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Autore: Adeia Di Elferas    29/12/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La Contessa e Manfredi tornarono alla festa accaldati e scapigliati, ma nessuno fece loro troppo caso, dato che le danze si erano fatte frenetiche e senza requie.

Gli unici che parevano essersi accorti di loro erano Mongardini e Rossetti, che, appoggiati al muro con i calici di vino ancora stretti nel pugno, li guardarono sfilare davanti a loro e, poi, scambiandosi un'occhiata d'intesa, scoppiarono a ridere.

“Quella donna...” soffiò Mongardini, tra l'ammirato e lo sconcertato: “Non balla con nessuno, ma direi che altre cose le fa più che volentieri...”

“Eccovi, finalmente...” fece la Sforza, vedendo Cesare Feo vicino al tavolo d'onore: “Temevo che non faceste a tempo a godervi nemmeno un ballo... Lavorate troppo. Almeno a Pasqua, dovevate lasciare i vostri libri contabili chiusi.”

Il castellano la guardò pensoso per un po', gli occhi scuri che indugiavano anche su Manfredi, alle sue spalle: “Iniziavo a credere che vi foste già ritirata, ma per fortuna siete ancora qui.”

Il tono con cui l'uomo le aveva parlato la mise un po' in allarme, perciò la Tigre decise di dargli subito ascolto, benché la sua mente fosse ancora in parte altrove.

Manfredi la reclamava ancora per sé e le aveva appena sussurrato all'orecchio di sbrigarsi, che aveva voglia di andare in camera, ma la Contessa gli disse di mettersi buono ad aspettare, che aveva una cosa importante da fare.

Il modo in cui i due si avvicinavano, gli sguardi d'intesa che si scambiavano e il vago sorriso con cui si erano infine intesi, avevano tolto ogni dubbio al castellano che ormai aveva capito benissimo che tipo di impegno avesse tenuto impegnata la sua signora fino a pochi minuti prima.

“Di cosa volete parlarmi?” chiese Caterina, prendendo da parte Cesare e abbassando un po' la voce.

Nella sala la confusione imperava. L'arrivo dei soldati e dei servi aveva, come sempre, surriscaldato l'ambiente e per riuscire a parlarsi senza gridare la Sforza e il Feo dovevano stare molto vicini.

“Possiamo discuterne anche domani...” fece l'uomo, rendendosi conto del vago rossore del viso di lei e del luccicare particolare dei suoi occhi.

Non la poteva dire ubriaca, ma nemmeno del tutto sobria e, di certo, da come continuava a lanciare occhiate al faentino, non era più di tanto concentrata su quel che doveva dirle lui.

“No, adesso.” fece la donna, restando in attesa.

Cesare, allora, si massaggiò la guancia, cercando le parole giuste per esprimersi e poi spiegò: “Il punto è che stavo controllando i calcoli fatti circa le scorte alimentari e temo che per il prossimo inverno il grano non ci basterà. Abbiamo dirottato troppi contadini verso le armi e, sì, siamo gli unici ad avere un esercito stabile ed efficiente, ma non abbiamo più nessuno che lavora i campi, se non qualche vecchio, qualche ragazzino e le donne. E il clima instabile che ci attendiamo non aiuterà certo questa povera gente a far crescere più grano.”

“Ne compreremo di più.” disse subito la donna.

“Da chi, mia signora?” allargò un po' le braccia lui, gli occhi stanchi che cercavano una risposta nel viso della Tigre: “La Romagna, con tutti i saccheggi e le scorribande che ci sono state è una terra morta. Bologna, con la questione dei carriaggi di Annibale Bentivoglio ci ha già fatto sapere che non intende impegnarsi con noi finché non avrà avuto un colpevole da punire, e Milano, con tutto il rispetto, non mi pare incline a farci prezzi di favore.”

“Resta Firenze.” sussurrò Caterina, scartando a priori sia Roma sia Napoli.

“Resta Firenze.” convenne il castellano: “Ma dopo che avete cacciato anche l'ultimo ambasciatore, credete che ci faranno un buon prezzo?”

