Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: EdemaRuh    12/01/2019    1 recensioni
Una soffitta, una videocassetta e noi, che non sapevamo farci gli affari nostri. Così è iniziata.
Un manicomio di notte, il cliché perfetto. Così è finita.
Genere: Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Troviamo un po' di tempo libero soltanto la domenica dopo.

Arriviamo davanti all'edificio incriminato poco prima del tramonto. Niente assomiglia a quello che abbiamo visto la prima volta che siamo venuti qui; le mura grigie hanno assunto un colore diverso per via delle ultime luci del giorno, i rampicanti su di esse, con le foglie già arrossate dall'autunno inoltrato, ora sembrano scie di sangue che sfidando la forza di gravità salgono lungo le pareti. Dalle finestre sporche di povere esce l'oscurità più totale. É già inquietante così, non voglio immaginare con cosa avremo a che fare tra qualche ora.

Ci avviciniamo alla solita finestra fermandoci esitanti, nessuno vuole davvero entrare. Per qualche strano motivo, però, qualcuno ci ha detto di farlo attraverso l’armadio in soffitta. Pensandoci bene sembra una via di mezzo tra le Cronache di Narnia e l’ennesimo cliché da film horror. Insomma, questa storia mi piace sempre meno e sono convinta che sia la stessa cosa anche per i miei compagni. Prima di fare un passo verso la finestra, facendo capire loro che almeno io ho intenzione di entrare, mi prometto mentalmente che dopo stasera, qualsiasi cosa scopriamo, lascerò perdere questa brutta faccenda per sempre. Non esiste che io torni qui o in quella maledetta soffitta e non esiste che io guardi un’altra videocassetta.
Stavolta sono più agile ed entro con meno difficoltà, ritrovandomi nel familiare atrio che ho già visto, ma che non immaginavo così tetro senza la luce del sole. L’aria abbandonata di questo posto, al buio, risalta ancora di più, donando a questa struttura altri superflui dettagli inquietanti, quali zone d’ombra completamente nere, impressione che ci sia qualcuno proprio alle tue spalle che ti guarda e tante altre belle cose. Non possiamo proprio tornare a casa? Sono fermamente convinta che siamo ancora in tempo.

Non ho nemmeno il coraggio di voltarmi verso la finestra per controllare se gli altri quattro hanno deciso di seguire il mio esempio, perché sono fermamente convinta che ci sia qualcosa che mi sta studiando e non ho nessuna intenzione di voltarle le spalle. Sarebbe estremamente stupido. Anche se forse, in effetti, è ancora più stupido essere entrata qua dentro per prima, da sola, giusto per dare un’inutile prova di quanto sono trasgressiva e coraggiosa. Magari gli altri adesso scappano e tornano alla macchina senza di me e io non potrò fare un bel niente perché c’è qualcosa nel buio e non posso voltargli le spalle. Oh, giusto, ora mi ricordo che c’è anche una finestra aperta dietro di me, sono esposta su tutti i fronti e maledizione dovevo aspettare che qualcuno entrasse prima di me.

Qualcosa mi sfiora la spalla. Infarto. Ovviamente è solo Riccardo, che non può farsi battere da una donna, anche se sono pronta a scommettere che ha paura anche lui in questo momento. Proprio come me, anche lui comincia a guardarsi in giro circospetto, sorpreso da tutta questa oscurità che ci circonda, forse anche lui si sente osservato. Per quanto mi riguarda, ora che so che non sarò la sola a morire nella triste eventualità che sia stato un serial killer a portarci fin qui, mi sento molto più sicura.
Un rumore alle nostre spalle e anche Alessio è dei nostri. Nessuno ha il coraggio di fiatare e nel silenzio assoluto sentiamo Luca che sussurra parole di conforto ad Erika per convincerla ad entrare. Ovviamente lei è la meno stupida del gruppo quindi ha ragionevolmente deciso di starne fuori. Per un attimo ho la brillante idea di propormi per restare qui con lei a farle compagnia mentre gli altri fanno il lavoro sporco, poi ricordo che comunque sia non posso dare le spalle al qualcosa che mi sta osservando.

Alla fine, anche i due rimasti fuori si decidono e si uniscono a noi. Per qualche interminabile minuto regna il silenzio più totale, sentiamo soltanto i nostri respiri. Il sole è ormai scomparso con tutta la sua luce, non ci è rimasto niente a proteggerci dalle ombre minacciose che incombono su di noi. All’improvviso realizzo per quale motivo mi sto sentendo osservata. È come se tutta la struttura, le mura, le finestre, ogni singola porta, avesse occhi per guardarmi, per aspettare un mio errore e poi colpirmi in qualche modo. Voglio credere che sia solo un’impressione per colpa dei troppi film horror che ho visto. D’altra parte, non si è mai sentito parlare di un manicomio con gli occhi.

