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Autore: Adeia Di Elferas    07/05/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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C'era ancora chiaro, benché fosse ormai sera. Semiramide era rimasta a San Lorenzo più del previsto e, non temendo di far tardi a cena – dato che sapeva che nessuno l'aspettava, nemmeno i suoi figli, che avevano di certo già mangiato – aveva anche fatto la strada dalla chiesa a casa con una grande lentezza.

Quello era un po' l'unico momento della giornata in cui si poteva respirare. Il sole scendeva all'orizzonte e qualche refolo d'aria dava l'impressione che la temperatura fosse un po' più moderata.

Forse era solo un'impressione, ma la donna aveva deciso di assaporarsi quel momento di solitudine e pace, prima di tornare al palazzo dei Medici. Quella casa, che era stata per lei una promessa di rinascita, si stava trasformando giorno dopo giorno in una prigione. Poteva uscire, poteva invitare dei conoscenti per trascorrere insieme un po' di tempo, ma non riusciva comunque a rompere le sbarre della gabbia mentale che l'aveva catturata nel vivere lì assieme a Lorenzo.

Era cominciato tutto con la morte di Averardo. O forse ancora prima. Forse l'inizio della fine era stato il nascere nella testa di Lorenzo dell'idea di prendersi Firenze, di strappare tutto agli eredi del Magnifico, di vendicarsi.

Semiramide, però, conosceva troppo bene il marito e sapeva che quella voglia di rivalsa aveva radici molto più antiche. Essere vittima della truffa del cugino di certo gli aveva dato lo slancio finale, ma il Medici covava un rancore inveterato fin da quando era bambino.

Nei primi tempi del loro matrimonio, l'Appiani se n'era accorta solo di rado, ma l'aveva capito. Lui non aveva mai accettato la morte della madre, tanto meno quella del padre. Dedicarsi anima e corpo al fine di riprendersi i propri soldi, con tanto di interessi, era stato solo un modo per incanalare la sua rabbia repressa.

Alla fine l'Appiani era arrivata all'ingresso del palazzo, senza perdere tempo, era andata verso la sua stanza, dopo aver dato ordine che le venisse servita lì la cena. Se fossero stati ancora svegli, avrebbe visto i suoi figli dopo.

Tuttavia, mentre raggiungeva la sua camera, sentì uno strano vociare della servitù, e tra i toni concitati dei domestici anche quello più basso e imperioso di Lorenzo.

Cercò di capire che stesse dicendo, ma era impossibile, vista la confusione che stavano facendo, così seguì il rumore e proprio quando arrivò all'origine di quella cacofonia, sentì distintamente il marito dire: “Non mi interessa se il tempo è poco. Vi organizzerete e basta. Che diamine! O che, adesso un ospite vi mette così tanta paura?”

Semiramide guardò i servi che, pur senza dir nulla, lasciavano trasparire dai loro sguardi un profondo scetticismo.

“Andate.” ordinò infine il Medici, alzando l'inidice.

Mentre i domestici si allontanavano – e la donna ne sentì un paio dire che per certo questo ospite solitario avrebbe avuto come minimo venti persone al seguito, quindi era legittimo essere un minimo in ansia all'idea di doverli accogliere tanto presto – Lorenzo abbassò lo sguardo verso la propria scrivania, pretendendo di ricontrollare delle carte.

Il suo studio era poco illuminato, in quel momento e il tramonto che finalmente era giunto anche su Firenze non aiutava a dissipare le ombre che infestavano il suo viso.

“Che vuoi?” chiese, rivolgendosi alla moglie.

“Sapere cos'è successo e chi arriverà in casa nostra.” rispose lei, senza scomporsi.

“Dove sei stata finora?” domandò lui di rimando, quasi che l'assenza di Semiramide fosse la motivazione della sua reticenza.

“In chiesa.” fece lei, senza perdere il controllo, ben sapendo che l'uomo faceva così solo ed esclusivamente per farla arrabbiare e quindi tacere.

Con uno sbuffo, capendo che l'Appiani non avrebbe fatto il suo gioco, il Medici spiegò in fretta e a mezza bocca: “A breve, anzi, magari perfino già stanotte, arriverà in città un portavoce di quella meretrice della Tigre di Forlì. Voglio che stia da noi. Prima di tutto, in vista del processo voglio far vedere che le mie intenzioni verso di lei sono quanto di più amichevole esista. E poi voglio carpire informazioni da questo ambasciatore, che per altro è un milanese. Pensa te, si dice tanto imparziale, tanto dalla parte di noi fiorentini, quasi estranea ai maneggi del Moro, che ha dato una barca di soldi a mio cugino Piero per cercare di fargli prendere il mio posto, e poi che fa? Manda qui un maledetto milanese come suo portavoce!”