La Leonessa sospirò. Guardò un momento la sala, dove i suoi soldati ballavano assieme ai servi e ai notabili della città. A vederli così, non si sarebbe detto che tutti loro fossero appesi a un filo sottile, con il rischio di morir di fame da lì a qualche mese.

“Io...” la donna deglutì un paio di volte, ricordandosi come solo pochi giorni prima avesse scritto a Lorenzo per pregarlo di non far richiamare a Firenze Ottaviano Manfredi.

Con che coraggio poteva rivolgersi di nuovo a lui – che, per altro, non aveva mai dimostrato nemmeno una volta di volerla favorire – affinché intercedesse per lei presso la Signoria facendole ottenere il grano a un buon prezzo?

“Vedrò quello che riesco a fare.” concluse, schiarendosi la voce: “Per il momento voi continuate a chiedere a tutti quelli con cui abbiamo mai avuto rapporti commerciali. Più grano e altri generi alimentari riusciamo ad accaparrarci, meglio affronteremo la guerra che il papa ci scatenerà contro.”

“Siete sempre convinta che alla fine si arriverà alle armi?” domandò il Feo, trafelato.

“Rodrigo Borja sa benissimo che io di soldi da dargli non ne ho, quindi che senso avrebbe chiedermeli in cambio della mia carica?” fece spallucce lei: “Questa bolla è solo un atto formale, un modo come un altro per non apparire troppo dispotico. Potrà dire di averci provato con le buone e, non riuscendosi, di aver dovuto poi usare la forza.”

Il castellano annuì e poi, chiedendone il permesso, si versò da bere e si sedette un momento al tavolo d'onore ormai quasi deserto.

A quel punto la Sforza cercò di nuovo Manfredi e lo vide, non molto lontano da lei, intento a parlare fittamente con Francesco Fortunati. Non le piaceva il modo in cui lui si chinava verso il piovano, né come questi scuoteva il capo e sollevava un po' la mano, quasi a voler calmare il suo interlocutore.

Non riusciva a capire quale fosse il nocciolo della questione, fatto stava che, non appena decise di andare da loro e cercare di capire di che stessero parlando, i due uomini si strinsero la mano e si scambiarono quella che pareva una promessa.

“Andiamo in camera?” chiese a Ottaviano, arrivandogli alle spalle: “Sono stanca.”

Il faentino sollevò le sopracciglia e annuì: “Anche io.”

“Congederete voi gli ultimi ospiti?” domandò la Contessa, rivolgendosi al castellano, quando gli passò accanto.

“Come sempre, mia signora.” fece lui, alzando il calice in sua direzione, a mo' di saluto.

Bianca stava ancora danzando. Era sudata e l'acconciatura, che a inizio serata era composta ed elegante, si stava poco per volta disfacendo, ma lei non accennava a fermarsi. Adesso che la festa si era fatta più popolare, imperversavano i balli di gruppo e la ragazza si stava divertendo come una pazza.

Era riuscita, almeno fino a quel momento, a dimenticarsi perfino della delusione provata nel rendersi ancora una volta conto di non avere la minima speranza di attrarre Ottaviano Manfredi.

Poi, però, l'aveva visto rientrare assieme a sua madre, e ora li poteva scorgere mentre raggiungevano di nuovo l'uscita, probabilmente per andarsene in camera e continuare quello che stavano facendo nel porticato.

Come le era già successo in passato, quella visione e quella consapevolezza fecero scattare in lei una molla. Pur continuando a saltare e battere le mani come la ballata di turno imponeva, iniziò a guardarsi attorno con un'attenzione tutta nuova.

Alla fine notò un giovane, che non ricordava di aver visto spesso alla rocca. Era una recluta, di sicuro, e aveva più o meno la sua età. Era alto, dalle spalle larghe e dal viso ben proporzionato. I denti erano bianchi e regolari e sorrideva di continuo, esaltato da quel clima di euforia. Aveva i capelli scuri, un po' incollati alla fronte per il sudore, e indossava semplici abiti da fante.

Siccome era a Ravaldino da poco, era probabile che sua madre non gli avesse ancora messo su le mani, e, con un po' di fortuna, la Riario si disse che avrebbe potuto farlo lei.

