Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    17/05/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Non era valso a nulla, riuscire a ferire a una spalla, con una palla d'archibugio, Ranuccio da Marciano. Anzi, forse Paolo Vitelli si era incattivito ancor di più, nel vedere il suo secondo abbandonare il campo per un motivo del genere.

Gorlino Tombesi aveva capito un po' di cose di Vitelli, combattendoci contro. Dalla sua ostinazione nel bombardare la rocca Staimpace, al modo in cui gestiva gli attacchi e i ripieghi, e poteva quasi vederlo mentre, con un'espressione di delusa amarezza, osservava Ranuccio ritirarsi e cercare l'aiuto dei cerusici per quello che, nell'ottica di un grande condottiero come lui, altro non era se non un graffio.

“Rafforzate il lato! Il lato!” fece appena in tempo a gridare Tombesi, quando si accorse che sul fianco della rocca alcuni fiorentini stavano riuscendo a scalare il muro.

Il fossato era stato riempito fino all'orlo di detriti e cadaveri e, ormai, era usato senza alcun problema dagli assedianti. Gorlino era certo di poter contare almeno duecento fiorentini morti, ai suoi piedi, ma i pisani erano sicuramente di più.

“Al lato!” gridò di nuovo, ma la sua voce venne completamente coperta dal rombo di una nuova scarica di cannoni e, prima che Tombesi potesse capire cos'era successo, uno dei muri più deboli della rocca crollò permettendo ai nemici di entrare come un fiume in piena.

A quel punto, pensava il ravennate – pisano per condotta – l'unica cosa che si poteva fare era cercare di sopravvivere e scappare. Avevano retto anche troppo. Erano giorni, ormai, che venivano bombardati e stava per scendere la sera anche su quel dieci agosto.

Il sole calava rapidissimo all'orizzonte, e il caldo comunque non demordeva. I pisani erano stremati, terrorizzati e affamati. I fiorentini, invece, sembravano freschissimi, pronti ed entusiasti.

“Ritirata! Ritirata!” gridò Gorlino, stando in un punto abbastanza sopraelevato, senza più curarsi di pestare i corpi di quelli che fino a poco prima erano stati suoi sottoposti e suoi amici: “Ritirata!”

Stava per invocare la ritirata per una quarta volta, ma la voce gli morì in gola con un singulto strozzato. Come in un contrappasso dantesco, sentì il bruciore atroce di un colpo d'archibugio colpirlo alla spalla, perforando prima la cotta di maglia, poi gli abiti e infine la pelle, i muscoli e frantumando le ossa.

Ancora contratto per il dolore improvviso e tremendo, ne avvertì un altro, trafittivo, più arcaico, più noto al suo corpo. Abbassò lo sguardo e, nel mezzo della coscia, vide conficcata una freccia.

Sopraffatto dal dolore, svenne.

 

Caterina aveva deciso di tenere quella mattina un Consiglio di Guerra a cui, però, avrebbero partecipato solo alcuni tra i suoi collaboratori più stretti.

Anche se si stavano già registrando nuovi casi di peste, adesso che Giovannino stava meglio, la Tigre si sentiva molto più libera di dedicarsi agli affari di Stato e, soprattutto, a quelli bellici.

Stava attendendo con trepidazione notizie da Firenze, ma immaginava di dover pazientare ancora qualche giorno, perciò era necessario tenersi impegnata in altro modo. Aveva preferito evitare il Quartiere Militare, quel giorno, e l'aveva fatto principalmente per due motivi. Prima di tutto, l'Oliva le aveva fatto sapere che aveva novità sugli spostamento nello scacchiere d'Italia, e quindi la donna trovava necessario e doveroso approfondire prima quelle notizie. E, in secondo luogo, da quando era sfebbrato, il suo figlio più piccolo sembrava non volerne sapere di stare con le balie.

Aveva dato letteralmente il tormento a Bianca, nell'arco dell'ultima giornata, reclamandola di continuo e così la Leonessa aveva deciso di darle il cambio, per permetterle di fare un po' quello che voleva, senza l'impaccio di un bambino piccolo appresso.

Sapeva, già da un po', in realtà, che sua figlia e una delle sue amiche della cucina aveva l'abitudine di andare a spiare i soldati che facevano il bagno e immaginava che anche quel giorno le due avessero in progetto di ottemperare al loro passatempo preferito. Non voleva impedirglielo. In tutta sincerità, credeva che ci fossero passioni molto meno sane e molto più disdicevoli. In fondo Bianca avrebbe compiuto diciotto anni nel giro di poco più di due mesi, era normale, che sentisse certe curiosità. Senza contare che, per quanto ne sapeva la Sforza, sua figlia aveva già una discreta dimestichezza con gli uomini e dunque non era nemmeno da escludere la possibilità che nelle sale da bagno vedesse solo cose che già conosceva bene.

