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Autore: Adeia Di Elferas    10/05/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Il sole era appena sorto all'orizzonte e Giovanni da Casale fu sollevato nel vedere che le porte di Firenze erano aperte e già abbastanza trafficate.

Si toccò il petto, sentendo la presenza rassicurante della lettera di presentazione scritta da Caterina e dei documenti che gli avrebbero permesso di presentarsi davanti alla Signoria a portare le ragioni della Tigre.

“Avanti.” disse piano ai suoi uomini di scorta e, dando un colpetto ai fianchi del cavallo con i tacchi, accelerò appena l'andatura.

Erano stati molto più lenti del previsto, ma non per colpa loro. Il caldo torrido aveva rallentato le loro cavalcature e la prudenza aveva rallentato loro. Ogni volta che vedevano per la via un viso sinistro o una combriccola di uomini dall'aspetto difficile da decifrare, si erano fermati, avevano aspettato e discusso. La memoria di quanto capitato a Ottaviano Manfredi era troppo fresca, per essere tranquilli.

Anche se Caterina aveva chiesto loro di essere veloci, non avevano potuto governare in modo abbastanza ferreo le loro paure, tanto meno la sete e la stanchezza dei cavalli.

Malgrado tutte le interruzioni, comunque, erano arrivati a Firenze sani e salvi e, quando giunsero a varcare le porte e vennero controllati i loro documenti, Pirovano si sentì autorizzato a tirare un sospiro di sollievo.

Con lo sguardo di tanti curiosi puntato addosso, il milanese e i soldati – debitamente disarmati per l'ingresso in città – che lo seguivano attraversarono qualche strada senza sapere dove recarsi di preciso.

“Volete andare subito alla Signoria?” chiese uno degli uomini della scorta.

“No, no... Prima cerchiamo una sistemazione e poi devo fare una cosa. Siamo appena arrivati, per gli affari c'è tempo.” rispose Giovanni, dando poi voce a un passante, chiedendogli dove potessero trovare una locanda che potesse dare alloggio a tutti loro.

Non erano in tanti, ma dovettero comunque dividersi. Pirovano preferì per sé un'osteria con poche camere, non troppo lontana dal palazzo della Signoria, o almeno così aveva giurato il proprietario, e lasciò che i suoi si trovassero da dormire in un paio di locande vicine.

Sistemò con attenzione i suoi pochi bagagli, bevve un po' dell'acqua che aveva chiesto di farsi portare, si cambiò il camicione, e poi, avendo cura sempre di portarsi appresso i suoi preziosissimi documenti, uscì.

“La strada per San Lorenzo?” chiese al locandiere, appena lo vide.

L'uomo gli spiegò in poche parole come arrivare a quella chiesa e poi scherzò: “Ma se volete andare a Messa è un po' tardi per la prima e un po' presto per la seconda!”

Giovanni da Casale, che sentiva ancora del tutto estraneo l'accento del posto, non trovò la cosa divertente. Anzi, per certi versi l'ilarità del suo interlocutore, lo incupì ancora di più.

“Almeno dovessi andare a Messa.” commentò, a denti stretti e poi, con un saluto silenzioso, uscì per strada, diretto a San Lorenzo.

Mentre percorreva la via assolata, il milanese si trovò assorto nell'osservare gli uomini e le donne che incrociavano il suo cammino. Fece qualche doverosa differenza con la sua Milano per quanto riguardava la diversa moda nel vestire e di atteggiarsi, ma poi si trovò a ragionare su Forlì, e a quel punto il confronto fu ancora più spietato.

Si rese di essersi distratto troppo e di aver sbagliato strada quando sentì due mercanti discutere tra loro e, parlando di palazzo Medici, indicare un punto alle sue spalle. L'oste era stato chiaro: doveva girare a sinistra prima di imbattersi in quell'edificio.

Stringendo i denti e chiedendosi chi glielo stesse facendo fare, Pirovano voltò i tacchi e tentò di prestare maggior attenzione a dove stesse andando.

Se non avesse ottemperato a quella richiesta della Tigre, pensava, nessuno l'avrebbe saputo. Eppure la sua indole lo portava a onorare l'impegno preso.

Ricordava ancora il momento preciso in cui aveva accettato. Mentre era stretto alla sua amante, l'ultima notte che aveva passato a Ravaldino, dopo che lei aveva finito di elencargli per l'ennesima volta tutto quello che avrebbe dovuto e non dovuto dire e fare una volta giunto a Firenze, la Sforza aveva fatto un respiro un po' più fondo degli altri e si era aggrappata a lui con più forza.