Seguendo il suono sempre più pressante del tamburo e degli strumenti a corda e a fiato – i musici sembravano non essere ancora stanchi, dopo quella lunga serata – la giovane gli si avvicinò e, cercando di non pensare troppo, gli fece capire il suo interesse, restando a ballare con lui anche per le danze che seguirono.

 

Una volta arrivati nella tana della Tigre, Manfredi le lasciò intendere di voler subito ricominciare la loro schermaglia amorosa. Con una mano che le stringeva il fianco, arricciando un po' la stoffa rossa del suo abito, prese a baciarla.

Anche la Contessa non aspettava altro, ma prima, per liberarsi un po' la mente e potersi dedicare meglio a lui, doveva chiarire una cosa.

Allontanandolo a fatica da sé gli chiese, riferendosi al breve colloquio che il faentino aveva avuto con Fortunati: “Che avevate da dirvi?”

“Come?” chiese lui, mordendosi il labbro e stringendo un po' le palpebre.

“Tu e il piovano. Di che avete parlato?” indagò la Leonessa, facendo ancora un mezzo passo indietro, più per evitare a se stessa di distrarsi troppo che non per frenare Ottaviano.

“Perché dovrei dirtelo?” ribatté lui, la bocca che si sollevava un po' di lato, in una smorfia infastidita.

“Siamo alleati, no? L'hai detto tu: io faccio una cosa e te lo dico, tu fai una cosa e me la dici.” si schermì Caterina, ricordandogli le sue stesse parole.

Grattandosi la nuca, l'uomo perse ogni velleità amatoria e sbuffò: “Voglio andare a Firenze, per riscuotere il debito che la Signoria ha nei miei confronti, e Fortunati ha accettato di accompagnarmi e aiutarmi a convincere il Medici.”

“E quando andreste?” chiese la Sforza, sentendo il sangue gelarlesi nelle vene, colta da un'improvvisa sensazione di freddo, quasi che con quella rivelazione il suo amante le stesse predicendo una terribile sciagura.

“Vorrei partire al massimo tra una decina di giorni.” rispose lui, senza più provare a nascondersi.

“E me lo dici solo adesso?” domandò lei, avvertendo una punta di rabbia farsi strada attraverso la paura.

“Perché te la prendi tanto, Tigre?” fece lui, incrociando le braccia sul petto: “Voglio solo avere i miei soldi. Mi spettano, e se non me ne vogliono dare, ebbene, farò in modo che cambino atteggiamento nei miei confronti e...”

“Firenze ti vuole spostare, ti vuole mandare via da Forlì, lontano da me, se vai lì, non ti lasceranno tornare...” cominciò a farfugliare lei, i pensieri che cominciavano a farsi confusi, preda dall'agitazione.

Non voleva vederlo partire, non voleva privarsene. Già aveva dovuto rinunciare a Giovanni da Casale, che, integerrimo come un cavaliere d'altri tempi, aveva piegato il capo al volere del Moro e l'aveva lasciata. Se anche Manfredi avesse fatto altrettanto con Firenze, lei come avrebbe fatto?

“Aspetta...” soffiò l'uomo: “Tu come fai a sapere delle richieste di Firenze?”

Siccome ormai le pareva inutile indulgere in reticenze, la donna spiegò: “Hanno scritto anche a me, affinché ti convincessi a presentarti spontaneamente alla Signoria per ottenere il tuo nuovo incarico.”

“Ho capito...” sussurrò lui, gli occhietti azzurri che saettavano da un angolo all'altro, finché non giunse a una conclusione logica del suo ragionamento: “E perché non me l'hai detto?”

“Perché...” la Contessa abbassò lo sguardo e confessò: “Ho scritto a Lorenzo Medici per implorarlo di non farti partire. Gli ho chiesto di intercedere presso la Signoria e lasciarti qui, con me.”

“Che hai fatto?” chiese lui, con un filo di voce, attonito.

“Sapevo che tu non ti saresti abbassato mai a chiedere di lasciarti qui, da me, ma io non voglio perderti e...” cominciò a dire lei, ma il faentino la bloccò.