Ma, in ogni caso, Caterina si accollò Giovannino senza troppi discorsi, lasciando che sua figlia passasse un po' di tempo come preferiva.

E così, mentre gli ultimi Consiglieri prendevano posto attorno alla mappa d'Italia, la Contessa stava al tavolo, con il piccolo Medici stretto al collo, del tutto a suo agio nell'avere un bambino di nemmeno un anno e mezzo in braccio e una cartina di guerra dinnanzi a sé.

Qualcuno dei presenti, cercando di non dare nell'occhio, dedicava qualche sguardo quasi infastidito all'ultimogenito della Tigre. Alla donna non era sfuggito nemmeno uno, di quegli sguardi, ma voleva soprassedere. Non era il caso di accendere discussioni per qualcosa del genere. Senza contare che, stretto a lei, Giovannino era tranquillo, silenzioso e attentissimo, quindi non avrebbe disturbato la riunione in nessun modo.

“Allora, quali novità ci sono?” chiese Caterina, non appena si accorse che tutti avevano preso il loro posto.

Gli ultimi ad arrivare erano stati Galeazzo e il castellano, non per colpa del ragazzo, anzi. Il Riario era stato il primo a raggiungere la Sala della Guerra assieme alla madre, ed era stata lei stessa a chiedergli di andare a recuperare Cesare Feo, al quale, fino a quel momento, l'invito non era ancora stato esteso.

Tra i convocati, seppur con una certa riluttanza, la Leonessa aveva incluso anche Simone Ridolfi. Benché temesse di finire a litigare con lui, per via della sua incostanza, riteneva giusto che fosse presente, in qualità di Governatore della città. La situazione politica e bellica della penisola avrebbe sicuramente influenzato anche l'organizzazione di Forlì e dunque doveva sentire, che ne avesse voglia o meno.

Erano poi presenti alcuni tra i Capitani più attivi nella pianificazione della guerra e delle difese, oltre al notaio, al Segretario Baldraccani e a Numai.

L'Oliva si schiarì la voce, e, cercando conferma anche in Luffo, che iniziò subito ad annuire ancor prima di sentirlo parlare, cominciò dicendo: “Alessandro Bentivoglio è passato stabilmente al soldo di Milano.”

“Ci mancherebbe. È sposato a mia nipote Ippolita, signora di Casteggio.” buttò lì Caterina, spostando, comunque, un segnalino dei Bentivoglio verso Milano.

“Sapete quanto noi che non era così ovvio, mia signora.” provò a ridimensionarla Numai, sentendo nella voce della Leonessa un velo di rabbia che gli piaceva poco: “E comunque, tra i Bentivoglio, ci sono ancora molti che si schierano per Venezia, e quindi per la Francia. Annibale Bentivoglio...”

“Se è ancora quella questione dei carriaggi sequestrati – avvisò la Contessa, sollevando un dito verso il Consigliere – non me ne può importare di meno. Ha fatto di una fiammella un incendio solo perché gli faceva comodo.”

Luffo tacque, colpito, più ancora che dalle iridi ardenti della Sforza, da quelle picee del piccolo Giovannino, che, come la madre, lo stava fissando intensamente, con una sorta di implacabile minacciosità.

Ritornare con la memoria a quell'incidente diplomatico – da lei fortemente voluto, per altro – con il figlio di Giovanni Bentivoglio, aveva avuto un effetto molto destabilizzante, su Caterina. Era equivalso a ricordare Manfredi e alla sua fine tremenda, che, nessuno glielo avrebbe mai tolto di mente, poteva benissimo essere stata voluta dai bolognesi.

“Che condotta ha concesso mio zio al Bentivoglio?” chiese la Leonessa, cercando di scrollarsi di dosso l'insofferenza che sentiva crescere nelle sue viscere.

“Cinquecento cavalli, di cui duecento balestrieri.” spiegò l'Oliva, mentre il Capitano Rossetti e il Capitano Mongardini si scambiavano qualche battuta di meravigliata ammirazione.

“Ma siamo sicuri che li paghi mio zio?” chiese, nervosa, la donna, il figlio che si stringeva a lei con più forza, sentendola agitata.

“No, no... Sappiamo che ha con sé questi uomini, ma in realtà non siamo certi che il Duca sia colui che paga, per questo.” ammise Luffo.

