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Autore: Adeia Di Elferas    29/12/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Bernardino era tornato dalla sua punizione in chiesa poco dopo l'inizio del banchetto, mentre di Ottaviano ancora non c'era traccia. Giovannino era stato portato nella sua camera da una della balie, più per tranquillizzarlo, che non perché la madre lo volesse allontanare. La confusione, come sempre, gli dava un gran fastidio e, anche adesso che aveva quasi un anno, la sua reazione infastidita era palese come quando aveva ancora pochi mesi.

Sforzino si era gettato, come sempre, sul cibo, ignorando sostanzialmente, tutto ciò che lo circondava, oltre alle portate di verdura, carne e pasta. Solo Cesare, Bianca e Galeazzo tenevano testa ai discorsi degli invitati di spicco della madre, intrufolandosi nei loro dibattiti e, di quanto in quando, iniziandone addirittura uno loro stessi.

“Non è per nulla brutta, Pisa...” stava dicendo Ottaviano Manfredi, spezzandosi un pezzo di pane per raccogliere un po' dell'intingolo che accompagnava lo stufato di cervo: “Ci ho vissuto per un po' e non mi è dispiaciuta.”

Cesare si era messo a parlare del suo nuovo incarico e della sua futura carriera come Arcivescovo di Pisa e si era chiesto a voce alta se qualcuno sapesse dirgli qualcosa di quella città.

Sua madre, seduta nel posto centrale, con Galeazzo alla sua destra e Bianca alla sua sinistra – dove, secondo i primi calcoli, avrebbe dovuto stare Ottaviano che, invece, non era ancora arrivato – non aveva dato cenno di voler rispondere, e così avevano fatto tutti gli altri, compreso il Governatore Ridolfi, che pure sembrava infervorarsi ogni volta che si nominava una città toscana.

L'unico che aveva espresso la sua opinione era stato appunto il faentino, che poi, però, aveva lasciato cadere l'argomento con un semplice: “Ma io mi muovevo sopratutto di notte, tra locali di malaffare e risse nelle osterie. Immagino che un Arcivescovo frequenti altri ambienti...”

Per un po', mentre anche tutti gli altri ospiti si godevano la cena, nessuno sollevò altri argomenti, alla tavola d'onore, e fu solo un casuale commento di Luffo Numai a riaccendere il discorso.

“Questa carne è ottima – disse, rivolgendosi sapientemente prima alla Contessa e poi alla figlia Bianca, ben sapendo che la prima aveva cacciato la bestia e la seconda l'aveva cucinata – ma alla mia veneranda età forse è meglio che mi dia una regolata, o non digerirò nulla...”

“Oh, avanti!” esclamò Simone, versandosi dell'altro vino: “Non dite così! Siete ancora giovane...”

“Ho cinquantotto anni. Sarei giovane se ne avessi almeno quaranta di meno!” ribatté il Consigliere, con una risata che venne subito accolta dalla moglie e poi dagli altri commensali.

“Anche io a volte mi sento vecchio...” fece Ridolfi, volendo suonare scherzoso, ma dando alla tavolata invece l'impressione di essere più che serio.

Per levare l'attenzione dal fiorentino, che pareva improvvisamente a disagio, a parlare fu Francesco Fortunati che, guardando incuriosito Ottaviano Manfredi, gli chiese: “E voi quanti anni avete? Ho sentito molte cose sul vostro conto e sulle vostre imprese. Però mi sembrate molto giovane, per aver passato già così tante traversie...”

“Ne ha ventisette. Lo so che vi sembra troppo giovane per me.” rispose prontamente la Sforza, senza ragionare.

Ci fu un brevissimo istante in cui molti dei commensali seduto al tavolo d'onore rimasero in totale silenzio, smettendo anche di mangiare, fissando la Tigre in modo strano.

