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Autore: Adeia Di Elferas    22/03/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Non vedo perché dovrei.” disse freddo Lorenzo, appoggiando il calice di vino al tavolo e guardando appena la moglie.

“Perché Lucrezia è tua cugina. Una visita non è una cosa così gravosa, in fondo.” fece Semiramide, notando con la coda dell'occhio Pier Francesco che, con i suoi tredici anni e mezzo, era molto sensibile alla tensione che si respirava in famiglia: “Non mi sembra una cosa tanto grave, visto che ha partorito questa mattina... Che ti piaccia o no, è tua cugina e in questi casi il sangue conta più di tutto il resto.”

“Mia cugina...” fece il Medici, quasi sputando quelle parole: “La figlia del Magnifico..!” sbottò, dando al termine 'Magnifico' una cadenza del tutto dispregiativa, come se fosse una bestemmia.

“Lei non ha colpa, per quello che ti ha fatto suo padre, tanto meno la figlia che ha avuto.” gli fece notare l'Appiani.

“Una femmina...” borbottò Lorenzo, alzandosi dal tavolo, per sottrarsi a quella conversazione, che lo stava facendo arrabbiare già di primo mattino: “Non è stata nemmeno in grado di partorire un maschio...”

Semiramide lo guardò andare verso l'uscita della sala da pranzo, e non provò nemmeno a fermarlo, troppo avvilita da quel commento, gratuito e sgradevole, specie messo in bocca a un uomo che, quando erano nate le loro figlie, Laudomia e Ginevra, ne era stato tanto contento da scoppiare a piangere di gioia.

“Madre...” sussurrò Pierfrancesco, vedendo gli occhi della donna coprirsi da un velo umido.

“Lascia stare, ti prego...” soffiò lei, abbandonando a sua volta la tavola e lasciando il figlio da solo a finire di fare colazione.

 

“Sì, però, mia signora, io mi sento in dovere di dare ragione a messer Ridolfi.” fece Luffo Numai, passandosi nervosamente le mani sulle ginocchia: “Si deve almeno cercare di dare una spiegazione, al fiorentino, non potete pretendere che non se ne abbia, a essere trattato così.”

Il Consigliere, il Governatore della città, il castellano, Pirovano e pochi altri scelti, erano radunati nella Sala della Guerra, molti seduti, come Numai e altri in piedi, come Simone, che se ne stava accanto al muro, con le braccia incrociate e lo sguardo scuro di chi pensa che si stiano prendendo solo decisioni sbagliate.

A spiccare, tra i presenti, c'era anche Galeazzo, voluto da Caterina affinché potesse non solo osservare, ma, se necessario, provare anche a dire la sua.

“Prima di tutto, io non devo spiegare niente a nessuno. Firenze ci stava sottraendo denaro senza dircelo e adesso viene a dirmi che erano spese necessarie e che, comunque, mi salderanno solo se mai troveranno abbastanza denaro per coprire prima debito contratti con gente più importante di me.” fece la Sforza, senza tono d'accusa, ma fissando Luffo come se anche lui avesse qualche colpa, in quanto stava accadendo.

“Non si è espresso in questi termini...” fece notare Giovanni da Casale, che ricordava molto bene i termini magniloquenti e tutto sommato molto pacati scelti da Niccolò.

“Puoi chiamare una cosa in tanti modi, ma la sua natura resta sempre quella.” lo zittì la donna.

“Comunque sia – prese la parola Cesare Feo – a malincuore credo anche io che ci convenga di più provare a spiegare questa vostra richiesta di tempo in qualche modo.”

“Per esempio come?” chiese Galeazzo, curioso.

La Tigre non riprese il figlio, per quella domanda. Anche se l'orgoglio la stava pungolando, istigandola a non dar peso ai consigli – anche se molto sensati – dei suoi, trovava che fosse giusto seguire la via scelta dal ragazzino. Forse il suo era stato un quesito nato quasi per caso, ma denunciava una certa intelligenza e, poco da dire, una mente meno incline alle burrasche rispetto a quella di Caterina.

“Per esempio mandando qualcuno da lui a parlare di come il Moro stia facendo pressioni per avere Ottaviano.” disse piano il castellano, sollevando lentamente lo sguardo verso la sua signora, sperando che lo stesse ascoltando, ma davvero e non solo per far contento Galeazzo.