Colmando la distanza tra loro con un'unica falcata, le diede uno spintone, gridando: “Come hai osato fare una cosa simile? Ma ti rendi conto? Che figura ci faccio io? Un uomo che manda avanti una donna a piangere per lui?!”

“Non è così, io...” provò a difendersi la Tigre, che, per prima, si era resa conto di quanto fosse difficile calpestare il proprio orgoglio.

“Credi che non sappia difendermi da solo? Credi che non avrei trovato il modo di tornare da te? Ti sembrava proprio indispensabile, farmi da balia anche con quel maledetto Medici?!” continuò l'uomo, prendendola per le spalle e scuotendola: “Solo perché sei più vecchia di me, non ti devi permettere di trattarmi come un bambino! Sono un uomo e so difendermi da solo! Non sono come il tuo Giacomo!”

L'ultimo inciso, forse sputato da Manfredi al solo scopo di ottenere una reazione nella donna che amava, portò la Leonessa a esplodere e nel giro di mezzo secondo, si mise a rispondere alle percosse di Ottaviano con altrettanta forza e furia e dalle sue labbra uscirono recriminazioni e bestemmie, mescolate tanto fittamente da rendere anche difficile capire che stesse dicendo.

 

Bianca aveva finito per lasciare la sala dei banchetti poco dopo la madre e Manfredi. Tenendo la mano del giovane che si era scelta, l'aveva portato fino al piano di sopra, ma, invece di portarlo in camera sua, l'aveva convinto a fermarsi per un po' in una delle alcove incassate nel muro che davano sul cortile.

Era un posto riparato e in quel corridoio non c'era anima viva, per cui la recluta non obiettò in alcun modo, così eccitato per quella che gli pareva una conquista insperata, da essere pronto ad accettare qualsiasi cosa.

Sedutisi l'uno accanto all'altro sul sedile di pietra – lo stesso, pensò la Riario con una strana stretta allo stomaco, in cui negli anni aveva portato più di un ragazzo per scambiare con lui baci e qualche timida effusione – la giovane aveva subito cominciato a dedicarsi a lui, saggiandolo come meglio poteva, un poco alla volta.

Erano immersi nel buio e solo la luce della luna, che si stava coprendo di nuovo di nuvole, li illuminava un po', riversando su di loro le ombre della notte.

A Bianca il profilo del ragazzo piaceva moltissimo e così il suo sapore, e, ancora di più, la freschezza del suo corpo guizzante, sotto le dita. Aveva infilato una mano sotto il suo giubbetto e sotto la camicia e aveva sentito il suo ventre piatto e il suo petto, coperto da una sottile distesa di peli, alzarsi e abbassarsi rapidi al suo tocco. Con l'altra mano, invece, gli stringeva la coscia muscolosa e solida, senza osare, per il momento, cercare altro.

Sentiva di volere di più, ma aspettava che fosse lui a prendere l'iniziativa. Così, quando finalmente il giovane cominciò a sfiorarla con maggior decisione, passando dal seno fino ai fianchi, la Riario si spostò con un movimento fluido sopra di lui, a cavalcioni, approfittando del sedile abbastanza spazioso da permetterle di mettersi a quel modo.

Lo sentiva prepotentemente contro di sé, caldo e fremente, impaziente quanto lei, le mani che la indagavano in ogni piega, in ogni curva, reso cauto, forse, solo dalla consapevolezza del nome di lei.

I vestiti che si frapponevano tra loro iniziavano a darle noia e avrebbe voluto avere il coraggio di sollevarsi le sottane e slacciare le brache di lui, dando finalmente fondo alla sua voglia di vivere e di sentirsi libera.

Tuttavia, non appena aveva trovato l'animo di avventurarsi più in là, la sua mente, infida e traditrice, unica vera gabbia della sua vita, le ripropose l'immagine di sua madre avvinghiata a Manfredi e si rese conto in rapida successione di alcune cose.

Prima di tutto, senza esserne realmente cosciente fino a quel momento, aveva immaginato che il ragazzo che era con lei fosse il nobile faentino dai lunghi capelli biondi e non una recluta che probabilmente aveva vissuto in mezzo ai campi fino a qualche settimana prima. Secondariamente, che quello che stava per fare lo stava per fare solo per ripicca, come una strana affermazione di potere, come a dirsi che oltre alla Tigre, anche qualcun altro poteva permettersi di ruggire, in quella rocca. E, infine, si accorse all'improvviso di non sapere nemmeno il nome del giovane uomo che stava baciando.