Poi, però, Manfredi ebbe la prontezza di prendere la parola e stemperare con una risata la tensione di quell'attimo: “Quanto corriamo... Ne ho ancora ventisei. Ventisette li compirò il sei agosto.”

Mentre la conversazione si spostava sulle date di nascita e il confronto delle influenze astrali sul carattere e sulla fortuna, Caterina bevve un po' di vino e abbassò lo sguardo sulla carne di cervo, una striatura rossa che saliva dal collo.

L'unica ad accorgersene fu Bianca, che fu anche la sola a capire il perché di quella particolare avventatezza della Tigre nel rispondere al posto dell'amante. In famiglia, ormai da un po', la Sforza non nascondeva più in nessun modo il suo legame col faentino e quella situazione di rilassatezza, tra il mangiare e il bere, le aveva abbassato le difese, facendola agire come se fosse stata in presenza dei suoi figli e basta.

Era una cosa da niente, ma era chiaro che per la Contessa quello scivolone fosse difficile da digerire.

“Il cervo che avete cacciato è ottimo.” sussurrò la ragazza, rivolgendosi alla madre, cercando, a quel modo, di distrarla: “Sarebbe bello se i nostri cacciatori avessero la vostra bravura nel scegliere le prede giuste da abbattere.”

“Sei tu che sei brava a cucinarle, le bestie, non io a cacciarle.” minimizzò la donna, capendo lo sforzo della figlia e apprezzandolo.

“Vi assicuro che è molto più facile cucinare bene, se la carne è già buona di suo.” insistette la Riario, per poi mettersi a parlarle del più e del meno, permettendole, a quel modo, di non pensare più al mezzo incidente di poco prima.

“Che diamine...” sussurrò a un certo punto Caterina, interrompendo la figlia a metà di una frase con cui magnificava le stoffe che aveva trovato qualche giorno addietro al mercato.

La ragazza guardò nello stesso punto in cui stava guardando la madre e capì il motivo della sua esternazione.

Ottaviano era appena entrato nella sala dei banchetti, un po' in sordina, camminando rasente al muro. La cena era già in là e quindi qualche invitato era già alticcio e qua e là c'erano gruppetti di uomini che discutevano a voce alta e ridevano e così al giovane non fu troppo difficile arrivare fino al tavolo d'onore senza farsi notare troppo.

Il Riario si accorse subito che accanto alla madre non c'era posto, perciò si accomodò sull'unica sedia rimasta libera, al bordo estremo della tavolata. Non c'era né piatto né calice, per lui, ma non gli importava. Gli era passata la fame, lungo il tragitto che l'aveva portato dal bordello a Ravaldino.

Si era fermato più del dovuto lungo la strada, sostando in una locanda, per sfuggire alla pioggia, dove si era fatto dare da bere a credito, e poi, una volta placato quello che era sembrato quasi un temporale primaverile, quando si era trovato sotto la statua del Feo, qualche forza incontrollabile l'aveva portato ad andare al Paradiso. Il cantiere della cittadella era immobile, a quell'ora, ma anche al buio lasciava intendere la possanza di quella struttura difensiva che la Sforza aveva fortemente voluto costruire in così poco tempo.

Il tempo era volato e Ottaviano si era reso conto di quanto fosse tardi solo quando aveva sentito i rintocchi delle campane. Aveva smesso allora di vagare senza meta e si era diretto alla rocca, raggiungendo la sala dei banchetti nella speranza di non trovare una furia ad accoglierlo.

“Guarda tuo fratello.” fece la Tigre, indicando il primogenito con un cenno del capo: “Disordinato e visibilmente ubriaco. Non voglio nemmeno sapere dov'è stato fino ad adesso.”

Bianca non commentò, stringendo appena le labbra. Come sua madre, preferiva non saperlo, ma poteva ben immaginarlo.

“Avete saputo di Tommaso Feo, mia signora?” chiese Simone Ridolfi, all'improvviso, sollevando la Contessa dai suoi pensieri.