“C'è un'altra cosa che devi fare per me.” gli aveva detto, con un filo di voce.

Aspettandosi qualche missione complicata o pericolosa, dato il tono, Giovanni aveva gonfiato un po' il petto e aveva subito detto: “Tutto quello che vuoi.”

“Devi cercare la tomba di Giovanni Medici, in San Lorenzo – aveva detto lei – e devi dire una preghiera per lui, da parte mia.”

“Io sono il tuo amante.” le aveva fatto presente il milanese, sconcertato: “Sono nel tuo letto tutte le notti... Come puoi mandarmi a pregare sulla tomba di tuo marito?”

“Se non vuoi farlo – si era risentita lei, scostandosi un po' – basta dirlo.”

“Non è che non voglio, è che non credo che lui sarebbe contento.” aveva provato a riparare Pirovano.

“Giovanni capirebbe. Lui avrebbe capito tutto.” aveva detto lei, senza aggiungere più nulla.

A quel punto l'uomo aveva rinunciato a cercare un significato a quelle parole sibilline e aveva solo annuito: “E va bene, lo farò.”

Riconobbe il palazzo dei Medici, grazie alla descrizione fattagli dal locandiere e quella volta girò al momento giusto. Quando si trovò dinnanzi la facciata di San Lorenzo ebbe un momento di esitazione, ma poi, pensando che prima avesse portato a termine quell'insolita missione, prima si sarebbe sentito libero, avanzò deciso verso il portale.

A parte un paio di chierici, la chiesa era deserta. Uno dei preti si voltò a guardarlo, squadrandolo, probabilmente per capire se fosse o meno di Firenze. Poi, disinteressandosi a lui, tornò a guardare verso l'altare con le mani giunte.

Il milanese, allora, si mise a cercare la tomba del Medici e, fortunatamente, la trovò abbastanza in fretta. Fu certo di essere davanti alla lapide giusta per via delle date, ma poi avrebbe capito di non aver sbagliato anche perché era visibilmente la più nuova.

Guardò un momento il nome inciso davanti a sé e poi chinò il capo e disse frettolosamente un pater noster, senza troppa convinzione. Tuttavia, quando stava già per andarsene, ci fu qualcosa che lo indusse a restare. Forse l'odore dell'incenso, forse la quiete di quella chiesa quasi deserta a quell'ora del mattino, quale che fosse la vera ragione, Pirovano fu portato a cercare un momento di sincero raccoglimento.

Fissando la tomba, dopo aver ragionato sull'età del fiorentino – e chiedendosi angosciosamente se la guerra che era alle porta avrebbe portato lui stesso a morire ancor più giovane del povero Popolano – Giovanni da Casale fece un sospiro. Gli era tornata alla mente un'immagine ben precisa: quella che corpo di Manfredi, inerme davanti a lui.

'Sono al tuo posto, adesso – pensò, posando con delicatezza una mano sulla pietra tombale – solo perché sei morto tu. E poi perché è morto Manfredi. E prima di tutti voi il Feo. E dopo di me, lo so, se lei mi sopravvive, ce ne saranno altri.'

Con un sospiro pesante e l'umore decisamente peggiorato, nel valutare quella deprimente prospettiva, Pirovano si fece il segno della croce, piegò appena le ginocchia e raggiunse l'uscita a passo spedito.

 

Lasciatasi alle spalle il corpo inerme di Ludovico Marcobelli, Caterina si era messa a correre. Si rendeva conto che la minaccia da cui cercava di scappare non poteva essere sconfitta con la fuga, ma non sapeva che altro fare.

All'improvviso il corridoio scuro che stava percorrendo si fece sempre più stretto, sempre meno illuminato e, quando dovette svoltare forzatamente per non andare a sbattere contro il muro, si trovò a impattare contro un uomo.

Lo riconobbe subito. Era Girolamo. E non assomigliava all'uomo sfatto e confuso che aveva conosciuto nei suoi ultimi anni di vita. Era ancora il Girolamo giovane, sulla trentina, lo stesso Girolamo al quale l'avevano venduta quando aveva nove anni.

Cercò di sfuggirgli, ma lui era più forte, più grande, meno spaventato. L'aveva presa per i polsi e la Sforza si scoprì di nuovo solo una bambina, incapace, impossibilitata a resistergli, figurarsi a sopraffarlo.

Mentre l'uomo la trascinava via, verso il buio, la Tigre si svegliò di colpo, il fiato corto, la pelle tutta sudata.