«Allora, parliamoci chiaro. Prima cosa: non ci dividiamo, qualsiasi cosa succeda. Seconda cosa: se succede qualcosa per cui veniamo divisi, ci spaventiamo a morte o non voglio immaginare che altro, ci troviamo tutti qui. Terza cosa: niente stronzate. Di nessun tipo; non cercate di fare scherzoni o giuro su me stessa che vi faccio male. Molto male. Restiamo qui dentro il tempo necessario per vedere quello che c’è da vedere e poi leviamo le tende, meno infarti rischio meglio sto.»
Per fortuna sono tutti d’accordo.
C’è un tacito accordo che ci impone di evitare la stanza del paziente 507 quindi ci dirigiamo dalla parte opposta, pur sapendo che probabilmente non troveremo niente e che prima o poi dovremo affrontare anche la parte a sinistra.
I nostri passi rimbombano nel corridoio vuoto proprio come l’ultima volta che siamo stati qui, con la differenza che allora non mi ero nemmeno degnata di notare quanto rumore stessimo facendo mentre ora sì. Siamo qui per esplorare quindi ricominciamo il tour delle stanze alla ricerca di quello che potrebbe esserci sfuggito la prima volta e per un po’ va tutto bene così, finché non comincia il disastro.
 
 
Tre cose avevo detto. Restiamo uniti, se succede qualcosa ci troviamo all’ingresso e niente stronzate. Tre maledette cose dovevamo fare.
Invece no. Ovviamente no. Sarebbe stato troppo semplice uscirne vivi. Non so nemmeno come, non lo voglio sapere, Riccardo, Erika e Alessio sono spariti nel nulla mentre io e Luca eravamo concentrati su un suono che sembrava provenire dall’ala sinistra dell’edificio. Gira, rigira, chiama, cerca. Niente. Nessuna traccia di quei tre imbecilli. Regola numero uno, andata a puttane. Panico.
C’è venuta quindi la brillante idea di tornare all’ingresso nella speranza che almeno su questo punto avessero deciso di darmi ascolto. Non solo loro non ci sono ma qualcuno ha sbarrato la finestra dall’interno. Stavolta lo vediamo benissimo sia io che Luca e per quanto ci giriamo, aspettiamo, preghiamo, la finestra resta maledettamente sbagliata. Sono sbbastanza convinta che siamo gli unici ad essere qua dentro quindi grazie a qualcuno anche la seconda e la terza regola sono da buttare.
Un altro rumore dall’ala sinistra, quella che stiamo evitando come la peste.

«Che facciamo? Andiamo a vedere?» chiedo a Luca, sperando che mi supplichi di non farlo.
«Gli altri potrebbero essere lì.»
Certo, come potrebbero essere da qualsiasi altra parte quindi perché andare proprio lì? Quel rumore l’abbiamo già sentito quindi direi che non siamo stati noi. D’altra parte, restare nell’atrio a maledire la finestra sbarrata non è una buona idea; magari se ci spostiamo al nostro ritorno la troveremo normale, come è successo l’ultima volta. Alla finestra piace scherzare.
«E va bene, andiamo.»
Prima di fare qualsiasi cosa, però, mi avvicino alla sedia di legno che ho trovato anche l’altra volta. Strano, ricordavo che le mancasse una gamba, invece ora noto che tutte e quattro sono intatte.
«Dammi una mano.» ordino a Luca. Il ragazzo mi si avvicina per tenere la sedia mentre, con qualche fatica, riesco a staccarle una delle gambe. Certo, detta così l’azione sembra molto più cruenta di quanto non sia in realtà, ma è quello che faccio. È l’unica arma che ho trovato nei paraggi.
 
 
 
Io e Luca arriviamo alla stanza del paziente 507. La porta è aperta. La luce dentro è accesa. Il che non è possibile, non può esserci ancora corrente elettrica qui. Non voglio guardare dentro. Devo guardare dentro.
Il cadavere è sempre lì a terra nella stessa posizione in cui l’abbiamo lasciato. No. Il sangue è fresco. Eppure potrei giurare che è lo stesso cadavere. Non voglio avvicinarmi. Mi avvicino. È Alessio. Non è possibile, Alessio era vivo fino a poco fa, il cadavere era già qui la settimana scorsa. Il telefono è a terra, a pochi metri da lui. Lo raccolgo e lo infilo nel mio fedele zaino, una volta finita questa bruttissima avventura guarderò il video e capirò cosa sia successo. Sono sicura che ci sia un video che può spiegare tutto.
Esco di lì cercando conforto nello sguardo del mio unico compagno, che è sparito.
 