“Che cosa avrei dovuto sapere, di Tommaso Feo?” chiese lei di rimando, voltando platealmente le spalle al figlio che, nel suo angolino, se ne stava con le mani in grembo e lo sguardo un po' stranito.

Da quando aveva passato un anno da recluso, il Riario aveva sviluppato una fame atavica e vedere gli altri mangiare lo stava facendo impazzire. Però non aveva il coraggio di chiedere che gli allungassero qualcosa, tanto meno domandare che gli venisse portato un piatto.

L'unica cosa che ebbe la forza di fare fu prendere una fetta di pane nere e cominciare a mandarne giù un morso alla volta, sentendo nelle viscere il vino bevuto all'osteria mescolarsi con la paura che lo aveva preso mentre era con quella ragazza, come sempre vittima e carnefice di se stesso e degli altri.

“Non avete sentito che è tornato a Imola?” chiese Ridolfi, un po' sorpreso: “Credevo vi scriveste, di quando in quando.”

“No, non ci scriviamo.” fu la lapidaria risposta della Tigre: “Invece a voi scrive?”

“Mi ha scritto mia moglie e mi ha raccontato della visita del fratello.” spiegò, rigido, l'uomo.

“Dunque voi e vostra moglie vi scrivete ancora, malgrado tutto.” ribatté caustica la Contessa, ma poi riaggiustò il tono soggiungendo: “Se vi capita di scriverle ancora, pregatela di salutarlo da parte mia.”

“Non mancherò.” sorrise il Governatore, già distratto, come tutti gli altri, dal dolce che i servi di cucina stavano portando in sala.

Quando si arrivò al momento delle danze, il tavolo d'onore si trasformò in fretta nel parlatorio della Leonessa. I Capitani e i notabili della città si presentavano, in solitudine o in piccoli gruppi, per discutere con lei di questa o quella faccenda, mentre nel centro della sala, lasciata libera dai tavoli spostati contro il muro, gli altri invitati si concedevano un po' di svago.

Tra i primi a scendere in pista c'era stata Bianca, che aveva pregato il fratello Ottaviano di seguirla, sentendosi opporre un rifiuto. Il giovane aveva preferito ritirarsi del tutto, lasciando la festa, accusando un forte mal di testa, per non apparire troppo sgarbato.

Cesare era rimasto, invece, ma solo finché non aveva visto la sorella volteggiare in modo secondo lui eccessivamente licenzioso tra le braccia di un rampollo dei Numai, sulle note di un travolgente Amoroso. Troppo oltraggiato dal comportamento di Bianca, aveva preferito imitare il fratello maggiore e allontanarsi, per concludere in solitudine le preghiere di quella Santa Pasqua.

Bernardino, nell'indifferenza generale, era sgusciato via dopo la prima ballata, probabilmente a combinare qualche guaio con i figli dei servi. Sforzino, invece, aveva tenuto da parte un po' di torta, e, sedendosi in un angolo riparato della sala, si era messo a guardare gli altri divertirsi, accompagnando lo spettacolo al dolce.

Galeazzo, dopo essere rimasto per un po' accanto alla madre a sentire le rimostranze dei nobili di Forlì in merito alla difficoltà dei commerci e alla gestione del Quartiere Militare, che era sempre più ingombrante e difficile da tenere sotto controllo, era stato invitato dalla stessa Sforza a svagarsi un po', e così, molto più impacciato di quanto non fosse con le armi, aveva chiesto a una ragazzina, figlia di un ricco possidente della città, di danzare con lui.

Rimasta senza figli vicini, appurato che anche Manfredi fosse a debita distanza – impantanato in una lunga dissertazione con il Capitano Rossetti e Dionigi Naldi – la Sforza fece avvicinare Fortunati.

“Ci sono novità su Lorenzo?” gli chiese, sporgendosi un po' verso di lui.