Si accorse subito che c'era già il sole e che non poteva essere essere presto. Mentre ritornava a respirare normalmente, i suoi occhi si posarono sul ragazzo che ancora dormiva accanto a lei.

Avrebbe dovuto mandarlo via subito. Non voleva che qualcuno li trovasse lì assieme. Si sentiva in colpa. Era stato qualcosa di diverso da solito. Forse, pensava, si sentiva più legata a Giovanni da Casale di quanto avesse voluto ammettere.

Caterina voleva svegliare il suo amante occasionale, e dirgli di andarsene all'istante, prima che qualcuno arrivasse a cercare lei. Però, mentre allungava una mano per dargli uno scrollone, cedette alla tentazione di prendersi un minuto per guardarlo meglio.

La notte prima, tra la luce malferma delle torce e il buio della stalla, aveva colto molto poco di lui.

Aveva un bel viso, particolare. Adesso che dormiva, abbandonato tra le lenzuola in disordine, sembrava davvero giovane. Un po' come il suo Giacomo, quando l'aveva avuto nella sua camera per la prima volta.

Anche il sentore di stalla che era rimasto nell'aria le ricordava un po' i primi tempi in cui si incontrava di nascosto con il Feo, quando ancora lui non vestiva come un principe, né si profumava come un cortigiano.

Irritata nel ricordare quella transizione, così infida e mutevole, che si era accompagnata a un cambiamento drastico non solo della cura che giovane aveva del proprio corpo, ma anche e soprattutto del suo carattere e dei suoi atteggiamenti verso di lei, la Tigre perse la pazienza.

“Svegliati!” esclamò, scuotendo il braccio dello stalliere: “Muoviti. Abbiamo dormito troppo. Devi uscire di qui prima che arrivi qualcuno.”

Il ragazzo, risvegliandosi in modo brusco, saltò a sedere sul letto. Come se faticasse a capire dove fosse, si guardò in giro per un po', continuando a tornare con lo sguardo sulla Contessa, che stava nuda accanto a lui.

Quando finalmente ricordò e realizzò cosa gli era successo, annuì subito e promise: “Sì, mia signora, perdonatemi, non volevo mettervi in difficoltà... Me ne vado subito...”

Mentre lo stalliere si alzava, inciampando in un cuscino che era finito in terra, anche la Leonessa lasciò il giaciglio e si infilò la vestaglia. Non aveva ancora voglia di vestirsi e, comunque, voleva cambiarsi d'abito, quindi avrebbe dovuto andare nella sua stanza.

La notte prima era arrivata nella sua tana con il vestito messo per il Consiglio Cittadino, una delle poche vesti discretamente in ordine che le restavano. Per quel giorno, invece, non avendo in programma nulla di importante, preferiva usare il suo solito abito da lavoro.

Il giovane si stava ancora infilando le brache, rosso in viso e tanto in imbarazzo da non riuscire più a sollevare lo sguardo verso di lei. Era un timido, Caterina l'aveva capito subito, tuttavia anche lui, come gli altri, davanti alla possibilità di passare con lei qualche ora, aveva trovato il coraggio di avvicinarsi.

A volte si chiedeva se, a lungo andare, quella sua inclinazione non le avrebbe portato qualche guaio serio. Manfredi l'aveva messa in guardia sulla possibilità che, prima o poi, uno dei suoi amanti passeggeri tirasse fuori un pugnale, mentre lei dormiva, e la sgozzasse, per conto di Venezia, Firenze, o chissà chi altri.

Malgrado ciò, e malgrado la fine tragica del faentino, la Sforza aveva semplicemente deciso che non aveva sufficiente autocontrollo per prestare attenzione anche a quello. Finché si sceglieva uomini che militavano o lavoravano per lei, si arrogava il diritto di sentirsi moderatamente al sicuro.

Il giovane si stava finalmente infilando il camicione, quando qualcuno bussò alla porta.

“Resta qui.” ordinò lei, alzando l'indice e avvicinandosi all'uscio: “Chi è?”

Sapeva che se l'avevano cercata nella sua tana, sapevano già che non era in camera e nemmeno in un'altra zona della rocca. In più, aveva dato ordine di disturbarla solo per cose della massima urgenza. Perciò tanto valeva palesarsi.

“Madre, sono io.” la voce di Galeazzo sorprese la Contessa.

Se suo figlio era da lei, poteva esserci un solo motivo, in quel momento. E il fatto che avesse avuto l'animo di cercarla nella sua tana, le lasciò temere che potesse essere capitato qualcosa di gravissimo a Giovannino.

