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Autore: Adeia Di Elferas    13/05/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giovanni da Casale aveva appena finito di esporre i punti chiave della richiesta della Tigre e i membri della Signoria erano ancora quasi tutti in silenzio. Il milanese li guardava uno per uno e non riusciva a capire cosa passasse nella mente di nessuno di loro.

Forse, si disse, con un velo di cupezza, l'unico il cui pensiero fosse palese era Lorenzo Medici. I suoi occhi tondi lo stavano fissando senza sosta fin da quando era arrivato e, più il discorso era andato avanti, più si erano fatti freddi.

In un mondo governato dal buon senso, un uomo come il Popolano avrebbe dovuto prendere la parola per primo e caldeggiare l'adesione alla proposta della Sforza, per proteggere la cognata e, ancor di più, il nipote. E invece Lorenzo pareva deciso a starsene zitto, anzi, quando un paio dei suoi si sporsero verso di lui per chiedergli qualcosa, lui semplicemente scosse il capo, le pupille sempre ben piantate su Pirovano, che stava in mezzo alla sala, e dopo appena due parole tacque di nuovo.

Giovanni si rendeva conto che le richieste di Caterina erano in buona parte inaccettabili. Però aveva anche capito che l'esagerare la domanda le avrebbe permesso di ottenere comunque una risposta discreta. Tanto per cominciare, Firenze non si sarebbe mai obbligata a lei, però, per venirle incontro, avrebbe almeno potuto prometterle la protezione in caso di invasione.

Quando il Gonfaloniere di Giustizia dichiarò sospesa la seduta e congedò il milanese, questi tirò quasi un sospiro di sollievo. Non era avvezzo a stare al centro dell'attenzione, salvo che nelle giostre o, al massimo, nelle rassegne. Potersi ritirare, gli permise di calmare il battito impazzito del proprio cuore.

Non gli era stato detto quando avrebbe ricevuto una risposta, ma gli era stato detto di lasciare il palazzo, almeno per il momento.

Così, asciugandosi il sudore dalla fronte, legato più all'agitazione che non alla fatica, andò verso l'uscita. Prima dell'inizio della riunione, Lorenzo gli aveva fatto sapere, tramite un suo fedelissimo, che lo aspettava il giorno seguente a palazzo, se non aveva nulla in contrario, per discutere meglio della posizione della Tigre nei confronti di Firenze.

Pirovano era stato vago, dicendo che prima voleva essere sicuro del buon esito della sua ambasceria. In realtà aveva già deciso di declinare, salvo diverso ordine da parte della sua amante.

Le aveva scritto la sera prima e contava di ricevere una sua lettera di risposta molto presto.

“Messer Giovanni da Casale.” la voce di Machiavelli risuonò stridula e sgradevolissima alle orecchie del milanese, quando la sentì alle sue spalle, proprio appena prima di uscire dal palazzo.

Si fermò, suo malgrado e, voltandosi lentamente, cercò di sorridere all'ex ambasciatore fiorentino.

“Ora capite che lavoro ingrato sia, fare da portavoce per i potenti.” ghignò Niccolò, parandoglisi davanti e guardandolo con aria quasi di scherno: “Mandando uno come voi, poi, la nostra cara Contessa Sforza lascia intendere davvero in che condizioni disastrose versi il suo Stato...”

“Se la pensate così, allora potete immaginare cos'ha pensato la Contessa nel vedere arrivare voi come ambasciatore di uno Stato come Firenze.” ribatté Giovanni, riscattando in quelle poche frasi tutta la tensione accumulata quella mattina: “La Signoria parlava di grandi difficoltà e di un periodo di ristrettezze, ma finché non vi abbiamo visto, non ci eravamo resi conto della reale gravità della situazione.”

Toccandosi poi la fronte, a mo' di saluto, Pirovano se ne andò ben prima che Machiavelli potesse formulare una risposta adeguata.

