in tranquillità con il suo comandante. Solo Manfredi attese qualche istante di più. Era rimasto immobile a fissarla, attratto da lei come non mai, ora che la vedeva con indosso un abito rosso che ne metteva in risalto il corpo generoso e provocante. Non era nuovo, lo si vedeva benissimo, ma su di lei pareva perfetto.

Ci volle un'occhiata abbastanza significativa della Leonessa per fargli capire che voleva restare da sola coi suoi ospiti.

Mentre il faentino si scusava, e si allontanava un po', Naldi sorrise alla Sforza, quasi avesse visto la Madonna in persona.

Era smagrito, in viso e qualcosa era cambiato nei suoi occhi. Per quanto la detenzione fosse stata di fatto abbastanza breve, era chiaro che quell'uomo avesse creduto davvero di essere perduto, e la ritrovata libertà non gli aveva ancora tolto l'aspetto precario di un condannato a morte.

“Mia signora, non so come ringraziarvi, per aver intercesso per la mia liberazione.” fece Dionigi, con un profondo inchino: “Posso presentarvi mia moglie?”

La donna che stava vicino al Capitano chinò la testa, mentre la Sforza diceva: “Dianora, giusto?”

Le avevano parlato una volta della consorte di Dionigi, per l'appunto una certa Dianora Valgimigli, dicendole anche che gli aveva dato due figlie e nemmeno un erede maschio, cosa che al marito non aveva molto accettato.

“Mia signora, è un onore potervi conoscere.” fece la donna, restando china, in segno di rispetto.

“So che avete due figlie.” buttò lì Caterina, passando gli occhi verdi da Dianora a Dionigi.

“Sì, è così.” rispose la moglie di Naldi, azzardandosi a sollevare finalmente lo sguardo.

“Mi congratulo con voi.” disse la Contessa, appoggiando una mano sulla spalla del Capitano e stringendo appena, in un modo che l'uomo interpretò come un chiaro messaggio: “I maschi servono a poco, a questo mondo. Con due figlie, dovete ritenervi fortunati.”

Per Dionigi quel commento era come dirgli che la Tigre aveva sentito dei pettegolezzi sul suo disappunto verso l'incapacità della moglie di dargli un figlio maschio e che non l'approvava.

Quindi, mangiata la foglia, l'uomo stirò appena le labbra e concordò: “Avete ragione, mia signora, e non potrei infatti essere più felice di così.”

“Bene. Siete un uomo intelligente.” tagliò corto la Sforza: “Piuttosto, stasera pensate a bere e mangiare, che vi vedo pelle e ossa.”

“Io sarei pronto per partire per il fronte anche domani stesso, mia signora.” rese noto Naldi, gonfiando un po' il petto.

“Preferisco tenervi qui a Forlì per qualche giorno. Dovete riprendervi. Un comandante deperito non mi serve a niente. Uno in forze, invece, sì.” lo tacitò la Contessa.

Dianora stava occhieggiando verso Bianca e la Tigre comprese, ricostruendo anche gli stralci del dialogo che aveva sentito mentre si avvicinava loro, che le due avevano lasciato a metà un qualche discorso, probabilmente qualcosa che riguardava il ricamo o simili, e così disse alla moglie del Capitano: “Andate pure, se volete...”

Questa la ringraziò e si riavvicinò alla Riario, ricominciando subito a parlare con lei fittamente, indicando la tovaglia, il cui orlo era stato ricamato personalmente della figlia della Tigre, che copriva la tavolata d'onore.

“La guerra tra Venezia e Firenze sta per concludersi, pare.” disse a voce bassa la Leonessa, cambiando radicalmente espressione: “Quindi preferisco tenervi a Forlì finché non sapremo meglio quello che accade.”

Anche il viso di Naldi aveva perso la luce leggera della convivialità, adombrandosi: “Dunque credete che presto ci sarà la pace?”

“Potrebbe, ma la guerra per noi è tutt'altro che finita.” mise in chiaro lei: “I francesi si stanno muovendo e penso che potrebbero attaccare Milano, anche se la presenza del figlio del papa nelle loro fila e la bolla con cui il Borja mi dichiara padrona illegittima di queste terre mi fanno credere che sia la Romagna il vero obiettivo di Alessandro VI.”

Naldi aveva saputo tutto quanto da Luffo Numai, che stava entrando nel salone proprio in quel momento, accompagnato dalla moglie Caterina Paolucci. In un certo senso dava ragione alla Contessa, ma dall'altro, come la maggior parte dei Capitani con cui aveva avuto modo di parlare dopo la sua liberazione, gli pareva impossibile che il papa fosse davvero pronto a un'azione tanto scellerata.

Gli pareva molto più probabile che volesse solo spaventare i signori di Romagna, lasciandoli per un po' nel panico, salvo poi chiedere soldi in cambio della loro riconferma sui rispettivi scranni.

Tuttavia annuì, abbastanza convintamente, e diede ragione alla Sforza, chiedendo poi, come colto da un dubbio improvviso: “Ma la questione di Corbizzo Corbizzi? Mi avevano accusato e mi hanno liberato. Si accontentano così o hanno trovato un altro colpevole? La questione è conclusa?”