“Cos'è successo?” chiese, aprendo subito la porta.

Il ragazzino deglutì, gli occhi verdi che indugiavano involontariamente su di lei – in vestaglia da camera – e poi sul giovane che, intento a finire di rivestirsi, stava alle sue spalle.

Con il collo che prendeva colore, il Riario abbassò lo sguardo e disse, con voce più piatta di quanto non avrebbe voluto: “Giovannino sta meglio. Non ha più febbre da un paio d'ore e adesso è cosciente e... Vi sta cercando.”

Caterina, che temeva di dover sentire parole molto diverse, ci mise qualche secondo per capire. Poi, lasciandosi andare a una risata liberatoria, si portò una mano sulle labbra, sentendosi sul punto di piangere di gioia.

Sapeva che una schiarita non significava per forza la fine delle tempeste, ma un miglioramento tanto netto, Giovannino non l'aveva avuto fin dal primo giorno di malattia.

“Andiamo.” disse subito, e poi, rivolgendosi allo stalliere, aggiunse: “E tu sbrigati a tornartene nella stalla. Non voglio che nessun altro ti trovi qui.”

Lasciandosi alle spalle la notte appena finita e il ragazzo con cui l'aveva passata, la Contessa corse, seguita da Galeazzo, fino alla camera del figlio più piccolo.

Lo trovò in effetti sveglio e abbastanza vigile. Appena la vide, il bambino aprì di più gli occhi e borbottò qualcosa, allungando una mano verso di lei.

Andando a sedersi subito sul letto accanto a lui, incurante del fatto che avesse ancora addosso solo la vestaglia da camera, la Sforza gli accarezzò la fronte, sentendola fresca e asciutta e gli sorrise.

Nella camera c'erano anche Argentina e Bianca e fu proprio quest'ultima a prendere la parola: “Sta meglio da un po', ma si è risvegliato solo ora, ecco perché ho mandato Galeazzo a cercarvi.”

“Hai fatto bene...” annuì piano la donna, continuando ad accarezzare il piccolo, che teneva le iridi picee puntate verso di lei: “Adesso vai pure a riposarti, se vuoi. Resto io con lui. Anche tu, Galeazzo.”

“Io sono appena arrivato. Se non vi disturbo, resto.” declinò lui, prendendo una sedia e sistemandosi non troppo lontano dalla madre e dal fratello, ma nemmeno vicino come era stato nelle lunghe ore di veglia.

Bianca, invece, dopo aver dato un rapido bacio al fratellino, salutò anche la madre e poi uscì, lasciando detto che l'avrebbero trovata in camera sua, se ci fosse stata qualche novità.

Per un bel po', la Tigre rimase a fissare il visino del figlio e lui, di rimando, fissava lei, come se il solo fatto di averla lì con lui bastasse a far passare tutto quanto, dal male alla paura. Poi, lentamente, stremato dalla febbre che finalmente l'aveva lasciato in pace per un po', si assopì.

Era un sonno tranquillo, molto diverso da quello funestato dai picchi febbrili o dagli intervalli tormentati tra un parossismo e l'altro. Anche se era evidentemente debole, pareva tornato il Giovannino di sempre.

“Anche tu puoi andare, Argentina...” sussurrò a quel punto la Leonessa, chiamando a sé la cameriera personale e soggiungendo, a voce più bassa, come sperando che Galeazzo non riuscisse a sentirla: “Quando hai tempo, prima di sera, cambia le lenzuola del letto della mia tana.”

Gli occhi della serva vennero attraversati per un solo istante da un lampo di perplessità, come se le paresse impossibile che, partito da così poco messer Giovanni da Casale, la sua padrona già avesse trovato qualcuno con cui rimpiazzarlo. Tuttavia il suo lavoro non prevedeva simili ragionamenti, né domande scomode e così annuì e basta.

Rimasta sola con Giovannino addormentato e Galeazzo, la Tigre si rese conto di dover dire qualcosa al Riario, riguardo a quello che aveva visto quando era andato a cercarla.

Non era tanto perché si vergognasse di quello che aveva fatto, né perché pensasse che suo figlio non sapesse già di quella sua debolezza. Ciò che la metteva in difficoltà era il modo in cui lui continuava a lanciarle occhiate di sguincio, difficili da interpretare.

Non voleva sentirsi messa sotto accusa anche da lui. Era il figlio con cui, forse, era riuscita a mantenere il rapporto migliore e non voleva ombre tra loro.