Il Segretario di Stato, rimasto senza parole, lo guardò mentre si allontava e, quando il suo amico, Biagio Bonaccorsi, che non aveva potuto presenziare alla riunione, lo raggiunse e gli chiese: “Ma chi era quello?” Niccolò sentì le viscere rigirarsi ancora di più nella pancia per la beffa ricevuta.

“Uno zotico, ecco che cos'è!” esclamò Niccolò, sbuffando e tornando verso le sale del potere a passo spedito, con Biagio alle calcagna: “Uno zotico, degno di quell'animale della Tigre.”

 

Con il benestare del medico, giacché Giovannino era già sfebbrato da oltre un giorno, Caterina aveva deciso di portarsi appresso per un po' il figlio più piccolo.

Non aveva intenzione di tenerlo lontano dal suo lettuccio per più di un'ora, ma di fatto il Medici pareva così felice di starle in braccio, che la donna si trovò a tenerlo con sé per quasi tutto il pomeriggio.

Era quasi sera quando incontrò, nello studiolo del castellano, il Capo dei Magistrati Tornielli che, su suo preciso ordine, doveva riferirle quanto deciso nella riunione tenuta quel giorno a palazzo Riario.

Avrebbe voluto presenziare anche lei, dato che si decideva come redistribuire la spesa per far fronte alla peste – che stava contando già qualche contagiato anche nelle campagne immediatamente prossime alla città – ma la ripresa del figlio l'aveva assorbita completamente.

Così aveva deciso di delegare a Tornielli e Ridolfi, contando anche che i due avevano a disposizione le sue precise indicazioni in merito a cosa ci fosse da fare a quante persone andassero assunte.

“E quindi – finì di spiegare Nicolò – li abbiamo ridivisi in piccoli quartieri, ciascuno fornito di sacerdoti per assistere l'anima dei malati, chirurghi, secondo vostra volontà, assistenti, provveditori, beccamorti, con l'ordine che si occupino tempestivamente di qualsiasi cadavere, e trasportatori per i più infetti, affinché li portino agli ospedali di fuori.”

“Avete già predisposto per la costruzione degli ospedali?” chiese Caterina, con Giovannino che stava per addormentarsi, stretto al suo collo.

“Sì. Come avete deciso voi, saranno capanne di legno e paglia pressata, abbastanza grandi da contenere almeno duecentocinquanta malati.” confermò Tornielli: “I primi dovrebbero essere pronti tra un paio di settimane al massimo.”

La Sforza annuì. Forse era eccessivo predisporre già ogni cosa a quel modo, ma aveva già superato altre epidemie di peste e ormai conosceva la violenza di quel morbo. Non voleva per nessun motivo vedere il proprio esercito distrutto da qualche bubbone. Ci aveva messo troppo tempo per addestrare i suoi soldati, ci aveva speso troppi soldi e ci aveva investito troppe speranze.

“E le coperture allora ci sono..?” domandò la Tigre, accomodandosi meglio sulla sedia, per permettere al figlio di stare a sua volta più comodo.

Giovannino stava molto meglio, non aveva più febbre, ma con il caldo feroce di quell'agosto, tenerlo in braccio si stava dimostrando una vera e propria sfida di resistenza, per lei. Caterina, però, era tenace e quindi sopportava di buon grado la sua presenza, per quanto la stesse facendo sudare il doppio del previsto.

“Ci sono. I vostri sudditi si sono prodigati degnamente per difendere la salute pubblica. Certi, a mio avviso, stanno donando tanto di quel denaro che sembra quasi abbiano paura di suscitare l'ira di qualche Dio vendicativo...” sorrise Tornielli, che aveva effettivamente trovato la solerzia di certi ricchi forlivesi quasi ridicola.

“E il Governatore Ridolfi non ha avuto nulla da dire, mentre si teneva la riunione?” s'informò la Sforza, rendendosi conto solo in quel momento che il Capo del magistrati non aveva citato Simone nemmeno una volta.