Semiramide si accigliò e, cercando di mettere insieme tutte le informazioni che aveva al momento sulla Sforza, provò a chiedere: “Il milanese di cui parli è Giovanni da Casale?”

“Sì.” annuì lui, con astio: “Il suo amante. Capisci? Manda il suo amante qui, nella città dell'uomo che diceva di amare! Dell'uomo che, stando alla sua versione, le ha dato un figlio!”

“Non devi parlare con tanta rabbia di lei, te l'ho già detto...” fece l'Appiani, in un blando tentativo di arginare l'arringa del marito.

“Io parlo come mi pare e piace!” gridò di rimando lui, picchiando un pugno sul tavolo: “Se quell'illuso di Giovanni si è fatto incastrare da una donnaccia del genere, non è certo colpa mia!”

A quel punto Semiramide, dando voce a un pensiero che l'aveva accompagnata per buona parte del pomeriggio, sussurrò: “Io non lo capisco, tutto questo rancore. Non solo verso la Sforza. Quello non lo condivido, ma posso in parte scusarlo. È quello che provi verso tuo fratello che non riesco proprio a comprendere.”

Il Medici si era come paralizzato. La mano che aveva dato il pugno sul tavolo era ancora sulla superficie di legno, ma i suoi occhi tondi fissavano muti la moglie, increduli.

“Sostieni che fosse la persona più importante della tua vita, e poi...” continuò lei, credendo che il silenzio dell'uomo andasse interpretato come un permesso di proseguire.

“Ero solo un ragazzino.” disse piano Lorenzo, continuando a puntare le iridi castane contro quelle di lei, ma usando un tono molto diverso da quello di poco prima: “Anzi, ero ancora un bambino. Ma ho dovuto iniziare a fare l'adulto. L'ho dovuto fare per lui.”

Mentre la donna ascoltava, il marito lentamente aggirò la scrivania, fino ad arrivare a un palmo dal naso. Il suo viso era quasi irriconoscibile. Rispetto ad appena un paio d'anni prima, era diventato scarno, tetro, una brutta copia di quello pieno e rubizzo che lei aveva imparato ad apprezzare.

“Quando è morto nostro padre ero terrorizzato. Volevo solo starmene in un angolo, senza parlare con nessuno, a piangere. Volevo qualcuno che mi abbracciasse e mi consolasse e mi dicesse che sarebbe andato tutto bene. E invece dovevo essere forte per lui.” il Medici sembrava intenzionato a continuare il suo discorso e Semiramide, sperando che sfogarsi a quel modo l'avrebbe aiutato a rasserenarsi, restò al suo posto, prestandogli orecchio, per quanto la sua confessione l'addolorasse più di quanto potesse esprimere: “Lui era quello più piccolo, quello più delicato, il più sensibile, tra noi due.”

Lo sbuffò che uscì dalle labbra del fiorentino era quasi divertito, ma i suoi occhi imbronciati si erano fatti rossi. L'Appiani avrebbe voluto allungare una mano e accarezzarlo, ma temeva che un'iniziativa del genere l'avrebbe fatto di nuovo chiudere a riccio.

“Ma io avevo solo quattro anni più di lui. Un tredicenne come può essere forte e impassibile davanti a una cosa del genere? Non è vero che ero già adulto. Ero un ragazzino e basta.” di colpo, come se il racconto stesse arrivando al nocciolo più duro, la voce di Lorenzo si fece a sua volta più coriacea, quasi graffiante: “Ho perso mia madre, per colpa sua. Non avevo nemmeno cinque anni e già dovevo affrontare il mondo senza la donna che mi aveva dato alla luce. Non ho mai cercato di farne una colpa a Giovanni, ma di fatto, se lui non fosse mai esistito, io avrei avuto entrambi i miei genitori.”

La piega che stava prendendo il discorso piaceva sempre meno, a Semiramide. Prima che il marito dicesse qualcosa di troppo grave, avrebbe voluto farlo tacere. Forse Lorenzo lo capì e magari fu proprio per zittirla che le prese con forza le mani nelle sue, prima di ricominciare a parlare.