Francesco guardò di sfuggita il calice tra le dita della donna. Aveva perso il conto di quanti ne avesse già bevuti, ma non voleva metter becco nelle sue abitudini. Quando si confessava con lui, non aveva problemi nell'elencare tutti i suoi peccati e quindi il piovano era certo che fosse pienamente consapevole delle sue mancanze, anche senza che lui gliele facesse notare.

“Nessuna novità, anche se la notizia della bolla sarà sicuramente già arrivata a Firenze. Se conosco ancora Lorenzo, credo che aspetterà di vedervi in ginocchio, e poi metterà in atto il suo piano e si prenderà Giovannino.” disse Fortunati, seduto accanto alla donna, una mano sul tavolo, che picchiettava a ritmo di musica, e l'altra sulla coscia, a lisciarsi l'abito scuro, unico segno tangibile del suo nervosismo.

“Non glielo permetterò mai.” ribadì Caterina, scuotendo il capo: “E anzi, adesso che l'eredità degli altri miei figli è a rischio, devo assicurarmi ancora di più quella che spetta a Giovannino.”

“Certo, certo...” soffiò Fortunati, deglutendo.

La Contessa non riusciva a capire il reale motivo della sua visibile tensione. Quelli erano argomenti di cui avevano parlato altre mille volte, eppure quella sera era come se il piovano si sentisse lambire dalle fiamme, per quanto era agitato.

La Tigre disse ancora qualche frase trita e ritrita sulla questione fiorentina e, sentendosi rispondere in modo vago e spezzettato, cercò di comprendere cosa vi fosse alla base di quell'atteggiamento e finalmente si rese conto che non erano gli affari di Stato a impaniare la lingua del suo amico, né l'ansia per il futuro.

Gli occhi del piovano continuavano a correre, impenitenti, al suo corpo, valorizzato dall'abito rosso che con la sua larga scollatura le lasciava scoperta più pelle di quanto forse non fosse consono per una vedova nella sua posizione, ai suoi polsi e alle dita delle sue mani, su cui spiccava, tra gli altri anelli, il nodo nuziale che ancora la legava, seppur solo metaforicamente, a Giovanni. Se ci pensava bene, si rendeva conto che quella donna non assumeva mai atteggiamenti che fossero seducenti o provocanti nel senso classico del termine. Era il suo semplice esistere, il modo in cui respirava e parlava, il profumo della sua pelle, l'aurea di innata forza che si levava da lei... Erano tutte quelle cose che, messe insieme, la rendevano l'essere più desiderabile che Francesco avesse mai incontrato nella sua vita.

Nello scoprire in Fortunati quella debolezza così umana, alla Contessa scappò un sorriso. Sapeva di fare quell'effetto a molti uomini e negli anni aveva imparato ad abituarsi e ad approfittarne, quando le faceva comodo. Però non aveva intenzione di tenere ancora sulla graticola un sant'uomo come Francesco.

“Ne riparliamo domani, siete d'accordo?” fece, alla fine, non resistendo comunque alla tentazione di posare la propria mano sulla sua, al solo fine di convalidare la sua ipotesi.

Rosso come il fuoco, la voce resa quasi impalpabile, il piovano a quel tocco scattò in piedi e annuì, secco: “Certo, ne parliamo domani.” e senza dire altro uscì abbastanza in fretta dalla sala, probabilmente per ricomporsi prima di mescolarsi di nuovo con gli altri presenti.

La festa stava prendendo una piega sempre più caotica, i balli si susseguivano senza sosta e Bianca, vedendo come la madre avesse per un attimo interrotto le proprie udienze private, si era andata a sedere un momento accanto a lei, per riprendere fiato e bere qualcosa.

Anche Manfredi aveva smesso di intrattenere gli ospiti e si stava avvicinando al tavolo, gli occhietti azzurri che indugiavano ora sulla Riario ora sulla Sforza, quasi stesse cercando di capire a quale delle due parlare per prima.