Nicolò prese tempo, sfruttando il fatto che il piccolo Medici si stava risvegliando. Salutò il bambino con una solerzia che non aveva mai avuto nemmeno una volta nei suoi confronti, ma poi, finito il momento, sentì le iridi verdi della Leonessa puntate addosso e così dovette dire la verità.

“Il Governatore non è venuto alla riunione.” ammise.

“Come mai?” la voce della Contessa si era fatta molto fredda.

Tornielli conosceva bene quel tono, e non gli piaceva. Non voleva essere lui la causa delle disgrazie del povero Ridolfi, anche se, in tutta onestà, era convinto che fosse lo stesso Simone ad essersi messo nei guai con il proprio atteggiamento. A volte quel fiorentino si comportava come se ancora non avesse capito chi fosse la donna che comandava su tutti loro.

“Ecco...” prese a dire Nicolò: “Abbiamo pensato che bastasse uno di noi, per prendere decisioni di questo tipo... E comunque il Governatore crede che sia più adatto io, per seguire le operazioni sul campo. Preferisce occuparsi della contabilità.”

“Non è quello che ho ordinato io, però.” ribatté la Tigre, mentre Giovannino, ormai del tutto sveglio e lucido, si era messo a fissare Tornielli con uno sguardo indecifrabile, che all'uomo ricordava in modo inquietante proprio quello della donna.

“Lo farò presente al Governatore.” provò a dire il Capo dei Magistrati.

“Se non metterà giudizio – decretò la Sforza, con un sospiro, alzandosi – sarà mia premura fargli capire dove e quanto sta sbagliano.”

Anche l'uomo lasciò la sua sedia e, con un breve inchino, prese congedo dicendo: “Voi sapete certo meglio di me come fare.”

Caterina attese di restare sola e poi, andandosi a mettere sulla poltrona che un tempo era stata uno dei rifugi dagli impegni preferiti del suo Giacomo, si mise a coccolare un po' Giovannino che, ancora assonnato, ma molto presente a se stesso, reclamava le sue attenzioni.

 

Gorlino Tombesi si tappò le orecchie, quando partì l'ennesima scarica di colpi di cannone. Attese qualche istante e, scoprendo ancora una volta che la torre Staimpace, esattamente come la rocca, era ancora in piedi, tornò a guardare fuori dalla finestra.

Paolo Vitelli, passate le mura di Pisa, si era trovato bloccato da un'inattesa resistenza dei nemici e Tombesi, in qualità di difensore della rocca Staimpace si sentiva moralmente obbligato a combattere fino alla morte, se fosse stato necessario, per rispedire i fiorentini a casa.

“Sono centocinquanta, vero?” chiese, additando i cannoni che, da lì, sembravano una fila di giocattoli.

“Sì.” confermò l'attendente, pallido in volto.

Gorlino, avvertendo nella sua voce ridotta a un filo il panico, si voltò verso di lui e, avvicinandosi, gli disse: “Non è il caso di farsi prendere dalla paura. I fiorentini sono tanti, ma noi siamo più motivati. E questa rocca non cadrà. Almeno finché io ne sarò a capo.”

“Ma i cannoni...” prese a dire l'altro, accigliandosi.

“Sono cannoni piccoli. Hanno diroccato le mura, ma la torre è più solida.” tagliò corto Tombesi, per poi proseguire: “Quanti uomini ci restano?”

Il soldato deglutì e poi ripeté i dati che aveva mandato a memoria quella mattina, quando aveva aiutato a censire le forze rimasta: “Duecentocinquanta cavalleggeri nostrani, cinquecento fanti forestieri, più o meno mille civili e poco più di duemila contadini. Sempre che nel frattempo non ne siano morti...”

Il conteggio, a fronte delle colonne fiorentine, che agli occhi di Gorlino parevano infinite, era deprimente. Soprattutto perché nei circa tremila non militari citati andavano contate anche donne e bambini.