“L'ho sempre appoggiato. L'ho sempre aiutato. L'ho sempre tenuto con me, anche quando io e te ci siamo sposati.” disse il Popolano, storcendo un po' le labbra, come se quell'ultimo fatto fosse stato per lui uno tra i più pesanti da sopportare: “E lui come mi ha ripagato? Dilapidando i suoi soldi per compiacere una donnaccia che starebbe meglio in un bordello che in una rocca!”

L'alzarsi dei toni colse tanto alla sprovvista l'Appiani che la donna si trovò a cercare di ritrarre le mani, ma il marito gliene teneva saldamente, come per non farla scappare finché non avesse raschiato il fondo del barile.

“L'ha usato e ingannato e lui non è stato nemmeno abbastanza sveglio da capirlo.” concluse il Medici, tornando a un sussurro appena udibile.

“Lui l'amava.” bisbigliò la moglie, non riuscendo a sostenere il suo sguardo.

Fu Lorenzo, a quel punto, a lasciare di scatto le mani di Semiramide. Le voltò la schiena e fece un paio di respiri profondi. Pareva quasi volesse trattenersi dal fare qualche sproposito.

Desiderosa di appianare almeno in parte le loro divergenze, l''Appiani provò a pretendersi verso di lui, sfiorandogli la schiena, ma il marito si scostò.

“Perché fai così, con me?” chiese lei, mortificata: “Io ti voglio, Lorenzo. Rivoglio l'uomo che amavo. Anzi, che amo ancora, malgrado tutto. E invece sono settimane, anzi, mesi che non mi sfiori nemmeno...”

“Molte donne, a Firenze come nel resto d'Italia, al tuo posto sarebbero sollevate, se non addirittura felici, di non essere assillate dal proprio marito.” fece il Popolano, tenendole ancora le spalle, in un puerile tentativo di chiudere così la loro discussione.

“Io no.” sospirò Semiramide.

Il modo in cui la moglie aveva detto quelle due semplici parole, scaldarono per un momento le membra inerti del Medici. L'uomo, guardingo, si voltò verso di lei e, quando se la trovò tra le braccia, accettò il suo bacio, ricambiandolo all'inizio come avrebbe fatto tanti anni prima. Poi, però, la freddezza che gli si era avvinghiata all'anima tornò a pungolarlo e così allontanò la donna con decisione.

“Scusami – le disse, andando a sedersi alla scrivania – ma ho dei documenti della Signoria da leggere... Presto arriverà questo ambasciatore e per il bene di Firenze è giusto che io...”

“Soffrei meno – fece l'Appiani, interrompendolo con sdegno – a saperti tra le braccia di un'amante, piuttosto che con la testa imbrogliata da questo schifo.” e, in un moto di rabbia che sorprese lei per prima, afferrò il pacco di documenti che il marito aveva davanti a sé e li gettò in terra alla rinfusa.

Lorenzo, attonito, la guardò uscire e poi, alzandosi con lentezza e mettendosi a raccogliere una pagina dopo l'altra, avvertì un'angoscia così profonda che lo indusse a tornare subito a sedersi. Si morse l'unghia del pollice, completamente disinteressato, ormai, ai documenti che aveva sulla scrivania.

Chiuse un attimo gli occhi e si sentì morire dentro, perché ebbe la profonda consapevolezza di non essere in grado di essere diverso da quello che era. Avrebbe voluto restare tra le braccia di sua moglie, baciarla, amarla, passare con lei ore intere a parlare di nulla, come facevano appena sposati, e invece tutto quello che riusciva a fare era allontanarla.

Appoggiando la fronte al piano del tavolo, in un gesto di prostrazione, si chiese da dove venisse davvero tutto quel ghiaccio che sentiva di avere nel cuore e se ci fosse un modo per scioglierlo. Nel momento stesso in cui provò a rimettersi dritto, però, rivide l'appunto che si era segnato riguardo l'imminente arrivo di Giovanni da Casale e il ghiaccio, anche quella volta, ebbe il potere di mettere di nuovo a tacere il piccolo fuoco della sua anima, che il Medici avrebbe disperatamente voluto far tornare ad ardere.

 

Caterina stava finalmente ritornando alla rocca, dopo una riunione al palazzo dei Riario che aveva avuto il potere di prosciugarla.