“E se venisse a sapere che il Moro non ha proposto un bel niente, invece? Non ha nemmeno risposto all'ultima lettera, in cui gli si chiedeva di mediare presso il Marchese di...” cominciò a dire Pirovano, il volto scuro e gli occhi un po' pesti a causa della notte insonne passata per colpa della Leonessa.

Proprio questa lo fermò poco prima che si sbagliasse a dire troppo e tagliò corto, dicendo: “Per quello non c'è problema. Possiamo mandare Baldraccani. Lui era a Milano fino a poco fa, potrà millantare un patto fatto tramite lui e nessuno potrà accusarlo di dire il falso.”

“Però Baldraccani andrà istruito a dovere.” fece Numai, che trovava la proposta della Tigre la migliore possibile: “Perché credo sia meglio mandarlo direttamente oggi, dal fiorentino...”

Caterina si morse l'interno della guancia. Le sembrava di giocare una partita a carte senza conoscere le regole del gioco. Era partita con un'idea ben precisa, poi aveva tentennato, poi Machiavelli le aveva parlato in un modo che lei non si era aspettata e così, senza che potesse far nulla per evitarlo, si era trovata impelagata in un intrico di sabbie mobili da cui non sapeva come uscire.

Dedicò uno sguardo rapido a Giovanni da Casale, rammaricandosi silenziosamente che non fosse Giovanni Medici, l'uomo al suo fianco in quel frangente. Il Popolano avrebbe saputo benissimo cosa consigliarle e, soprattutto, avrebbe trovato il modo di far pesare il suo cognome e piegare la Signoria a più miti consigli e a una maggiore disponibilità. Pirovano, invece, sembrava negato per le trattative e la diplomazia e le sarebbe tornato davvero utile solo quando si fosse arrivati alle armi.

Poi, con la medesima rapidità e discrezione, guardò Galeazzo e anche questa volta si trovò a pensare a quanto la sorte fosse stata avida, con lei. Se quel suo quintogenito avesse avuto anche solo l'età di Bianca, sarebbe stato tutto diverso. Era solo un ragazzino. Volenteroso e sveglio, ma non ancora abbastanza forgiato dall'esperienza per poterla davvero consigliare su argomenti tanto delicati.

“E sia, allora. Numai, fate venire subito qui Baldraccani.” concluse in fretta la donna, capendo che, tanto, una soluzione alternativa non la si sarebbe trovata.

Mentre Luffo si alzava, un po' a fatica, dalla sua sedia e, con solerzia andava alla porta, anche gli altri membri del Consiglio ristretto della Contessa se ne andarono alla spicciolata. Anche Galeazzo stava per raggiungere la porta, ma la madre gli fece cenno di restare e così lui, felice per quell'invito, tornò sui suoi passi.

Giovanni da Casale tergiversava, quasi fosse convinto che anche lui sarebbe stato bloccato dalla Tigre, ma, capendo che la donna non aveva alcuna intenzione di chiedergli di restare, andò verso l'uscio.

Prima di lasciarlo andare, comunque, la Sforza lo seguì, lo prese per un braccio e si sporse per parlargli all'orecchio, in modo tale che suo figlio non la sentisse: “D'ora in poi, collega il cervello alla bocca, prima di parlare.”

Il milanese la guardò stranito, senza capire. Era irritato e assonnato e non aveva la testa per cogliere troppi sottintesi.

Come soldato, era il suo unico reale punto debole, quello di aver bisogno di un discreto numero di ore di sonno per poi essere efficiente e quella notte Caterina non gli aveva praticamente lasciato chiudere occhio.

Prima l'aveva reclamato per sé, con arroganza, quasi volesse fargli capire che a comandare, tra loro, sarebbe sempre stata lei. L'aveva sfinito, lasciandolo senza forze, e poi, quando lui avrebbe tanto voluto godersi il riposo meritato, dopo appena un'oretta di sonno, la Leonessa si era svegliata di colpo, terrorizzata da un incubo così vivido da toglierle il fiato, e non aveva più trovato modo di riaddormentarsi.