“Cercate di armare i civili.” decise repentinamente Tombesi: “Tutti coloro che possono tenere in mano una spada, o anche solo una roncola, devono fare la loro parte. Approfittiamo del fatto che Vitelli è distratto da questa sua nuova passione per l'artiglieria. Rafforziamo le retrovie mentre lui si concentra su questa rocca. Quando la rocca cadrà...”

“Ma avevate detto che questa rocca non sarebbe mai caduta...” fece l'altro, con un mezzo singulto.

“Quando la rocca cadrà – riprese Gorlino – dobbiamo essere pronti a ritirarci in modo ordinato verso il cuore della città e per allora voglio avere le spalle coperte, fosse anche solo dai forconi di un branco di villici.”

L'attendente deglutì e poi, chinando il capo, disse: “Come comandate.”

“Se avremo fortuna – borbottò tra sé Tombesi, stringendo gli occhi al fastidioso rumore di una nuova sfilza di colpi di cannone – questi fiorentini si stancheranno di noi prima di capire quanti pochi siamo...”

 

“Sto andando da mio figlio...” disse Caterina, quando Cesare Feo la incrociò in corridoio, dicendole che la stava cercando: “Avevate bisogno di me?”

Era ancora molto presto, ma la Sforza aveva fretta di tornare da Giovannino. Adesso che stava meglio la cercava di continuo e non voleva che si svegliasse e non la trovasse. Anche se con lui probabilmente c'era Bianca, la Tigre era decisa a farsi vedere presente.

Quella notte, dopo aver messo a dormire il suo ultimogenito, la Contessa era andata in cerca di compagnia. Un po' il sollievo, per il miglioramento del bambino, e un po' la voglia di staccare la mente, l'aveva portata a inoltrarsi di nuovo nei baraccamenti dei soldati e, a differenza della volta precedente, non aveva incontrato nessuna difficoltà.

Evidentemente il soldato a cui aveva reso noto che le minacce di Pirovano non contavano nulla, in quella rocca, aveva davvero divulgato a dovere la notizia, e lei non poteva che sentirsene sollevata.

Era anche stata felice di vedere come Argentina avesse tenuto in ordine la sua tana, arrivando anche, l'aveva capito nel momento stesso in cui vi era entrata, a cambiare l'aria durante il pomeriggio.

Anche le lenzuola erano fresche di bucato e, complice un po' anche l'umore più leggero, quella notte la Sforza si era sentita molto meglio, senza ricordarsi nemmeno una volta del suo amante partito per Firenze.

Aveva trascorso una notte tutto sommato pacifica, prendendosi quello che voleva e poi ordinando all'uomo di turno di andarsene, perché voleva dormire da sola. Aveva preso sonno in fretta e, salvo un paio di bruschi risvegli, aveva tirato l'alba senza troppi problemi.

“In verità sì, vi cercavo, e speravo di trovarvi in giro...” ammise il castellano, porgendole due lettere: “Sono arrivate quasi contemporaneamente da Firenze, con due messaggeri diversi. Una da vostro cognato e una da messer Giovanni da Casale.”

Caterina le prese e ringraziò. Le infilò entrambe nel tascone del suo abito e lasciò libero Cesare di andare per la sua strada.

Anche se aveva una gran curiosità di leggere quanto sia Lorenzo sia Pirovano le avevano scritto, voleva prima di tutto andare in camera di Giovannino. Per fortuna, quando giunse a destinazione, il piccolo dormiva ancora e Bianca, al suo fianco, le riferì che la notte era trascorsa tranquillissima e che, a parte solo una brevissima parentesi in cui sembrava di nuovo caldo, il fratello era sempre stato apiretico.

La Leonessa ringraziò la figlia e le diede il cambio nel vegliare il bambino. Approfittando del fatto che il piccolo Medici non accennava a risvegliarsi, la donna estrasse le due lettere e partì da quella di Pirovano.