Non erano stati tanto i toni accessi, né le decisioni conclusive – che, tutto sommato, le erano state molto più favorevoli del previsto – ma la consapevolezza che, se per quella volta l'aveva spuntata, in futuro forse sarebbe stato davvero troppo difficile portare dalla propria parte la maggioranza dei rappresentanti del popolo.

La peste era un argomento che toccava tutti, perché, per quanto una persona potesse essere abbastanza ricca da permettersi di lasciare Forlì anche per mesi, soggiornando nelle campagne più sperdute, lontano dal morbo, la malattia restava imprevedibile ed estremamente democratica. Di fatto nessuno poteva dirsi davvero al sicuro e quindi era realmente interesse di tutti far quel che si poteva per arginare il pericolo.

Ma se lo stesso Consiglio avesse dovuto riunirsi per decidere a breve su questioni diverse, come il resistere a un assedio o schierarsi in campo aperto contro re Luigi... Ebbene, il discorso sarebbe stato molto diverso, perché le guerre e la politica erano tutt'altro che una faccenda democratica e in quel caso il denaro sarebbe servito davvero solo a chi ne aveva in quantità e difficilmente a qualcuno sarebbe parso utile e vantaggioso servirsene per il bene dell'intera comunità.

La Sforza, comunque, cercava di non pensarci mentre raggiungeva Ravaldino. La sera era scesa abbastanza in fretta e il sole era rimasto sull'orizzonte per una manciata di secondi appena, sparendo in fretta dietro le colline e le montagne,

Mentre attraversava il ponte, salutava con un cenno le due guardie e si dirigeva con decisione verso la sala dei banchetti per mangiare qualcosa, la donna si ritrovò a pensare, quasi con un velo di divertimento, a come i notabili della città si fossero improvvisamente ricordati di essere ricchi, quando lei aveva reso noto che i soldi per far fronte a un'epidemia, semplicemente, non li aveva.

“Ma avete i vostri gioielli! Vendete quelli!” aveva sbottato uno dei maggiorenti, alzandosi dal suo scranno e arrivando addirittura ad additarla e a guardare gli altri, in cerca di consensi.

“I miei gioielli sono già destinati a un altro scopo.” aveva tagliato corto lei: “E se la peste non interessa a voi, allora non interessa nemmeno a me. In tutti questi anni, pur camminando tra i malati, pur toccando le loro piaghe e respirando i loro odori mefitici, non ho mai preso nulla. E dunque non crediate che a me interessi davvero, investire nella sicurezza di questa città.”

Quell'affermazione, che aveva ricordato a tutti un tratto ritenuto da certi quasi stregonesco della loro signora, aveva gettato la sala consiliare nel silenzio più totale.

Uno dopo l'altro, come mossi da una primordiale paura, cominciarono a prendere la parola, dicendosi, in effetti, in grado di collaborare, fornendo cifre anche cospicue.

A quel punto Caterina aveva solo dovuto far prendere nota al suo cancelliere di quanto ciascuno avrebbe versato, in modo che il documento facesse fede, pena il sequestro di ogni bene dell'eventuale Consigliere manchevole, e dichiarare conclusa la riunione.

A cena non incontrò nessuno dei suoi figli, nemmeno Ottaviano, che, tra tutti, era quello che faceva sempre più tardi la sera. La Tigre immaginava che con Giovannino ci fosse Bianca, a quell'ora.

Fu tentata di andare a vedere come stessero andando le cose, ma un insieme strano di emozioni la costrinse invece a restare al suo posto e versarsi un altro bicchiere di vino. Se fosse successo qualcosa di importante, l'avrebbero chiamata.

Anche se stare accanto al suo ultimogenito le dava l'illusione di servire a qualcosa, di fatto era più il dolore che provava nel vedersi inerte, che non il sollievo nel credersi utile.

Osservando con superficialità i soldati che si alternavano al desco, in gruppetti di al massimo tre o quattro uomini, la Contessa cominciò a lasciarsi trascinare via dal vino e dalla propria mente.

La tensione di quel periodo stava avendo su di lei un effetto più deleterio di quanto non avrebbe potuto credere. Anche se il suo medico l'aveva messa in guardia più volte, consigliandole di mangiare e dormire in modo regolare, evitandosi eccessi di qualsiasi tipo, la donna non era riuscita quasi mai a fare come le era stato detto.