“Mi concedi un ballo?” chiese l'uomo, allungando una mano verso Caterina, incurante degli occhi che lo osservavano e del chiacchiericcio che si stava già alzando, nel vedere qualcuno proporsi a quel modo alla Tigre.

Anche Luffo Numai, che era a qualche sedia di distanza, e Galeazzo, poco lontano da loro, trattennero il fiato, in attesa di vedere come la Leonessa avrebbe preso quella richiesta.

La donna, facendosi un po' più seria di quanto già non fosse, bevve un sorso di vino e rifiutò: “No, non ballo più, ormai.”

“Avanti... Solo una danza.” insistette lui, che, scaldato dal vino e dall'aria di festa, desiderava solo portarsela in mezzo alla sala e stringerla a sé davanti a tutti.

“Ti ho detto di no.” fu la ferma battuta della donna.

“Allora posso sperare che a dirmi di sì sia la mia promessa sposa?” cambiò rapidamente fronte il faentino.

Prima di accettare, Bianca attese un cenno compiacente della madre, che arrivò, anche se non immediatamente. Posando il proprio calice, la Riario aggirò di nuovo il tavolone e lasciò che Ottaviano le prendesse la mano e la conducesse in mezzo alla pista.

Il faentino fece un cenno d'assenso ai musici che, come fossero stati d'accordo con lui, lasciarono perdere la lenta ballata che stavano suonando per dedicarsi a un Reale di cui Manfredi conosceva bene i passi.

Caterina, ferma sul suo scranno, si perse nell'osservare la figlia e il suo amante ballare assieme per un po'. Dal Reale si passò a una danza di gruppo, e poi ad altri ritmi, fino a tornare a un Amoroso dai toni spagnoli, molto audace e fisico.

Da un lato il suo sguardo era catturato dalle movenze sinuose e in un certo senso dolci dell'uomo, dall'altro, però, non poteva ignorare che la donna che lui stringeva tra le braccia fosse sua figlia Bianca. Cercò di non esserne gelosa, di vedere quello che stava accadendo semplicemente per quello che era: un ballo innocente durante una festa. Ma era difficile, per lei, restare impassibile davanti a quello spettacolo.

La Riario era una brava ballerina, aveva sempre amato la musica e quella sera sembrava avere le ali ai piedi. Le stava piacendo, stare al centro dell'attenzione assieme a Manfredi. Era alto, giovane, ma per lei maturo, forte. Ogni volta che la stringeva a sé, sentiva il cuore perdere un colpo e, più le giravolte e i sollevamenti si facevano ravvicinati, più la ragazza si sentiva sopraffatta da lui, tanto da non vedere più niente e nessuno, se non Ottaviano.

Più il tempo passava, più anche lei si faceva decisa nel modo in cui lo toccava e lo avvicinava a sé.

Il suo sentore le riempiva le narici e il calore del suo corpo l'attraeva come un magnete. I suoi muscoli, che si tendevano quando la tratteneva a sé o l'alzava in aria, sembravano chiederle di essere accarezzati e toccati, e tutto quanto si mescolava nella sua mente dandole quasi le vertigini.

Si trovò, senza volerlo davvero, a immaginarsi che quello fosse il loro banchetto di nozze, che dopo quelle danze così sensuali e avvolgenti sarebbero stati accompagnati in camera dagli invitati che, iniziando a spogliarli, li avrebbero incitati a fare il loro dovere con frasi sconce e motti da osteria.

E poi, rimasti soli, lei finalmente avrebbe potuto averlo tutto per sé, amarlo e capire che cosa la chiamava a sé con tanta forza da toglierle il respiro.

Mentre si cullava con quei pensieri, tanto reali da restare attonita, nell'accorgersi che si trattava solo di fantasie sterili, Bianca si rese conto che l'attenzione del suo cavaliere era stata attirata da qualcosa oltre la sua spalla.