L'avvisava del fatto che Lorenzo era stato da lui alla locanda, da solo, che era apparso sorpreso e infastidito a un tempo dalla sua richiesta di vedere i libri d'inventario. Le riferiva anche che il Popolano aveva chiesto se fosse vero che il nipote stesse tanto male. Infine la lettera si chiudeva con una sequela abbastanza lamentosa di domande e richieste per sapere come muoversi e come gestire le eventuali richieste del Medici.

Lasciando la missiva aperta sul letto, Caterina passò a quella del cognato. In un certo senso era speculare a quella di Giovanni da Casale, anche se, indubbiamente, si concentrava molto di più sulle rimostranze legate al fatto che il milanese alloggiasse in una squallida osteria, piuttosto che nel suo palazzo.

Con ambo i messaggi spiegati davanti a sé, la Tigre cominciò a pensare, in attesa che il figlio si svegliasse. Sapeva già come rispondere a Lorenzo, ma aveva le idee meno chiare per quanto riguardava Pirovano.

Quando il figlio finalmente schiuse gli occhi, la Contessa si occupò con calma di lui. Gli mise abiti freschi, lo deterse con cura, lo convinse a mangiare qualcosa e bere un po' d'acqua e infine, cedendo alla sua silenziosa richiesta, lo prese in braccio.

Così, con Giovannino che si teneva saldamente a lei, recuperò le due lettere e uscì in corridoio per andare in camera sua. Una volta lì, cercò di far staccare il piccolo, dicendogli che avrebbe potuto riposare ancora un po' sul letto, ma il Medici non ne volle sapere, afferrandola ancor più saldamente.

“Sei un piccolo diavolo...” ridacchiò la donna, scoprendo, grazie all'ultimogenito, una leggerezza che non aveva mai vissuto con nessun altro dei suoi figli.

Tenendoselo in grembo, quindi, andò alla scrivania e cominciò a rispondere partendo dal cognato.

Intinse la penna e, dopo un profondo sospirò scrisse: 'La Magnificentia Vostra ha usato troppo humanità in andare a ritrovare sino al hostaria Mess. Ioanni mio Oratore là: havea havuto commisione da me venire a quella et conferire cum epsa el tucto et governarse secondo il sapientissimo consiglio suo. Lo essere smontato al hosteria, la M.ia Vostra non lo ha da ascrivere se non al respecto che richercha la condicione de li tempi et de quella vostra Città, maxime cognoscendo che epsa V. ce biosgna, et mostra ancho andare cum grande riguardo.'

Caterina si fermò un momento. Diede un bacio distratto alla testa del figlio e poi, cercando le parole migliori per indurre il Popolano a credere che pensasse davvero quanto stava scrivendo, riprese: 'Et io ho pensato più presto de farli cosa grata che dispiacente. El libro de li inventarii adomandato non è stato per diffidentia se sia mai pensato havere de la Magn.ia V.a ma per fugire ogni calunnia me potesse essere per alcuno tempo data ch'io havesse istimato pocho il presente da chi me ha havuto a consigliare nel modo ordinario di questa cosa.'.

Poi rinnovò le sue dichiarazioni di fiducia e stima nei confronti di Lorenzo, sperando, se non altro, che quelle parole servissero in parte come deterrente per fargli prendere decisioni drastiche nei suoi confronti.

Ricordava ancora quando, qualche anno prima, lei e i fratelli Medici si erano scritti per contrattare la compravendita di grano. All'epoca i ringraziamenti e le espressioni di fiducia erano davvero sincere. Ma all'epoca Giovanni ancora non l'aveva conosciuta, lei non se n'era ancora innamorata, e gli affari erano ancora solo affari. Era inutile fare confronti. Il passato era passato e il presente era qualcosa di completamente diverso.