Siccome la sala dei banchetti era ormai deserta da un po', la Leonessa diede fondo al calice mezzo vuoto che aveva ancora davanti e, cercando di sgranchirsi le gambe e la schiena, uscì dalla sala dei banchetti e iniziò ad aggirarsi per la rocca.

Non aveva voglia di andare a dormire, per quanto fosse stanca. Era preda di quella smania di restare accesa che l'aveva presa qualche volta anche in passato. Aveva paura di fare brutti sogni e, in ogni caso, non voleva trovarsi da sola nella camera che aveva condiviso con Giovanni Medici e, ultimamente, con Pirovano.

D'altro canto – e di questo un po' si vergognava, ma non poteva negare con sé stessa l'evidenza dei fatti – non aveva nemmeno voglia di stare al capezzale di Giovannino.

Così attraversò il cortile d'addestramento, illuminata da una pallida luna e accompagnata dal frinire delle cicale. Fece un rapido giro della sala delle armi, rimise a posto un paio di faretre che erano state dimenticate sul tavolo e poi tornò a girovagare.

La sua peregrinazione senza metà la portò prima ai camminamenti, dove scambiò due parole con il Capitano Rossetti, che era di guardia, e poi rientrò, perdendosi per almeno un'ora tra le cucine e i locali della servitù, salutando quelli che la vedevano e schivando quelli che non si erano accorti del suo passaggio.

Dopo aver vagato in lungo e in largo – recandosi perfino nel proprio laboratorio e poi al mastio – si trovò di nuovo nel cortile. A quel punto, mossa dalla voglia di avere qualcuno con cui ammazzare il tempo, si infilò nei baraccamenti dei soldati.

Molti dormivano già, ma un gruppetto stava giocando ai dadi. Senza dire nulla, la Sforza si mise dapprima a osservare e poi si unì alla partita.

“È da un po' che madonna Bianca non viene a tirare i dadi con noi...” disse a un certo punto il Capitano Mongardini, che era tra i giocatori che aveva accolto con maggior gioia l'arrivo della Contessa: “Spero non sia per qualcosa che le ha dato fastidio...”

Caterina, dopo aver fatto il suo lancio, ribatté: “Sicuramente no. È che in questo periodo, con mio figlio che non sta bene, ha poco tempo.”

L'uomo la guardò un momento, il volto grottesco che sembrava ancor più inquietante, alla luce delle torce, e poi borbottò: “Ebbene... Allora è un bene che voi, invece, il tempo l'abbiate trovato...”

Caterina conosceva abbastanza bene il Capitano da capire che quella non volesse in alcun modo essere una critica velata o un'accusa, tuttavia quella frase la fece ragionare un po'. In breve, perse la concentrazione necessaria per giocare, ma, pur lasciando il suo posto a un altro soldato, restò in zona, osservando i lanci degli altri e parlando un po' con chi le capitava sottomano.

Arrivata una certa ora, i giochi si chiusero e anche gli irriducibili si dissero pronti a ritirarsi per dormire.

La Tigre indugiò ancora, riuscendo a catturare l'attenzione particolare di un soldato che conosceva a mala pena. Ne sapeva il nome, ma era tra gli ultimi arrivati alla rocca e, tra l'ambasceria di Machiavelli e la malattia di Giovannino, non aveva ancora avuto molto modo di osservarlo mentre si addestrava.

Era giovane, di aspetto discreto, e alla Sforza piaceva il modo tranquillo in cui le sorrideva. Anche se ne era solo una pallidissima imitazione, le ricordava un po' quello del suo ultimo marito.

Si misero a chiacchierare di nulla, spostandosi in cortile per non disturbare gli altri e poi la donna, con tono casuale, senza preavviso, gli chiese: “Ti andrebbe di salire in camera mia?”

Il giovane, che stava discutendo del bilanciamento di una nuova spada che il maestro d'armi gli aveva provare quel giorno, tacque all'istante. La guardò, immobile, un sorriso confuso stampato in viso. Era una reazione che Caterina aveva già riscontrato in altri uomini, perciò non si impensierì più di tanto, almeno non finché il soldato non parlò.

“No, mia signora... Proprio non posso...” disse piano lui, con l'espressione di chi si vede costretto a rinunciare a qualcosa che invece vorrebbe tantissimo.

“E perché? Sei sposato, hai un'innamorata?” chiese la Contessa, capendo dallo sguardo di lui che di certo il motivo non poteva essere una mera mancanza di interesse.