Con la coda dell'occhio, la giovane cercò di intuire che cosa fosse e quando vide sua madre camminare spedita verso la porta, facendo un cenno appena percettibile a Manfredi, comprese che era lei, come sempre, ad avere l'attenzione dell'uomo.

“Perdonatemi...” fece Ottaviano, abbozzando un sorriso: “Comincio a essere stanco... Ho bisogno di un po' d'aria...”

E senza preoccuparsi del fatto che la stava lasciando sola proprio a metà di una ballata a due, il faentino si staccò da lei in modo repentino e, senza neppure chiederle di nuovo scusa o voltarsi per controllare se stesse bene, quasi corse fino all'uscio, inseguendo la scia lasciata dalla Tigre.

La Riario voleva essere superiore e non dar peso a quel fatto. Sapeva benissimo che lei, per Manfredi, non sarebbe mai stata nulla, se non una garanzia di non belligeranza tra lui e lo Stato della Sforza. Però, se il cervello lo capiva, il suo cuore e il suo corpo facevano fatica ad accettare quella verità.

Andò al tavolo, sorridente e disinvolta come sempre, e prese il calice lasciato prima a metà. Il fratello Galeazzo, nel vederla così, le si mise accanto, senza dire nulla, offrendo semplicemente la sua presenza come appoggio.

Malgrado la sua giovane età e il suo apparente impaccio dinnanzi alle questioni amorose, il ragazzino aveva capito molto più di quanto non desse a vedere e soffriva, nel vedere Bianca in quello stato.

Prima che riuscisse a mettere insieme due parole per confortarla, però, la giovane aveva vuotato il calice in un sorso e, il volto teso, si era alzata di nuovo ed era andata verso l'uscita.

 

Manfredi aveva lasciato la sala e aveva dovuto affidarsi al suo istinto, per capire dove fosse andata.

Gli era stato molto chiaro, il suo gesto: gli aveva chiesto di seguirla. Ma da lì al sapere dove, ce ne passava.

Con una sicurezza che sorprendeva lui per primo, l'uomo uscì nel cortile d'addestramento. L'aria era satura dell'odore umido del terreno bagnato di pioggia e, anche se il cielo al momento era sereno, il venticello fresco che gli scompigliava i capelli pareva promettere un altro acquazzone.

Finalmente la vide. Era sotto il porticato, vicino a una colonna, illuminata da una torcia e lo stava aspettando.

Le corse incontro e la strinse a sé, baciandola e trovandola molto più che recettiva alla sua iniziativa: “Perché non hai voluto ballare con me?” le chiese, mentre lei, studiatamente, lo portava vicino all'ultima colonna, quella d'angolo, la meno illuminata.

“Tigre...” sussurrò Ottaviano, capendo cosa la donna volesse realmente fare solo quando la sentì sollevare la coscia e premerla contro il suo fianco: “Andiamo in camera, almeno...”

La Sforza, che si era torturata per buon parte della serata guardandolo da lontano ballare con Bianca, scosse il capo, gli morse il lobo dell'orecchio e, cominciando a trafficare coi lacci delle sue brache, mise in chiaro: “No, non ho voglia di aspettare.”

Provocato, Manfredi non sapeva rifiutare. Si guardò alle spalle un paio di volte e, appurato che non vi fosse nessuno, nemmeno una guardia raminga, sollevò di scattò le gonne della Contessa.

Premendola contro la colonna e cedendo infine al suo invito, sussurrò, con la voce già rotta e il respiro più rapido: “Però facciamo in fretta, prima che arrivi qualcuno...”

La Leonessa non ebbe obiezioni e si aggrappò al suo amante, la pietra non del tutto liscia che le grattava appena la schiena lasciata scoperta dal suo abito rosso, dando sfogo al tormento che l'aveva accompagnata fin da quando l'aveva visto portarsi al centro della sala e iniziare a muoversi a ritmo di musica.