Mentre Giovannino, con il piccolo indice toccava la carta, rischiando di fare una macchia con l'inchiostro, la Tigre soggiunse, domandandosi quanto dispiacere avrebbe procurato quella notizia al cognato: 'Ludovico è migliorato in modo che si altro non li accade, speriamo se possa esser libero di questo male. Idio sia rengratiato del tutto.'.

“Che fosse per le tue preghiere – fece la Contessa, tra sé – probabilmente il mio Giovannino sarebbe già in una bara.”

Nel sentire il proprio nome, pur non avendo colto il senso della frase, il piccolo si mise a fissare la madre che, con un sospiro, firmò e accantonò la lettera per Lorenzo, prendendo subito un altro foglio, per vergare questa volta il messaggio di risposta a Pirovano.

Gli diede disposizioni precise, per quanto non del tutto univoche e gli ordinò di carpire informazioni sulle mosse del Medici. Voleva sapere se davvero il 14 agosto sarebbe stata convocata per discutere dell'affidamento del figlio e, se sì, dove. Gli permise di accettare anche un accordo morbido, per la condotta di Ottaviano, a patto, però, di non cedere sul prezzo. E, infine, gli intimò ancora una volta di non accettare nessun invito a palazzo da parte di Lorenzo.

Quando ebbe concluso anche quella missiva, sospirò, sistemò un ricciolo ribelle scivolato sulla fronte del figlio e gli disse: “Andiamo da tuo fratello Sforzino? So che stamattina dovrebbe studiare i protomartiri. Non sarà un argomento allegro, ma...”

Il piccolo Medici disse qualche sillaba di difficile comprensione, però alla madre apparve ben disposto all'idea di andare dal fratello.

Con un sospiro, Caterina prese le due lettere, lasciò la stanza, il figlio sempre in braccio e andò verso la sala delle letture.

Appena si imbatté in qualcuno di cui si fidava – ovvero il Capitano Mongardini – gli chiese di far avere le due missive al castellano, affinché predisponesse per la loro spedizione il prima possibile.

Era ormai quasi arrivata a destinazione, quando si sentì osservata. Accigliandosi, si voltò e capì di non essersi sbagliata quando intravide, nascosto in una delle alcove che si affacciavano sul cortile d'addestramento, gli occhi vigili di Bernardino che la fissavano.

“Ti ho visto.” disse piano la Tigre, fermandosi.

A quel punto il piccolo Feo, sentendosi scoperto, fece qualche passo avanti, lasciando il suo nascondiglio e, quando fu abbastanza vicino, mentre Giovannino tendeva una mano verso di lui, chiese: “Mio fratello sta davvero meglio?”

“Giudica tu stesso.” rispose la donna, con un breve sorriso, il cuore scaldato più dal vedere la sintonia che si intravedeva tra i due figli, che non dalla richiesta abbastanza pleonastica.

“Adesso è fuori pericolo? Non morirà più?” andò avanti a domandare Bernardino, stringendo ancora la mano dell'altro.

“Credo di sì.” soffiò la Leonessa.

Il Feo si lasciò andare a un sorriso disteso, come non ne lasciava affiorare da anni. L'ultima volta, pensò la Sforza, che l'aveva visto tanto rilassato, forse risaliva a quando era poco più grande di Giovannino, ben prima che Giacomo morisse.

“Sono davvero felice.” disse, in fretta, come se un po' si vergognasse di esternare in modo tanto palese la sua gioia.

Dopodiché, senza dare il tempo alla madre di intuire le sue intenzioni, l'abbracciò per un istante, con tutta la forza del suo corpo da bambino di quasi nove anni, e poi corse via, senza girarsi indietro nemmeno una volta.

Con Giovannino, che, evidentemente, era rimasto molto divertito dall'apparizione e dalla fuga del fratello, e si era abbandonato a una risata gorgogliante, la Contessa scosse appena il capo e tornò alla porta della sala delle letture.