“Non giudicarmi, per quello che faccio con gli uomini.” sussurrò, usando appena un filo di voce per non rischiare di svegliare Giovannino.

“Non vi giudico.” disse subito lui, scuotendo il capo, ma mettendosi a fissarla, in un modo molto più imbarazzante di come aveva fatto fino a poco prima.

“Tra un po' forse anche tu capirai perché faccio così...” proseguì Caterina, stringendosi un po' nella vestaglia da camera, che, in quel momento, le sembrava troppo succinta e trasparente: “Tuo fratello Ottaviano...”

Nel sentir nominare il maggiore, il Riario si accigliò, ma quando la madre continuò il discorso, capì il perché di quell'accenno e si accigliò, distogliendo lo sguardo.

“Lui credo che alla tua età già sentisse il morso che sento io, e se anche non l'ha soddisfatto subito, be', l'ha comunque fatto dopo poco. E non è mai riuscito a gestirlo, nemmeno una volta.” ogni parola alla Leonessa costava una grande fatica.

Sapere che Ottaviano, fin da ragazzino, a quanto aveva saputo, si era sempre dimostrato violento e incapace di dominarsi, davanti a una donna che lo attraesse, era per lei una delle maggiori sconfitte della sua vita. E, malgrado ciò, non riusciva a far nulla per fermarlo o arginarlo. E questo la faceva stare anche peggio.

Galeazzo era diventato rosso come il fuoco. Evitava lo sguardo della madre, ma se lo sentiva puntato addosso. Non gli piaceva, parlare di certe cose, nemmeno con i suoi amici. Anche quando i soldati toccavano certi argomenti, lui preferiva dirigere altrove il discorso.

“Ragiona sempre, prima di fare certe cose.” disse infine la Contessa: “Tu hai una mente solida, e questo, credi a me, è un pregio non da poco. È un vantaggio molto raro, e devi saperlo sfruttare.”

Il ragazzino annuì, sperando che la questione potesse dirsi conclusa a quel modo. Non gli importava molto, in fondo, che sua madre avesse degli amanti. Era abbastanza sveglio da capire che era qualcosa di cui lei aveva bisogno e che, almeno per il momento, non aveva mai avuto conseguenze troppo gravi. Quindi lui non aveva nulla in contrario, se per lei andava bene. Solo, avrebbe preferito non vedere né sentire mai nulla a riguardo.

“Che ne dici di andare a chiamare il medico?” chiese dopo un po' Caterina, tentando di alleggerire l'atmosfera: “Voglio che veda il miglioramento di tuo fratello e ci dia un parere.”

Il Riario fece segno di sì con il capo e, preciso come un soldatino, andò subito alla porta per eseguire l'ordine che gli era stato impartito.

Avrebbe compiuto quattordici anni in dicembre, ma c'erano momenti in cui alla madre sembrava ancora un bambino e altri, invece, in cui si sentiva in dovere di considerarlo già un uomo. La verità, si disse la Leonessa, sospirando, stava ancora nel mezzo, ed era stato davvero un tiro mancino da parte del destino, far sì che in un momento tanto difficile, suo figlio si trovasse ad affrontare un'età altrettanto complicata.

 

“E da quando sarebbe arrivato?” chiese Lorenzo, furibondo, gli occhi tondi puntati sul suo uomo di fiducia.

Questi sollevò le spalle e rispose: “Dicono che sia arrivato stamattina, praticamente all'alba.”

“E io devo venire a saperlo per caso, adesso che sta già calando il buio?!” sbottò il Popolano, scuotendo con forza il capo e lasciando subito il suo studiolo per raggiungere l'ingresso.

Era così arrabbiato che non si diede nemmeno la pena di rispondere alla moglie che, vendendolo passare davanti a lei tanto rapidamente, gli aveva chiesto che fosse successo e dove stesse andando.

Uscì in strada così repentinamente che per poco non lo travolse un uomo a cavallo, ma il Medici non fece una piega. Si era a malapena accorto del rischio corso. Era concentrato unicamente su una cosa: andare da Giovanni da Casale e fargli sapere – in modo che lo sapesse anche la Sforza – che lui non era un uomo al quale farla sotto al naso a quel modo. Voleva che sapesse che quell'ingresso in città così in sordina era stato visto da lui come un'offesa personale. Voleva a tutti i costi sfruttare quella mancanza di rispetto a suo favore, avvantaggiandosene, quando si sarebbe arrivati alla resa dei conti.