“Aspetta...” sussurrò, mentre il soldato finalmente si metteva ad armeggiare con le sue sottane.

Siccome il ragazzo non accennava a smettere, Bianca si scostò di colpo, rimettendosi in piedi. Lui la guardò stranito, la luce pallida e ferma della luna che rendeva il suo volto cereo, non più così attraente come le era parso sotto la luce calda e danzante delle torce e delle candele.

“Non posso. Non sono pronta. Non sono come lei.” disse in fretta la ragazza e fece per lasciare l'alcova, ma il ragazzo provò a trattenerla, afferrandola per la mano.

Con uno strattone imperioso, però la Riario si liberò e scosse il capo di nuovo. Adesso che se lo ritrovava davanti, in piedi, alto e ben piazzato, sentiva di nuovo il fuoco ribollire sotto la cenere.

In momenti come quello si sentiva come una fascina di paglia, messa accanto alla fiamma viva. Era difficile restarsene lì, avere la possibilità di avvicinarsi al focolare, ma avere paura di scottarsi. A stare così, in mezzo alle tentazioni, alla fine anche lei avrebbe preso fuoco, lo sapeva.

Avevano un bel dire, tutti quanti, ma era giovane, era stata cresciuta libera da certi dogmi e pregiudizi e sua madre per prima le aveva dato la possibilità di fare le proprie scelte, laddove possibile. E poi era lei la prima a porsi dei freni e dei limiti, e forse era proprio lì che stava la sua vera libertà: nel poter scegliere i propri confini.

“Ti ho detto di no.” insistette, mentre il giovane si chinava su di lei per tornare a baciarla: “Ti ho detto di no...”

 

La lite furibonda tra Manfredi e la Sforza era trasceso, arrivando a portare a galla anche alcuni tra i sentimenti che più facevano vergognare Caterina.

“Tu, mia figlia, non la devi nemmeno toccare, hai capito?!” stava urlando, le braccia allacciate a quelle dell'amante che, come lei, cercava di avere la meglio, almeno sul piano fisico.

“Guarda che casomai è lei a toccare me e non il contrario!” si difese lui, trasecolando nel vedere la Contessa tanto gelosa della figlia.

Furibonda per quell'esclamazione, la donna si ingegnò, riuscendo infine a far inciampare Ottaviano, facendolo rovinare in terra.

“Se proprio ti dà fastidio l'idea che diventi mia moglie, anche se solo sulla carta – fece lui, al suolo, il respiro mozzo per la caduta che l'aveva colto di sorpresa – allora non farmela sposare. Sposami te e basta!”

“Ti ho già detto di no.” gli ricordò la Leonessa, riprendendo fiato e controllandosi di sfuggita i gioielli e l'abito.

Nella furia dello scontro, non si era premurata di starvi attenta, ma, per fortuna, vide che non avevano subito danni.

“Ringrazia di non avermi rovinato l'abito...” soffiò, mentre Manfredi si rimetteva in piedi a fatica, puntellandosi al bordo del letto: “Era il preferito di mio marito... Non avrei sopportato di strapparlo...”

“Quale marito, di preciso?” domandò il faentino, passandosi una mano tra i lunghi capelli, e riaggiustandosi il giubbetto primaverile, che, al contrario del vestito della Sforza, si era lacerato in un paio di punti: “Giacomo o Giovanni?”

La Contessa non rispose, iniziando a togliersi con lentezza i vari monili che portava addosso. Era stufa di sentir tintinnare ogni volta che si muoveva e, in più, aveva paura che si riaccendesse la violenza tra lei e il suo amante e non voleva che nemmeno un pietra preziosa o un ciondolo d'oro andassero rovinati per un motivo tanto stupido.

“Non mi vuoi rispondere o non te lo ricordi nemmeno?” continuò l'uomo, tornando ad avvicinarsi a lei: “Perché, lo vedi, con te il problema è sempre questo: c'è sempre un altro uomo. E se non ce n'è uno solo, ce ne sono due!”