Si sentiva schiava del suo sangue caldo, come troppe altre volte le era capitato, e sapeva che intrattenersi con lui lì era pericoloso, che chiunque avrebbe potuto vederli, ma in quel momento non le importava. Lo voleva e basta.

 

Bianca ci aveva messo un po' a capire in che direzione fossero andati sua madre e Manfredi e anche se già a metà strada aveva intuito il motivo della loro piccola fuga, non si era fermata.

Arrivata sulla porta che dava sul cortile d'addestramento, rallentò un po' il passo, per paura di essere vista o sentita. Era una sensazione, nulla di più, ma era certa che li avrebbe trovati lì, da qualche parte.

Infatti, mentre scivolava lungo il colonnato, evitando il muro perché troppo illuminato, iniziò a sentire dei rumori che poteva ben riconoscere. I respiri spezzati, assieme a qualche mezza risata euforica, si mescolavano a uno strano tintinnio.

La Riario si bloccò. Si ricordò di colpo dei monili che quella sera sua madre indossava e si rese conto che il rumore metallico che accompagnava quello di due corpi che si amavano arrivava proprio da quei gioielli.

Si sporse un po', per avere anche la conferma visiva di quello che la Tigre e il suo amante stavano facendo e quando li vide intrecciati l'uno all'altra, la Contessa sua madre premuta contro la colonna, le gambe allacciate attorno ai fianchi del faentino, che la sorreggeva e l'assaltava senza tregua, ne ebbe abbastanza.

Era stata troppo avventata a volersi spingere tanto oltre e quindi sentiva di meritarsi il senso di nausea che la stava prendendo mentre, con lentezza e il più silenziosamente possibile, tornava nelle viscere della rocca.

La cosa peggiore era che si sentiva una sciocca. Come aveva potuto illudersi di poter avere l'attenzione di un uomo come Manfredi?

'Come potevo credere – si chiese, mentre tornava verso la sala dei banchetti – che lui potesse guardare me, quando può avere lei?'

Una volta ritornata alla festa, la giovane Riario ci mise qualche minuto, prima di orientarsi. Era stordita e dilaniata da sentimenti contrastanti. Se da una parte si sentiva felice per sua madre, che con Manfredi stava ritrovando, con grande lentezza e fatica, una sorta di equilibrio, dall'altro ne era invidiosa, perché lei poteva prendersi Ottaviano quando voleva, ed era anche gelosa di lui, perché avrebbe voluto averlo per sé e sé sola.

Li condannava, nel profondo, per quello che facevano. Non avevano il minimo pudore e rischiavano di dare ancora più scandalo di quanto non stessero già dando. Non approvava la loro noncuranza e il loro apparente totale disinteresse per le convenzioni e le leggi non scritte a cui chiunque, perfino un esule e una Contessa, doveva sottoporsi.

Però, intimamente, li ammirava per lo stesso motivo. Era affascinata dalla loro libertà, dalla loro sicurezza. Avrebbe voluto saper essere come loro, riuscire a lasciarsi tutto alle spalle, scordarsi di ciò che la società si aspettava da lei ed essere capace di fare quel passo in più che le permettesse di vivere come voleva, di fare ciò che il suo istinto le suggeriva di fare, senza continuare a tormentarsi pensando alle conseguenze e agli eventuali risvolti più tragici.

Sapeva che il vino che aveva bevuto stava acuendo il suo malessere, ma ciò non le impedì di prendere un altro calice, prima di rituffarsi nelle danze.

A quell'ora tarda, la festa era stata aperta anche a tanti soldati della rocca e ai membri della servitù e a quel punto la giovane Riario si sentiva come una bambina a cui veniva mostrata un'intera stanza piena di giocattoli. Stava a lei sceglierne uno e farne quel che preferiva.

 

 
 
   
 
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