Sveglia e decisa a schivare nuovi incubi, aveva cominciato a parlare, portandolo a discutere di nuovo della difesa di Forlì e pure di Imola, arrivando a parlare di come sperasse di poter richiamare presto Naldi dal fronte milanese per mandarlo alla rocca come sostituto di Gian Piero Landriani.

Pirovano aveva cercato di seguire i suoi monologhi, ma di fatto si era limitato ad annuire e fare qualche cenno di quando in quando, tanto per farle capire che stava ascoltando. L'unico risultato, però, era stato che non aveva capito quasi nulla e aveva perso una notte intera di sonno.

“Prima, quando stavi per dire del Marchese del Monferrato.” gli ricordò la Sforza, fredda: “Non ne devi parlare. Mano gente sa che abbiamo provato a scrivergli quella cosa, meglio è.”

Caterina si era innervosita e non poco, perché quel modo noncurante e quasi ingenuo di accennare a un fatto tanto delicato, le aveva ricordato l'incapacità diplomatica e politica di Giacomo. Così come quando il suo secondo marito era in vita, anche stavolta non era riuscita a digerire quella leggerezza.

“Come vuoi, Caterina.” soffiò lui, capendo finalmente che cosa avesse irritato tanto la sua amante e, con un cenno del capo a lei e una al Riario, annunciò: “Vado a riposare un paio d'ore. Finché resto in questo stato, non posso essere utile a nessuno.”

La donna lo lasciò andare e, prima che Galeazzo potesse anche solo pensare di farle qualche domanda scomoda, Antonio Baldraccani si profilò sulla porta, dichiarandosi a completa disposizione della sua signora.

 

Proprio mentre le campane del vicino Duomo stavano battendo le quattro del pomeriggio, Niccolò disse al suo ospite di farsi pure avanti.

Quando uno del suo seguito era andato a cercarlo in stanza per fargli sapere che il Segretario della Contessa lo voleva incontrare, Machiavelli era subito saltato in piedi e aveva cominciato a vestirsi febbrilmente, chiedendo: “Mi incontrerà a palazzo o alla rocca?”

La risposta dell'uomo della sua scorta, però, era stata per lui una sorpresa: “No, non c'è bisogno che vi spostiate voi, perché è qui.”

Il fiorentino, stranito, ci aveva messo qualche secondo, prima di riprendersi. Un Segretario di Stato che lo andava a incontrare in una locanda..! Era la cosa più assurda che si potesse immaginare, dopo il colloquio della sera prima, a ora tarda e senza alcun interlocutore a parte la stessa Contessa e il suo amante.

“Va bene, va bene...” aveva detto allora: “Chiedete all'oste se possiamo avere la saletta privata al piano di sotto.”

E così aveva accolto Baldraccani nella cameretta riservata di solito a feste private o incontri segreti per affari loschi. Quella situazione gli appariva grottesca, ma non poteva certo mettersi a sottilizzare con l'emissario della Sforza.

“Prego...” gli disse, indicandogli la sedia e allargando le labbra in un sorriso affettato.

Mentre il Segretario si sistemava, Niccolò ebbe modo di pensare che anche quell'uomo, rubizzo e dai modi un po' sgrezzi, era strano, così come tutto, lì a Forlì.

La città sembrava un campo militare a cielo aperto e sulla Torre del Pubblico spiccavano delle teste mozzate vecchie di qualche mese, se non di qualche anno. C'erano costruttori impegnati un po' ovunque, lungo le mura, come se si stessero intensificando i lavori di ristrutturazione e fortificazione della cinta, e Machiavelli aveva notato anche un cantiere abbastanza grosso proprio davanti alla rocca, e il profilo di una cittadella, non ancora ultimata, ma decisamente a buon punto.

In tutto quel fervore difensivo, gli pareva assurdo pensare che davvero la Tigre non avesse munizioni, né salnitro, né polvere da sparo, come avevano cercato di fargli credere un paio di giorni prima, mentre era a Castrocaro.

“Vi parlerò in modo chiaro, perché tra alleati si deve fare così – cominciò Baldraccani, tenendo una mano stretta a pugno sul ginocchio e l'altra stesa sul tavolino che li separava – e spero che non confondiate la schiettezza con mancanza di rispetto.”