“No... No...” scosse il capo lui, in difficoltà.

Poiché il giovane sembrava deciso a non vuotare il sacco, la Tigre si irritò e, per certi versi, si mise in allarme. Voleva sapere tutto, capire tutto. Non poteva permettersi che una recluta qualsiasi avesse dei segreti con lei. Già era difficile tenere tutto sotto il suo controllo quando aveva orecchie e occhi ovunque..!

“Ti avverto. Dimmi il motivo del tuo rifiuto, qualunque esso sia, o ti faccio mettere in cella. Posso farlo, e lo farò, se mi costringerai.” l'avvisò lei, puntandogli contro l'indice.

Il ragazzo tentennò ancora qualche istante, ma poi, il sorriso completamente svanito e gli occhi che si velavano di preoccupazione, decise di vuotare il sacco: “Ecco, messer Giovanni da Casale...”

Sentir nominare il suo amante, fece scattare in avanti la Leonessa, che, afferrando per il colletto del giubbetto il soldato, lo incalzò: “Messer Giovanni da Casale, cosa?!”

L'altro, sconcertato e spaventato per quella mossa inattesa, sgranò gli occhi e rispose, con voce pregna di paura: “Ha detto che chiunque sarebbe stato con voi mentre lui non c'è se la sarebbe dovuta vedere con lui al suo ritorno... Ci ha minacciati! Tutti quanti! Ha detto che voi siete sua e...”

La Contessa rilasciò con tanta forza e tanto all'improvviso il soldato, che egli cadde in terra, senza avere neppure la prontezza di parare il colpo con le mani.

“Devi dire a tutti i tuoi amici che non è Giovanni da Casale a comandare qui!” ringhiò Caterina, ergendosi sopra di lui che, intimidito, era rimasto al suolo, una mano sollevata, come a tentare di proteggersi in caso la donna volesse colpirlo: “Sono io che comando a casa mia! Nessun altro! In questa rocca non c'è nessun signore, ma solo una signora! Dillo a tutti e se qualcun altro dovesse prestar di nuovo ascolto a cose come questa, sappia che incorrerà nella mia ira!”

Il soldato, annuendo febbrilmente, ancora sconvolto dalla piega imponderabile presa da quella serata, si allontanò, incespicando e continuando a farfugliare scuse. Sparì nei baraccamenti e la Sforza confidò che facesse quanto gli era stato ordinato.

Quell'episodio l'aveva messa di pessimo umore. Aveva capito benissimo che Pirovano non aveva mai accettato la sua disinvoltura, nemmeno quando era andata a suo favore. Però non si era aspettata che si spingesse tanto oltre.

Per sbollire, decise di andare nelle stalle. Anche se fino a poco prima aveva valutato l'ipotesi di passare quel che restava della notte con un soldato, l'ultima schermaglia le aveva tolto l'appetito. O, almeno, glielo aveva ridimensionato.

La stalla era molto più scura dei baraccamenti e anche del cortile. Molti dei cavalli dormivano e la Leonessa andò subito a cercare il suo stallone. Era un animale magnifico, con un manto nero come la pece e muscoli guizzanti e poderosi. Aveva un carattere difficile, ma si era affezionato in modo incredibile alla sua padrona, tanto da non lasciarsi montare da nessun altro. Aveva per lei quasi un sesto senso, come se potesse capirla e percepirla, e, infatti, per quanto addormentato, quando si accorse di lei, si svegliò subito.

Cercò con il muso la sua mano e si lasciò accarezzare per un po'. Però era stanco e la donna non voleva privarlo del meritato riposo, così, quando la bestia dimostrò di voler rimettersi a dormire, la Contessa la lasciò fare.

“Ah, siete voi, mia signora...” uno degli stallieri era arrivato alle sue spalle senza che lei se ne avvedesse: “Sapete, stanotte ci sono solo io e avevo paura che fosse entrato qualcuno che non deve...”

La paglia che tappezzava il pavimento doveva aver attutito i suoi passi abbastanza da renderli impossibili da udire.

Siccome la Sforza non aveva risposto al goffo saluto del giovane, lo stalliere si mise a guardare nella stessa direzione in cui guardava lei, ovvero verso il cavallo che dormiva pacifico e tranquillo.

“Per voi ha un attaccamento impareggiabile.” commentò il ragazzo, indicando l'animale: “Vi assicuro che quando passate qualche giorno senza venire a vederlo, diventa irrequieto come un bambino capriccioso.”