Lo sguardo stupito che le rivolse Sforzino, quando la vide arrivare proprio mentre leggeva un lungo e complicato brano in latino, in breve si tramutò in un'espressione quasi orgogliosa e anche la sua voce, nel proseguire la lettura senza nemmeno un inciampo, si fece più decisa e alta.

La Sforza, sistemata sul divanetto imbottito assieme a Giovannino, si perse nei suoi pensieri, senza seguire cosa il ragazzino stesse dicendo. Cominciò a ragionare proprio partendo dallo sguardo che le aveva dedicato. Poi passò a valutare la forza con cui, per quanto ancora provato, il suo ultimogenito la teneva stretta a sé. Risentì il modo sfuggente eppure quasi imperioso con cui Bernardino l'aveva abbracciata, poco prima. Valutò la rabbia costante che il figlio di Giacomo aveva in corpo, e, di contro, la sua capacità di dolcezza. Ragionò sullo sguardo sveglio di sua figlia Bianca, che, tuttavia, le si mostrava sempre molto compita e silenziosa, quasi volesse, con la modestia dei suoi modi, staccarsi dall'esempio che lei le stava dando. Pensò a Galeazzo, e alla sua evidente smania di compiacerla, ai suoi modi, impostati e trattenuti, quasi fossero la chiave di volta per ottenere il suo amore. Si ricordò di Cesare da piccolo, così affettuoso e tranquillo, diventato poi un adolescente e un giovane uomo cupo, tetro e completamente anaffettivo. E poi arrivò a Ottaviano e lì il filo dei suoi pensieri finalmente si spezzò.

“Non trovate che Sforzino abbia un'ottima capacità di traduzione a impronta?” chiese il precettore, sorridendo alla Tigre, mentre il ragazzino, finalmente, taceva.

Caterina, che non si era nemmeno accorta che il figlio fosse già passato dalla lettura alla traduzione, si fidò dell'espressione euforica dell'uomo e annuì: “Sì, sono molto fiera di lui.”

Il maestro annuì e poi, voltando pagina al librone che stava dinnanzi al Riario, gli ordinò: “E ora leggiamo questo...”

Con Giovannino che, rapito dalla voce del fratello, si era messo attento ad ascoltare ogni parola, riuscendo a vincere perfino il sonno, la Contessa cercò a sua volta di non distrarsi più.

Tuttavia, mentre osservava il viso tondo dell'ultimo figlio di Girolamo, si trovò con un filo d'angoscia a chiedersi quanti danni avesse fatto, lei, a Sforzino e a tutti gli altri, con la propria freddezza e il proprio rifiuto, e se, almeno con qualcuno di loro, ci fosse un margine di recupero, prima di doversi separare per sempre.

 

Lucrecia poteva ancora risentire nelle orecchie le parole dell'ambasciatore di Napoli, che la incoraggiava e le chiedeva di essere forte e di avere fede. La realtà, la giovane l'aveva capito guardandolo per un solo istante negli occhi, era complicata, era molto meno rosea della situazione distesa che l'uomo le aveva descritto, ma, e anche questa era una solida verità, era inutile abbattersi prima del tempo.

Così, con l'anima ferita, ma non ancora del tutto sconfitta, la Borja la mattina di quell'8 agosto, si era messa in strada con il fermo proponimento di apparire a tutti salda e sicura di sé, per nulla abbattuta dalle circostanza.

Il corteo, che apriva insieme a Jofré, era stato appositamente studiato dal loro padre affinché risultasse quanto di più sontuoso e sicuro al mondo.

Oltre ai due rampolli del papa, si erano messi sulla via damigelle, nobili, servi, soldati, carcerieri e ben quarantatré carri colmi di cose – perlopiù abiti ed effetti personali di Lucrecia – che avrebbero dovuto permettere alla giovane di entrare a Spoleto a cominciare a vivervi senza troppe difficoltà.

Tra i notabili che passavano lungo le strade di Roma assieme ai due Borja c'era anche il giovane Fabio Orsini, simbolo vivente della vicinanza espressa dalla sua famiglia.