“Sia mai.” fece subito Machiavelli, iniziando, però, a impensierirsi.

Quel tono gli piaceva poco, e la premessa ancora meno. Il Segretario di Stato della Tigre sembrava teso, ma il fiorentino non riusciva a capire se lo fosse per la delicatezza dei temi trattati o se, più facilmente, non fosse avvezzo a trattare con gente importante. Gli veniva quasi da ridere, a immaginarlo alla corte del Duca di Milano. Anche se, forse, quello che si diceva sul palazzo di Porta Giovia, con le le sue finestre chiuse da fogli di carta e i pollai affianco alle stanze abitate dalla famiglia, era vero. E quindi, forse, quella sottospecie di contadinotto si era trovato meglio del previsto, presso il Moro...

“Ecco, il Duca di Milano ha fatto avere cinque o sei giorni fa una lettera alla mia signora per chiederle cinquanta balestrieri a cavallo e cinquanta armigeri.” iniziò a dire Antonio: “E lei questa cosa l'ha anche scritta, alla vostra Signoria, ma senza avere risposta alcuna.”

Niccolò ascoltava in silenzio, curioso di capire dove avrebbe portato quel discorso.

Così il Segretario della Leonessa riprese: “Saputo ciò, il Duca le ha riscritto subito, per dirle che, visto che non aveva stretti patti ufficiali con Firenze, avrebbe fatto meglio ad accettare la condotta che le proponeva lui.”

Il fiorentino strinse un po' le labbra e, con un colpetto di tosse, fece un cenno a Baldraccani affinché andasse avanti.

“Il piovano di Cascina, messer Fortunati, poi, ha riferito alla mia signora che gli otto Deputati hanno posto due condizioni alla ricondotta del Conte Riario. La prima, riguardante la cifra è la medesima che avete riferito voi, ma la seconda riguarda qualcosa di molto più grosso...” il forlivese squadrò un istanti il viso spigoloso dell'ambasciatore e poi affondò il colpo: “Pare che i Deputati vogliano portare la mia signora a obbligare lo Stato e così messer Fortunati ha subito detto di no, conoscendo abbastanza bene la Contessa da anticipare la risposta che avrebbe comunque dato lei.”

“Mi meraviglio di quanto dite.” fece Machiavelli, capendo che a quel punto Baldraccani aspettava un suo commento: “Non mi è stato riferito questo vincolo, dalla Signoria. Ma vi prego, continuate.”

“La mia signora è molto in dubbio, perché non sa da che parte pendere...” fece il Segretario, con una studiata pausa, come se fosse indeciso se proseguire o meno con una considerazione che doveva apparire del tutto personale: “Insomma, aspetta una risposta, e anche veloce, dalla Signoria. Si sente tenuta in poco conto da Firenze, perché la Signoria sembra non essere disposta a darle altro, se non parole.”

“Vi ho già detto, come ho già detto a lei – si sentì in dovere di intervenire Niccolò – che la Signoria ha tutta l'intenzione di far seguire i fatti, alle parole.”

“Sì, ma capite anche voi...” fu il pronto contrattacco di Antonio: “Non saprebbe come scusarsi con Milano, se accettasse le vostre condizioni, che sono così poco onorevoli, specie se confrontate a quelle proposte dal Duca... Senza contare che verso il Duca, suo zio, la mia signora nutre una riconoscenza fondata sia sulla parentela stretta che li lega, sia sugli immensi e innumerevoli benefici ricevuti dal Ducato in questi anni...”

“Ebbene, riferirò quanto dite alla Signoria, anche se credo che l'obbligare lo stato a Firenze non sarebbe un gran problema, per la Contessa...” fece Machiavelli, infastidito dal tono retorico con cui Baldraccani si era messo a parlare.

“Ma quello non sarebbe un problema, come dite voi, a patto che la mia signora possa obbligare lo stato solo per scriptum e non de facto.” Antonio scandì bene quelle formule latine che la Contessa stessa gli aveva fatto ripetere almeno cento volte, prima di lasciarlo andare dal fiorentino.