A quelle domande, Caterina aveva istintivamente allungato l'occhio verso Ottaviano Manfredi, che stava chiacchierando, disteso, con il Capitano Bezzi e il Capitano Mongardini, ma aveva risposto, senza troppi indugi: “Me lo auguro.”

Ritenendo momentaneamente concluso il loro dialogo, la donna congedò Naldi e si avvicinò al faentino: “Forse è meglio se cominciamo a prendere posto – gli sussurrò – gli invitati sono quasi tutti arrivati.”

“Tuo figlio Ottaviano dov'è?” chiese Manfredi, accigliandosi, mentre raggiungevano il tavolo d'onore.

La Sforza passò in rassegna il salone con lo sguardo, come aveva appena fatto il suo amante, e nemmeno lei lo vide. Si augurava di vederlo palesarsi prima dell'inizio ufficiale del banchetto, ma nutriva qualche dubbio.

“Non mi interessa.” fu l'unica risposta che diede al faentino e, con un sospiro, si andò a sedere, restando in silenzio finché non diede inizio a quella festa di Pasqua.

 

Ottaviano si guardò in fretta allo specchio. Anzi, più che uno specchio, quello era una sorta di fondo di bottiglia. Non era ben spianato ed era troppo piccolo. Malgrado ciò riusciva comunque a vedere il profondo graffio che la donna gli aveva lasciato sul petto.

Con un gesto stizzito, si richiuse meglio il giubbone, controllando come poteva, per essere certo che almeno in quel modo non si vedesse.

Si ripulì ancora una volta le mani nella bacinella d'acqua che stava sul mobiletto e le asciugò nel lenzuolo. Non voleva che si vedessero tracce di sangue.

Si passò con lentezza le dita tra i capelli, districando un po' le ciocche che si erano aggrovigliate, andando a compromettere il perfetto profilo dei suoi lunghi riccioli inanellati e poi, il pomo d'Adamo che correva irrequieto nella gola, finalmente si decise ad alzare lo sguardo verso la giovane che era ancora priva di sensi nel letto.

Non aveva avuto intenzione di farle del male. Voleva solo sfogarsi. Poi, però, lei si era irrigidita, aveva cercato di rifiutarlo. Come se fosse stato nel suo diritto farlo... Poi l'aveva graffiato e l'aveva minacciato, dicendogli che se anche era un Conte, non poteva comprare tutto con i soldi e con il suo nome. E allora Ottaviano aveva perso la testa e aveva cominciato a colpirla, mentre si prendeva quel che voleva.

Si avvicinò un istante, un po' per essere certo che respirasse ancora e un po' per una perversa curiosità verso lo scempio di cui era stato capace.

Le aveva sicuramente rotto il naso. Era da lì che aveva perso la maggior parte del sangue. E le aveva spaccato il labbro in due punti e un sopracciglio. Però era ancora viva.

Mentre il giovane uomo era ancora chino su di lei, in osservazione, la ragazza spalancò gli occhi chiari e, trovandoselo davanti, si paralizzò di paura, iniziando a gemere in silenzio, in una sorta di incomprensibile preghiera.

Spaventato più di lei, il Riario le siede un ennesimo schiaffo, facendola ripiombare nell'incoscienza.

Con il fiato corto, si controllò la mano e dovette rilavarla. Si schiarì la voce qualche volta e poi cercò nella scarsella, per vedere quanti soldi avesse ancora.

Il padrone del postribolo gli aveva chiesto i soldi in anticipo, conoscendolo, ma dopo quello che era successo, Ottaviano preferiva aggiungere qualche moneta di mancia, affinché non ne venisse fatta parola con nessuno.

Aveva appena due soldi, ma sperava bastassero. In fondo quella era una delle peggiori bettole di Forlì, e aveva avuto l'onore di poter usare quella stanza e non i cubicoli del piano di sotto solo perché aveva pagato con una moneta d'oro. Al proprietario di una simile topaia sarebbero ben bastati, due miseri soldi.

Così uscì, senza voltarsi nemmeno per sbaglio, scese al piano di sotto, due gradini per volta, rischiando anche di ruzzolare, e andò dal lenone e gli mise nel palmo della mano il denaro, dicendo, sbrigativo: “Per la ragazza...”

“Mi avevate già pagato.” gli rese noto l'uomo, scorgendo una vaga confusione nel volto lungo del cliente.

“Sì, lo so, ma... Oh, per Dio, accettateli e basta!” sbottò il Riario.

A quel punto l'altro non ebbe più nulla da ridire e intascò la piccola somma, salvo poi capire di colpo il motivo di quella generosità e domandare, con voce acuta: “Non me ne avrete mica rovinata un'altra, eh? Perché in tal caso due monete non bastano certo per...”

“Mia madre mi aspetta.” tagliò corto Ottaviano, sottraendosi alle parole e allo sguardo sconcertato del lenone: “Se... Se servirà altro... Passerò domani a saldare il mio conto.”

E detto ciò, uscì per le strade quasi deserte di Forlì, inghiottito nel buio della sera e dalla pioggia, che ancora scrosciava sulla città, diretto alla rocca, sperando che la Tigre fosse troppo distratta da altro per capire cosa l'avesse trattenuto così a lungo.

 
 
   
 
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