“Vattene, per favore.” disse a voce bassa la donna, sedendosi sul letto e guardandolo di sottinsu con occhio severo: “Per oggi basta così. Vattene.”

“Me ne vado, me ne vado...” ribatté subito lui, mettendo già una mano sulla maniglia: “Tanto lo so che anche senza di me, tu sai sempre come consolarti. Se non fosse che sei tu, ti avrei già ammazzato, Tigre.”

“Lo so.” fece lei: “E forse avresti dovuto farlo, quando ne hai avuto occasione. Sarebbe stato meglio per tutti e due.”

Ottaviano la fissò. Non capiva fino a che punto la sua amante volesse provocarlo e fino a che punto, invece, parlasse seriamente.

Alla fine preferì non chiederselo più e, dopo averle dedicato un cenno con il capo, uscì dalla tana, trovandosi immerso nel buio del corridoio.

Aveva mosso appena un paio di passi, quando sentì delle voci arrivare da una delle alcove scavate nella pietra che si affacciavano sul cortile d'addestramento.

Si fermò e restò in attesa. Tendendo l'orecchio riconobbe distintamente la voce di Bianca. Non capiva cosa stesse dicendo, ma gli sembrava in difficoltà.

Seguendo quel suono, che si faceva man mano più intelligibile, arrivò a un paio di metri dalla sua provenienza, giusto in tempo per vedere la giovane cercare di liberarsi di un ragazzo che stava cercando di trattenerla contro la sua volontà.

Manfredi non fece nulla, limitandosi a restare dov'era. Non capì se il soldatucolo l'avesse riconosciuto o meno, ma la sua apparizione ebbe comunque un effetto immediato.

Non appena lo vide, il giovane lasciò di scatto Bianca e poi farfugliò qualcosa, al che Ottaviano, per incutergli ancora più paura, invece di rispondere, fece un passo avanti.

“Non stavo facendo nulla di male, anche lei voleva...” tentò il giovane, con la voce acuta.

Il faentino restava muto, tanto minaccioso quanto immobile. Alla fine, capendo che le cose non si sarebbero aggiustate, la recluta tentò la fuga e, non trovando nessuno a trattenerlo, si dileguò.

“Avevo questo.” disse piano Bianca, tirando fuori, seppur non con la stessa destrezza e rapidità della madre, un pugnale da sotto le gonne: “Avrei saputo difendermi da sola. Nessuno vi ha chiesto aiuto.”

L'uomo guardò il pugnale, poi guardò lei e, troppo abbattuto anche per arrabbiarsi, sospirò: “Mi accontentavo di un grazie, ma è chiaro che per voi tigri è più importante l'orgoglio della riconoscenza.”

La Riario non ribatté. Non si sarebbe aspettata né quelle parole né quel tono da Manfredi. L'aveva colta del tutto impreparata a una tale mestizia.

“Siete uguali, tu e tua madre. Siete uguali...” soffiò e poi, scalciando l'aria in un gesto di frustrazione, lasciò l'alcova e si diresse verso il proprio alloggio.

La ragazza, ancora un po' scossa per quanto accaduto, tergiversò per un po', indecisa se ritirarsi o andare nelle cucine. Avrebbe voluto parlare con qualcuno, chiarirsi le idee, avere un confronto con un'amica, e per quello sapeva che tra la servitù c'erano le uniche persone con cui avrebbe potuto aprirsi su certi argomenti.

Era ancora indecisa, quando vide la porta di una delle due camere della madre – quella che usava per incontrare i suoi amanti – aprirsi. Nella penombra, osservò con attenzione e quando vide che a uscirne era solo la Contessa, provò ad avvicinarsi.

Si accorse subito dello stato di agitazione in cui versava anche la Tigre e in quel mentre le parole di Manfredi, 'siete uguali, tu e tua madre', le rimbombarono ancora nelle orecchie, ma questa volta le parvero meno assurde.

“Che ci fai con un pugnale in mano?” chiese Caterina, appena riconobbe la figlia.