A quel punto toccò a Machiavelli esporsi in quella che riteneva essere il suo vero talento. Con parole sceltissime e frasi dette in modo rapido, ma preciso, riassunse di fatto quel che il forlivese aveva detto, si disse comprensivo verso il senso di ambiguità provato dalla Tigre, nel vedersi contesa tra Milano e Firenze e concluse dicendo che accettare il Beneplacito alle condizioni da lui esposte non si sarebbe dimostrato per lei un vituperio – come sembrava convinta – ma un grandissimo e impagabile onore. Soggiunse poi che il Duca di Milano non avrebbe avuto nulla di che risentirsi, sapendo che il Conte Riario avrebbe ottenuto una condotta identica a quella dell'anno appena trascorso, e, soprattutto, in virtù della grande amicizia che legava Ludovico Sforza alla Signoria di Firenze.

“Capisco.” sussurrò Baldraccani, appena udibile, quando l'ambasciatore ebbe finalmente concluso il suo monologo: “Vi ringrazio per avermi dato udienza, ma vi posso già dire che, comunque sia, la mia signora non ha intenzione di risolversi tanto presto.”

“In tal caso, almeno per il momento, credo che non si abbia più nulla di dire.” decretò Machiavelli, alzandosi, con fare significativo, e chinando appena il capo in segno di saluto.

Antonio convenne tacitamente con lui e andò verso la porta, fermandosi appena prima di varcare l'uscio per voltarsi e chiedere: “Ah, mi stavo dimenticando...”

“Ditemi pure.” lo incoraggiò Niccolò, anche se con un tono abbastanza freddo.

“La mia signora mi ha chiesto di domandarvi a quanto ammonterebbe il risarcimento per il servizio offerto l'anno passato.” fece Baldraccani, con un sorriso tanto disinvolto da far sospettare a Machiavelli che fino a quel momento il forlivese avesse messo in piedi una mezza recita, mostrandosi tanto teso: “Se la Signoria sapesse rispondere presto a questa domanda, vi assicuro che la mia Signoria si mostrerebbe molto più ben disposta nei suoi confronti e che si affiderebbe a voi con maggior sicurezza e fiducia.”

“Riferirò quanto dite.” assicurò il fiorentino e, tirando un sospiro di sollievo, fece finalmente uscire dalla saletta Antonio, tornandosene in fretta nel suo alloggio, per scrivere una lettera alla Signoria, riferendo punto per punto ciò che lui e il Segretario si erano detti quel pomeriggio.

Più scriveva, ripensando alla Tigre e al loro pregresso incontro, oltre che a Baldraccani, più la sua irritazione per quella situazione paradossale cresceva. Sapeva che anche Lorenzo il Popolano avrebbe letto quella missiva, o, almeno, ne avrebbe conosciuto il contenuto.

Così, mosso da una punta di rabbia che gli pungolava l'animo, Niccolò non resistette alla tentazione di aggiungere, in coda al messaggio, un malizioso inciso, sperando che chi dovesse intendere, l'avrebbe fatto: 'Trovasi qui Messer Giovanni da Casale - scrisse, annuendo piano tra sé – per il Duca di Milano, le condizioni e qualità del quale, per essere stato il verno passato con le genti d'arme Ducali in Casentino, non mi affaticherò riferire; basti solo a V. S. che dappoi ci fu, che sono dua mesi, ha sempre governato ogni cosa.'.

Rilesse e, soddisfatto del tono volutamente poco chiaro che aveva usato, concluse con un vago e ritrito: 'Valeant dominationes vestrae'.

 

Caterina posò la lettera del figlio Ottaviano sulla scrivania e poi si passò una mano sul volto. Il Riario, in breve, la informava del fatto che i prigionieri erano stati tutti ascoltati e che la loro azione pareva collegata a una vendetta personale, guidata da un unico soggetto che era riuscito a comprarsi la collaborazione degli altri.

La Tigre era in camera da sola e stava aspettando che Baldraccani tornasse dal suo incontro con Machiavelli per chiedergli un dettagliato resoconto di quanto si fossero detti.

Giovanni da Casale era con i soldati, nel cortile, per spiegare loro alcune tecniche difensive che aveva appreso a Milano e che la Sforza si era fatta spiegare quella notte, con dovizia di particolari, prima che l'uomo, troppo assonnato, cominciasse a perdere colpi per via del sonno.