Quando Pirovano sentì bussare alla porta della sua camera, alla locanda, trasecolò. Come primissima ipotesi, pensò di aver dimenticato qualcosa di sotto, mentre era a cena. Tuttavia, quando sentì la voce dell'oste chiamarlo, percepì nei suoi toni una tensione che non sarebbe stata consona a un'eventualità del genere.

“Ditemi.” fece il milanese, aprendo subito, ma poi si bloccò, vedendo una figura che non conosceva alle spalle del locandiere.

“Messer Lorenzo Medici vi cercava.” disse l'oste: “Mi perdonerete se l'ho fatto salire subito, ma...”

“Potete andare, adesso.” disse il Popolano, senza troppe cerimonie, aggirando quello che stava parlando ed entrando in stanza con tanta invadenza da scansare perfino Giovanni da Casale, che, troppo stupito per quella visita, era rimasto inerme e senza parole.

Lorenzo chiuse subito la porta e poi si guardò attorno. Notò subito i pochissimi bagagli del messo della Sforza e capì già da quello che il piano della Tigre prevedeva un soggiorno molto breve, per il suo amante.

“Credevo che al vostro arrivo sareste arrivato subito al mio palazzo. Da voi non usa, presentarsi prima agli amici?” chiese il Medici, voltandosi lentamente verso Pirovano e restando poi in attesa di una sua risposta.

Il milanese schiuse un paio di volte le labbra, incrociando le braccia sul petto. Si sentiva in disordine. Aveva già cenato e si stava preparando per andare a dormire. Era stanco e il giorno dopo voleva essere sveglio e pronto per qualsiasi cosa. Quell'arrivo inatteso lo aveva spiazzato quasi quanto l'avrebbe messo in difficoltà un agguato improvviso.

Tuttavia, giacché il Popolano non accennava a distogliere gli occhi tondi da lui, si ingegnò di rispondere: “Dato che non verrò ricevuto dalla Signoria prima di domani pomeriggio, intendevo passare a salutarvi domani mattina, senza importunarvi oggi, essendo oggi domenica. Mi pareva inopportuno.”

Lorenzo, per quanto credesse molto poco alle parole del suo interlocutore, non trovò obiezioni da fare. Era stato furbo, a parlargli in quel modo.

Siccome c'era abbastanza buio, il fiorentino cercò con lo sguardo qualche candela in più da accendere, ma, non trovandone, chiese: “Non credete anche voi che questa illuminazione sia troppo scarsa?”

“Questa è una locanda economica.” ribatté Giovanni, un po' secco, ma senza aria di polemica.

Il Medici, non trovando altri pretesti, rimase zitto qualche istante a osservarlo. Benché non fosse vestito in modo elegante, né fosse particolarmente curato, era evidente che quell'uomo avesse un aspetto migliore della maggior parte degli uomini. Era giovane, forte e dal viso di notevole bellezza.

Se una minuscola parte della sua anima aveva voluto credere fino alla fine che le storie sulla Tigre e il soldato prediletto del Moro fossero false, adesso che se lo trovava davanti, Lorenzo era certo che Pirovano fosse l'amante favorito della Sforza. Non poteva essere altrimenti.

“Perché mai alloggiate in una locanda economica? L'amicizia che lega la vostra signora alla mia famiglia è ormai nota.” disse a quel punto Lorenzo, spronato dall'odio cieco che sentiva ormai di provare anche per il bellimbusto che si trovava davanti: “Non vorrete farmi fare una figura barbina davanti all'intera Firenze. Cosa diranno, quando sapranno che lascio il messo di mia cognata a dormire in questa topaia, invece di accoglierlo a braccia aperte in casa mia?”

Giovanni vide nettamente le narici del Popolano dilatarsi, nel momento in cui aveva chiamato Caterina 'mia cognata'. La Contessa lo aveva messo in guardia in modo troppo chiaro perché il fiorentino lo attirasse in trappola.

Così, dissimulando la propria diffidenza, il milanese disse solo: “È opinione della mia signora che sia maggior maleducazione gravare, con la mia presenza in casa vostra, sulle vostre finanze. Sono un soldato, so adattarmi, e questo posto è tutt'altro che inospitale.”

Occhieggiando verso l'armatura e le armi di Pirovano, sistemate con cura in un angolo della camera, il Medici annuì, ma poi tornò all'attacco: “Sappiate, però, che nel sentirvi rifiutare la mia ospitalità, mi sento personalmente offeso.”

Il milanese stava studiando il viso un po' incavato di colui che gli stava davanti, e, parimenti, i suoi abiti pregiati, i suoi capelli castani ordinati e le sue guance perfettamente rasate. Bastava vederlo per sentire tintinnare i fiorini dorati che avevano fatto del suo cognome un sinonimo di ricchezza.