Alessandro VI, poi, aveva voluto sottolineare la gravidanza della figlia – oltre che proteggere la stessa Lucrecia da un viaggio troppo scomodo – facendola adagiare su una lettiga coperta da materassi di raso cremisi, decorati a fiori, e accompagnati da due cuscini di damasco bianco. A coprirla dal sole c'era poi un baldacchino molto spesso e prezioso. Se, per caso, avesse preferito viaggiare seduta, a cavallo, aveva anche l'alternativa, altrettanto comoda, di una poltrona imbottita di raso, con un ingegnoso sgabellino per i piedi, attaccato alla sella.

La Borja aveva deciso di uscire dalla città cavalcando, però, lasciando da parte, almeno per il momento, i regali del padre. E, infatti, quando lei e Jofré uscirono dal palazzo di Santa Maria in Portico alla testa del corteo, Rodrigo dovette trattenere a stento un moto di insoddisfazione, nel vederla in sella come nulla fosse.

Stando sulla loggia delle benedizione, con un gran numero di romani che lo fissavano, il papa poté solo salutare i due figli con eleganza, come se nell'atteggiamento di sfida della figlia non ci fosse assolutamente nulla di strano.

Studiatamente, Lucrecia e Jofré chinarono il capo davanti al padre nello stesso momento. I capelli color del grano di lei e quelli più scuri di lui ondeggiarono nei refoli bollenti dell'aria d'agosto e il pontefice alzò tre volte la mano, per benedirli.

Troppo lontano per dire loro addio a parole, Alessandro VI li tenne d'occhio finché non furono troppo lontani. Quando anche la folla perse interesse, si ritirò, preparandosi a una giornata funestata dal suo pessimo umore.

Lucrecia, invece, aveva accolto il lasciarsi alle spalle il padre con una sorta di euforico sollievo.

Sapeva benissimo che andare a Spoleto non era una soluzione. Però aveva bisogno di aria pulita, di levarsi di dosso il tanfo della corte papale. Voleva allontanarsi da tutto e tutti, da suo padre, dalle malelingue romane, perfino dall'ombra di suo figlio Giovanni, emblema del silenzioso dramma che era stata la sua vita fino a quel momento.

E, forse, ricoprire un ruolo così tanto importante – abbastanza, aveva confermato suo padre, da poter cambiare le sorti della ribellione sorta a Todi e contrastata con difficoltà da Bartolomeo d'Alviano – le avrebbe permesso di cominciare davvero a camminare da sola.

Mentre attraversavano ad andatura sostenuta ponte Sant'Angelo, l'ambasciatore di Napoli le si avvicinò e la ragazza ne approfittò per scambiare con lui due chiacchiere, almeno fino al limitare di Roma.

Quell'uomo non le stava molto simpatico, ma il suo accento le ricordava quello di Alfonso, e tanto le bastava per avere l'illusione di poter comunicare con il suo sposo, nella speranza di potersi riabbracciare presto nella loro nuova casa.

Arrivati alle mura della città, però, l'ambasciatore dovette salutarla e, baciatale la mano con una creanza che ancor di più riportò alla mente della Borja il fascino partenopeo del marito, le sorrise assicurando: “Vi faremo riavere il vostro Alfonso, in un modo o nell'altro.”

Lucrecia lo ringraziò e, rimettendosi a cavalcare accanto a Jofré, puntò lo sguardo in avanti, confidando nel suo destino e in ciò che l'attendeva fuori da Roma, augurandosi come non mai che allontanarsi dal covo di vipere che tutti chiamavano Vaticano le sarebbe bastato per potersi costruire una nuova vita da condividere solo con suo marito e con il figlio che ancora portava in grembo.

Almeno finché suo fratello Cesare non fosse tornato dalla Francia, per tornare da lei, come più volte le aveva promesso...

 
 
   
 
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