Era preoccupata, non tanto per quel che il suo primogenito le aveva scritto da Forlimpopoli, e nemmeno per i problemi connessi all'ambasceria di Firenze. A tormentarla, quel pomeriggio, erano le notizie giunte da Fortunati.

Secondo il piovano – che parlava più per sentito dire e per buon senso, però, che non perché ne avesse prove certe – Lorenzo Medici stava approntando tutto quanto per scatenare contro di lei una guerra legale che, potenzialmente, avrebbe potuto distruggerla.

Aveva preso come rappresentante legale un certo Aldrovandini, a detta anche di Fortunati, il più importante e abile avvocato di Firenze e quel fatto lasciava poco a che sperare. In gioco, questo era chiaro anche senza averne conferme, c'era la custodia di Giovannino e, contemporaneamente, l'eredità di Giovanni, che avrebbe seguito il piccolo.

Con lo stomaco chiuso all'idea di quello che l'aspettava, la donna prese un foglio e si preparò a scrivere una risposta per Ottaviano. Suo figlio era talmente inetto, pensava, da non essere nemmeno in grado di prendere una decisione così semplice come quella di punire dei soldati rivoltosi.

In poche righe, la donna decretò che venissero tagliate le mani al balestriere che aveva capitanato gli altri e che poi tutti, quindici, venti o quanti erano, venissero banditi a vita dalle sue terre.

Mentre siglava la lettera, la porta della stanza si aprì di colpo.

Convinta che fosse il castellano, per annunciarle il ritorno di Baldraccani, Caterina borbottò un paio di bestemmie per rimproverarlo di quei modi bruschi e poi aggiunse: “Arrivo subito... Dite a Baldraccani di aspettarmi nello studiolo.”

“Sono io.” la voce di Pirovano la fece voltare di scatto: “Ho finito, con i soldati e pensavo che potremmo passare un po' di tempo assieme, prima di cena...”

La Sforza lo guardò un momento. Era accaldato, con i capelli neri e corti scompigliati e gli occhi scuri illuminati da una scintilla di speranza. Malgrado tutto, era chiaro quanto la volesse. Anche se spesso lo trattava male, anche se gli aveva fatto capire in ogni modo che la sua richiesta di restare a Forlì fosse dettata solo da necessità contingenti e non da un sentimento profondo nei suoi confronti, Giovanni da Casale sembrava contento anche così.

“Io...” cominciò a dire la donna, tentata di assecondare quella proposta inattesa.

“Mia signora, Baldraccani è qui.” disse Cesare Feo, affacciandosi sulla porta, lasciata spalancata dal milanese: “L'ho portato nello studiolo e vi attende.”

“Grazie.” annuì la Leonessa, chiudendo il messaggio e porgendolo direttamente al castellano, mentre lo affiancava: “Fatelo partire presto. Per Forlimpopoli.”

Mentre Cesare annuiva e, lettera in mano, partiva per eseguire l'ordine, Pirovano allunò una mano verso l'amante e le disse: “Almeno stasera avrai tempo per me?”

“Voglio stare un po' con i miei figli. Con Giovannino, in particolare...” rispose vaga lei, ma poi, vedendolo un po' mortificato, soggiunse: “Ma dopo sarò libera. Sempre che tu non abbia troppo sonno.”

“Riposero nell'attesa, così potrai fare di me tutto quello che vuoi.” sorrise lui, sollevando un sopracciglio, tentato di baciarla, come avrebbe fatto con una moglie, con semplicità, a mo' di saluto.

Ma si trattenne, ancora non avvezzo a quel genere di familiarità. Per lui era tutto nuovo e non sapeva mai fino a che punto spingersi e dove fermarsi.

“Bravo.” convenne lei, uscendo in corridoio e soggiungendo, con una mezza risata.

Rimasto solo, Pirovano chiuse la porta, si lasciò cadere sul letto e, fissando il soffitto si chiese come avessero fatto, quelli che l'avevano preceduto.

“La pazienza di Giobbe, ci vuole.” borbottò tra sé e, con uno sbuffo, si girò, affondando il viso nel cuscino, cercando seriamente di dormire un po', prima che la Tigre tornasse a reclamarlo.

 
 
   
 
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