Senza volerlo, si chiese se per caso il fratello minore, il terzo marito di Caterina, gli somigliasse molto. Se non fisicamente – cosa che dubitava, visti i gusti della Leonessa – almeno nella sensazione di agiatezza e potere che dava a chi aveva a che fare con lui.

Siccome non avrebbe mai avuto l'audacia di chiederlo a nessuno, per lui quella domanda sarebbe sempre rimasta senza risposta.

“Io eseguo solo gli ordini della mia signora.” fece piano Giovanni, che mai come in quel momento avrebbe voluto poter mandare fuori l'inatteso ospite e restare da solo coi propri pensieri.

“Non è il Duca di Milano, il vostro signore? Non sapevo foste passato stabilmente agli stipendi della Contessa Sforza.” fece, con tono casuale, il Medici, quasi divertito.

Pirovano non seppe come controbattere, così restò in silenzio. Stava già per chiedere al fiorentino se ci fosse altro, nella speranza di toglierselo di torno in fretta, quando si ricordò della lettera scritta dalla Leonessa.

“Ho una cosa per voi, quasi dimenticavo...” soffiò, andando un momento al suo giubbetto appeso all'angolo del letto e tirandone fuori il messaggio: “Da parte della Contessa.”

Lorenzo si accigliò e allungò una mano per prendere il messaggio. Nel fare quel gesto, mise in mostra le dita tozze e a Giovanni da Casale tornarono subito alla mente quelle dell'ultimogenito della sua amante.

Non aveva mai osservato con troppa attenzione Giovannino, in tutta sincerità, i figli di Caterina non gli erano mai interessati molto, però quel dettaglio l'aveva notato subito, perché era strano vedere in un bambino tanto piccolo una caratteristica così spiccata.

Viste tutte le difficoltà che il Popolano stava facendo nell'accettare che il piccolo fosse davvero suo nipote, Pirovano trovò quasi divertente quella somiglianza tanto spiccata.

Il Medici spezzò il sigillo e cominciò subito a leggere, dando involontariamente la possibilità a Giovanni di esaudire la volontà della Sforza, ovvero controllare in prima persona le sue reazioni a quanto gli aveva scritto.

Lorenzo, più proseguiva, più prendeva colore. Era chiaro che le parole fintamente distese della cognata lo stesso facendo andare su tutte le furie.

Ebbe appena il fiato per borbottare tra sé: “Ah, e così vuole vedere i libri d'inventario...” e poi, facendosi livido in volto, ripiegò il foglio e domandò: “Il bambino sta davvero così male?”

L'altro annuì in silenzio, mentre il fiorentino sistemava con cura la lettera nella tasca interna del suo giubbetto.

“Immagino che la Tigre di Forlì vi abbia scelto come ambasciatore per la vostra loquacità.” si trovò a dire velenosamente il Medici, che avrebbe voluto riversare su Pirovano tutta la sua rabbia, ma che voleva a tutti i costi provare a fare buon viso a cattivo gioco: “Per quella e per le vostre doti...” lo squadrò per un lunghissimo istante, soffermandosi un paio di volte, mentre ispezionava il suo corpo da capo a piedi, e poi concluse: “Diplomatiche.”

Anche quella volta Giovanni non seppe come gestire la situazione. Forse avrebbe dovuto ribattere con qualche frecciatina dello stesso tenore, ma quella era un'abilità che non gli apparteneva. Era Caterina, quella brava a ferire con le parole, non lui.

“Passate una santa notte.” concluse il Popolano, andando alla porta: “E domani non scomodatevi a passare da casa mia. Ci vedremo direttamente al palazzo della Signoria.”

Appena il Medici ebbe lasciato la stanzetta del milanese, questi ebbe l'impressione di poter tornare a respirare normalmente dopo essere stato immerso per un'eternità in un mare di acqua gelida.

Appena si fu rinfrancato, si sedette alla scrivania, prese il necessario per scrivere e riassunse in breve quanto accaduto, premurandosi di spiegare per bene alla sua amante l'accenno fatto ai libri d'inventario e il tira e molla iniziale riguardante il suo voler alloggiare in una locanda.

Riappoggiando infine la penna, Giovanni si accorse di avere le mani scosse da un lievissimo tremito. Ormai ne era certo: gli procurava di gran lunga minor patimento aspettare l'inizio di una battaglia combattuta con spade e lance, piuttosto di una combattuta con le parole.