Caterina non aveva voglia di far conversazione, ma non voleva nemmeno scaraventare senza motivo lo stalliere. Si prese un secondo per guardarlo meglio. Anche se c'era poca luce, scorse in un lui un viso armonioso, forse avvantaggiato nella bellezza anche dall'età. Non poteva aver passato i vent'anni. Era alto, con le spalle larghe, segno del suo lavoro di fatica, ma per il resto era abbastanza esile, molto meno atletico dei suoi coetanei che tiravano di spada.

“Sì, lo so che è un po' ingovernabile...” ammise, riferendosi anche lei allo stallone.

“Un castrone è più facile, da tenere a bada.” provò a suggerire il ragazzo, più nell'intento di non far morire il discorso, che non perché volesse dare un consiglio pratico.

“No, preferisco tenerlo così. Anche se è irrequieto, non voglio né che il suo sangue finisca con lui, né che debbano mettergli le mani addosso. Va bene così com'è.” fece segno di no lei, rifiutando sul nascere l'ipotesi.

Non sapendo come continuare, il giovane le diede ragione e poi si chiuse in un silenzio imbarazzato, senza, però, muoversi di un passo.

Trovandoselo così vicino, la Leonessa si mise a fare un ragionamento molto lineare e pensò che, solo perché un uomo l'aveva fatta arrabbiare, non voleva dire che per quella notte dovesse per forza rinunciare ad avere compagnia: “Hai una donna? Una moglie, una fidanzata..?” chiese, cogliendolo alla sprovvista.

“Sono sempre in questa stalla...” si schermì lui.

“Non sempre. Tutti voi avete delle giornate intere libere. Le concedo a tutti quelli che lavorano per me, proprio per darvi la possibilità di avere una vita.” lo rimbrottò la Contessa, sperando con tutta se stessa che lui non fosse l'ennesimo imbecille pronto a farla andare su tutte le furie: “Non siete miei schiavi.”

Capendo il suo passo falso, lo stalliere si morse le labbra e poi annuì: “Avete ragione. Ma comunque non l'ho, una donna.”

Avvantaggiandosi del buio, che copriva il suo viso che stava prendendo colore, Caterina decise di non frapporre altri indugi e dichiarò: “Non voglio passare questa notte da sola.”

“Se volete, io non ho nulla da fare... Posso parlarvi dei cavalli di tutta la scuderia e...” fece lui, non volendo illudersi, temendo di aver capito male.

“Hai capito cosa voglio.” lo frenò subito la Tigre, cominciando a perdere la pazienza.

Il ragazzo deglutì rumorosamente e poi disse: “Ho lì il mio pagliericcio...” e indicò verso un cumulo di fieno che era stato sistemato a mo' di letto: “Ma non so se per voi...”

La Contessa si era voltata verso il giaciglio improvvisato e, nel vederlo, pensò subito che se fosse stata con il suo Giacomo, o anche con Giovanni, le sarebbe bastato, anzi, le sarebbe andato benissimo.

Però, già si stava accontentando della preda che aveva trovato, non poteva fare altrettanto con la sistemazione.

“Meglio la mia tana.” disse solo e, prendendolo per una mano, lo trascinò via.

Lo stalliere avrebbe voluto dirsi preoccupato nel lasciare i cavalli da soli, ma in realtà non gliene importava proprio nulla.

Quando la donna lo portò nella stanza di cui tutti, alla rocca e non solo, chiacchieravano ormai da tempo, il giovane si lasciò spogliare, vergognandosi un po' dell'odore di stalla che si era portato addosso. Tuttavia, quando sentì le labbra e le mani della donna più desiderata di Forlì, o forse più desiderata dell'Italia intera, sul proprio corpo, non gliene importò più nulla del proprio tanto di cavallo e di biada.

“L'odore della tua pelle – gli sussurrò, anzi, la Tigre, portandolo verso il letto – mi ricorda tante cose...”

E così, mentre la Sforza si abbandonava a se stessa, dicendosi che non poteva controllare anche se stessa, che stava già facendo abbastanza cercando di controllare il resto del mondo, lo stalliere si sentì l'uomo più fortunato sulla faccia della terra, trovandosi tanto euforico da non voler nemmeno sapere quali fossero, tutte quelle cose che alla Contessa erano tornate alla mente grazie al sentore di stalla che aveva sulla pelle.

 
 
   
 
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