 
Ho corso per ore. Sono sicura di aver corso per ore. Non trovo l’ingresso. Devo tornare all’ingresso.
Improvvisamente sento qualcuno singhiozzare. O almeno credo. Qualcuno è ancora qui. Mi dirigo nella direzione del rumore, ritrovo Luca che sta abbracciando Erika.
«Che è successo?» chiedo con un filo di voce; mi stupisce il fatto che io riesca ancora a parlare.
«Luca, perché te ne sei andato? Perché non hai aspettato che uscissi dalla stanza per venire a cercarla?» ancora non risponde. Si limita a guardarmi, gli occhi pieni di lacrime e un’espressione stupefatta dipinta in volto, con qualche sfumatura di dolore.
«Non ero con te, te ne sei andata mentre salivamo le scale nell’ala destra. Ti abbiamo cercata per ore. Ci siamo divisi. E poi Erika è..»
No. Non lei. È un incubo oppure sto impazzendo.
Ci guardiamo un’ultima volta, confusi dalle nostre stesse parole, poi ricomincio a correre. Non mi importa essere sola, ora come ora, devo tornare all’ingresso.
 
 
Salgo le scale. So benissimo che salire le scale non mi porterà all’uscita ma io salgo le scale. Devo salire le scale.
Riccardo è sul pianerottolo, studia il paesaggio attraverso una finestra aperta, incurante dell’aria fredda. Ha qualcosa tra le mani, qualcosa che non voglio riconoscere. Evito di parlargli, tanto so che probabilmente nulla di quanto ho da dirgli avrebbe senso ai suoi occhi.
«Come mai non parli?» chiede lui non appena lo nota. Silenzio. Ancora silenzio.
«Va bene, lo ammetto. Sono stato io.»
«A fare cosa per la precisione?» non che io voglia sentire la risposta.
«Ad ucciderli. E a sbarrare la finestra dall’interno.»
Perché? Ecco, vorrei davvero riuscire a chiederglielo in questo momento ma finalmente le parole mi si bloccano in gola. Sto impazzendo, è definitivo.
«Change sides. Dovevo cambiare squadra. Sono sicuro che puoi capire cosa intendo.»
Veramente no, non lo capisco. Non voglio nemmeno capirlo, voglio solo uscire di qui.
«Vedi, ognuno di noi ha il suo prezzo da pagare per uscire di qui stasera. Gli altri non hanno voluto pagarlo. Tu sai qual è il tuo prezzo da pagare?»
No, non lo so e no, non voglio saperlo.
«Io ho capito quale sia il mio. Credo che questa spetti a voi, anche se nessuno vi obbligherà a guardarla, in caso voi usciate vivi di qui.» mi porge una videocassetta. So benissimo di cosa si tratta. La stringo tra le mani, rivolgendogli uno sguardo interrogativo sperando che mi dica almeno dove diavolo l’ha trovata. Non trovo nessuno a rispondere alle mie domande, tutto ciò che mi resta è la solita scritta, stavolta nera, sul lato della cassetta: change sides. Deve essere un incubo.
 
 
 
Change Sides. Devo cambiare lato. O squadra. O qualcosa, qualsiasi cosa.
Non so quale fosse il prezzo da pagare per gli altri, ma il mio dev’essere avere la videocassetta, perché finalmente ritrovo l’ingresso. Non c’è modo di uscire, quindi mi faccio coraggio e con la gamba della sedia che per qualche strano motivo ancora mi porto appresso rompo la prima vetrata del corridoio a destra. C’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo, ma senza curarmi di cosa stia succedendo ai miei amici, esco finalmente all’aria aperta.
Il freddo mi colpisce come uno schiaffo dritto in faccia. Improvvisamente incapace di reggermi sulle mie gambe mi inginocchio a terra, senza nemmeno avere la forza di allontanarmi da quel posto maledetto. E piango, prego di svegliarmi, piango ancora, ma non succede niente. Sono sempre lì, inginocchiata sull’erba secca davanti alle rovine di un manicomio, come una cretina. Non so nemmeno se ci sia ancora qualcuno a sentirmi piangere.
Poi all’improvviso, sento una voce familiare alle mie spalle.
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: EdemaRuh