 

Jacopo, appena rientrò a casa, corse subito a cercare Lucrezia. Immaginava che fosse intenta ad accudire Maria e, infatti, la trovò assieme a una delle bambinaie proprio nella stanza della piccola.

“Hai fatto tardi...” disse la Medici, tenendo tra le braccia l'ultima nata di casa Salviati, che non aveva ancora nemmeno compiuto un mese.

“Dovevo passare da un paio di persone, sai, per delle carte...” si scusò lui: “E poi sono rimasto per sentire una cosa...”

Lucrezia aveva congedato silenziosamente la bambinaia e, mentre il marito le si avvicinava, si aprì in un sorriso. Lo baciò e, con delicatezza, gli mise in braccio Maria.

La piccola, che si stava per addormentare, guardò per un attimo il padre e poi, con una specie di sospiro tremulo, chiuse gli occhi e cominciò ad assopirsi.

“Quanto è piccola...” sussurrò l'uomo, tenendola saldamente, come avesse paura di farla cadere.

“Parli come se fosse la prima...” scherzò la Medici, andando a sedersi sul divanetto e facendo segno al Salviati di mettersi accanto a lei: “Che cosa dovevi sentire?”

“Dicono che sia arrivato in città il portavoce della Sforza di Forlì.” rivelò lui, cullando un po' la figlia che, ormai, dormiva profondamente: “E non indovinerai mai chi è.”

Proprio per non svegliare la piccola, Lucrezia parlò a voce bassa, ovattata: “Se non indovinerò mai, tanto vale che me lo dica tu, no?”

Jacopo sollevò un sopracciglio e, distogliendo finalmente lo sguardo da Maria per cercare gli occhi della moglie, disse: “Ha scelto Giovanni da Casale, quel milanese che dicono sia il suo nuovo amante.”

Lucrezia aprì la bocca e fece un'espressione a metà strada tra il sorpreso e l'ilare, per poi commentare, quasi ammirata: “Che donna sorprendente.”

Il Salviati, che avrebbe usato termini molto più severi, per descrivere la condotta della Tigre, non volendo andare contro l'opinione della Medici, annuì e fece eco: “Davvero sorprendente.”

Era evidente che la moglie avesse cominciato a impelagarsi in qualche ragionamento che, per il momento, non voleva condividere con lui, tuttavia, quando la vide sporgersi un po' verso la loro ultima figlia, l'uomo dimenticò subito la politica, la Signoria, Firenze e tutto il resto, per concentrarsi solo ed esclusivamente sulla propria famiglia.

“Anche questa ci è venuta benino, eh...” sussurrò lui, offrendo la piccola allo sguardo della madre, che, con gesti leggeri, la riprese tra le braccia e andò a posarla nella culla, per lasciarla dormire in pace.

“Ci è venuta bene, come tutti gli altri.” gli assicurò, rimettendo accanto a lui: “E vedrai che anche i prossimi ci verranno benissimo.”

Così, mentre la donna, puntellandosi sulla gamba di lui con una mano, si protendeva per tornare a baciarlo, Jacopo sorrise e pensò che non doveva esserci in Firenze un uomo che potesse ritenersi fortunato quanto lui.

“Se domani questo Giovanni da Casale parlerà alla Signoria – disse però Lucrezia, smettendo all'improvviso di baciarlo – voglio che quando torni a casa tu mi racconti parola per parola quello che ha detto. E poi voglio che scopra se lui sa cosa intende fare la Sforza per impedire a mio cugino di ottenere la custodia del suo ultimo figlio.”

L'uomo sospirò e poi, stringendola a sé, le assicurò, parlandole all'orecchio: “Farò tutto quello che vuoi, ma adesso basta parlare di queste cose.”

La Medici sorrise, e, tentata dalla vicinanza del marito, gli sussurrò: “Andiamo in camera?”

Jacopo, che doveva ancora cenare, si rese conto di non aver più alcuna fame, né tanto meno sete, però, mentre già seguiva fuori dalla stanza la moglie, le chiese: “Sei sicura? Non è passato troppo poco tempo..? Forse dovremmo...”

“Dopo tutti i figli che ho fatto nascere, so cosa posso e cosa non posso fare e quando.” tagliò corto Lucrezia: “Piuttosto, vai a cercare la bambinaia e dille di controllare Maria. Io ti aspetto in camera nostra...”

Il Salviati annuì e, andando in cerca della balia, si trovò quasi a correre, euforico come un ragazzino, felice come non mai di essersi trovato come moglie una donna come la figlia del Magnifico.

 
 
   
 
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