La Riario non si era avveduta di rimettere l'arma al suo posto. Non sapendo come rispondere, non disse nulla.

“Io...” cominciò a dire la Sforza, perplessa, senza trovare un senso logico per quel particolare incontro: “Sono stanca. Mi sto ritirando.”

“Anche io.” fece eco la Riario.

“Stai bene?” chiese la madre, sentendo qualcosa di stonato nella sua voce.

“Sì, madre. Sono solo stanca, come voi.” rispose la figlia.

In quelle parole la Leonessa lesse qualcosa di molto più profondo e significativo di quanto, forse, la ragazza non volesse esprimere.

Trascinata da un moto d'affetto improvviso, si portò rapida fino a lei, e la strinse a sé, sussurrandole all'orecchio: “Ti voglio bene, Bianca. Ricordatelo, qualunque cosa mi sentirai dire o mi vedrai fare, qualunque cosa mi succeda, qualunque cosa ti diranno su di me. Ricordati che ti amo sopra ogni cosa e che tutto quello che farò e dirò lo farò e lo dirò per tenerti al sicuro.”

Quella dichiarazione, tanto accorata e improvvisa, risvegliò un vecchio fantasma nella memoria della Riario. Erano più o meno le stesse parole che, undici anni prima, sua madre aveva rivolto a lei e ai suoi fratelli, quando erano prigionieri degli Orsi.

“Che cosa accadrà, madre?” chiese la ragazza, mentre la donna scioglieva il suo abbraccio e le accarezzava lentamente la guancia.

Solo in quel momento la giovane si era accorta del labbro un po' gonfio della Tigre, dei capelli scompigliati e dell'abito stropicciato. Come se avesse passato una serata a fare a botte, piuttosto che a incontrarsi con il suo amante.

“Non ci pensare, Bianca. Per adesso non ci pensare. Ricordati solo che ti voglio bene, tutto il resto conta poco.” concluse la Contessa, riacquistando il suo solito tono un po' ruvido: “E metti via quel coltello, o finirai per farti male da sola.”

Dopo un ultimo buffetto alla figlia, la Leonessa tornò sui suoi passi, sparendo in camera, e alla Riario non restò che fare quello che le era stato detto. Rimise a posto il pugnale e poi raggiunse la sua camera.

Si svestì con metodo, si pettinò i capelli e poi si infilò sotto la coperta. Il caos che regnava nella sua mente era indomabile, ma quella notte c'era qualcosa che stava prevaricando tutto il resto. Più della sensazione di ebbra incertezza che l'aveva portata a cercare la compagnia di un uomo, salvo poi tirarsi indietro anche quella volta, più delle vivide immagini della madre assieme a Manfredi e più della particolare euforia data dal danzare tutta notte, sospinta dalla musica e dal vino, a dominarla in quei momenti era un ricordo. Uno solo. Le urla della folla che avevano accolto il corpo di suo padre Girolamo, quando i suoi assassini l'avevano lanciato giù dalla finestra della sala delle Ninfe.

Mancavano appena due settimane all'undicesimo anniversario della morte di suo padre e mai come quella notte Bianca lo aveva rivisto davanti a sé, come fosse ancora vivo. Si chiese, con un velo di terrore, se la confusione che a volte la coglieva non fosse una sua eredità.

Lei ricordava del padre i gesti affettuosi, la propensione ad abbracciarla, a stare con lei, a farla giocare. E ricordava le liti con la madre, il loro modo di continuare, senza sosta, a farsi la guerra, anche quando non alzavano la voce.

E ricordava i momenti peggiori, quando suo padre si chiudeva in una stanza, non uscendone per giorni, trasformandosi in una sorta di morto vivente.

Lei non voleva essere così. Non voleva trasformarsi in un mostro incapace di far fronte alla vita.

Manfredi le aveva detto che era uguale alla Tigre, credendo di muoverle un'accusa, ma se la scelta era tra assomigliare a sua madre o a suo padre, Bianca non aveva dubbi.

“Meglio essere un Tigre – sussurrò, affondando il viso nel cuscino, qualche lacrima di rabbia e paura che si mescolavano senza soluzione di continuità – che un fantasma...”

 
 
   
 
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