Galeazzo, che si era messo fin dal principio a un angolo del tavolo, un po' in disparte, per ascoltare tutti, ma non dare fastidio a nessuno, guardò la madre in cerca di una conferma. Sapeva che Ludovico aveva fatto molte storie, quando avevano provato a far pagare da lui una condotta per Ottaviano, quindi il Riario capiva molto bene le implicazioni di una simile concessione data a un Bentivoglio e non al fratello.

Caterina colse subito lo sguardo del figlio e, annuendo appena, gli fece capire che anche lei trovava che una simile caduta di stile, da parte del Duca, sarebbe stata in linea con la confusione che evidentemente albergava nel Moro, ma altrettanto imperdonabile da un punto di vista diplomatico.

“Altre cose?” chiese la Contessa, tornando a concentrarsi sulla mappa.

“Il papa ha scacciato da Roma Sancha d'Aragona.” rivelò l'Oliva, indicando l'Urbe: “E Alfonso è scappato di sua volontà. Sembra che stiano cercando di appianare le cose con le buone, ma solo perché il Borja non vuole dare un dispiacere alla figlia incinta.”

“Lucrecia Borja è di nuovo incinta?” chiese Caterina, trasecolando.

“Dovrebbe partorire tra due o tre mesi.” confermò il notaio.

Alcuni tra i Capitani presenti si lasciarono andare a sguardi ed espressioni di sufficienza, davanti a quello scambio di battute. La Tigre sapeva che loro non capivano l'importanza di quel dettaglio, ritenuto, probabilmente, solo un pettegolezzo da donne.

Non aveva comunque né tempo né voglia per spiegare a tutti loro cosa sarebbe significato un Aragona che per metà fosse stato un Borja e così si concentrò sull'Oliva e su Numai, che parevano i due più addentro alla questione: “E di mia cognata Isabella si sa qualcosa?”

“Questo dovreste chiederlo a messer Giovanni da Casale, se è ancora in contatto con il Duca di Milano.” disse, con cautela, Luffo: “Perché di madonna Isabella sappiamo solo che ancora non può vedere il figlio, anche se il Duca ha ammorbidito la sorveglianza...”

“Altre cose?” chiese allora la Sforza, cercando di ricacciare indietro i ricordi di tanti anni prima, quando, ancora con Giacomo al suo fianco, si era vista recapitare tutta una serie di lettere dell'Aragona che si lamentava del suo matrimonio con Gian Galeazzo, chiedendole consigli e pregandola di intercedere presso il fratello per smuoverlo un po'.

Ripensando ancora alla strana firma che Isabella aveva usato tante volte, ovvero 'la peggio maritata di tutte le donne', la Contessa strinse ancor di più a sé Giovannino che, ben lungi dall'apparire stanco, stava ascoltando con attenzione le parole dell'Oliva.

“Niccolò Orsini ha ottenuto una condotta dai veneziani per cento armigeri per il figlio, Ludovico, anche se dicono che potrebbe essere commutata in una provvigione.” disse il notaio, andando stavolta a indicare la Serenissima: “Millecinquecento o duemila ducati al massimo, e cento soldati per la sua guardia personale. E la liberazione dal bando per Polonio Boni, un suo protetto.”

Sentendo parlare del Conte di Pitigliano, che per altro nell'ultima guerra aveva dato più di un grattacapo a Forlì, la Leonessa ripensò istintivamente agli Orsini in generale, e a Virginio in particolare.

Non si rese conto di essersi persa una parte di discorso fino a quando non sentì Simone Ridolfi sbuffare: “Si è addirittura fatto assicurare l'appoggio per ottenere il vescovado di Cividale del Friuli per il figlio Aldobrandino e poi nomina maestro di campo Gambara, Albanese, Pio e Avogadro?!”

Quell'esclamazione riportò al presente la Sforza, che si trovò a dirsi che non poteva più lasciare che il passato la distogliesse in modo così repentino da quello che stava capitando. Si era messa a ricordare delle giornate campali passate accanto a Virginio Orsini, uno dei primi uomini che, nel corso della sua vita, avessero seriamente creduto nelle sue capacità, e così non aveva ascoltato quanto i suoi Consiglieri le stavano dicendo.

'Se avessi ancora al mio fianco Giovanni – pensò, con rammarico, il calore e il peso del suo ultimogenito che le facevano provare nostalgia come non mai della presenza del terzo marito – non fari così fatica. Lui era l'unico con cui potessi parlare davvero di tutto, perfino di Giacomo, e scaricarmi un po' per poi potermi concentrare su quello che conta davvero...'

“Perché parlate così?” chiese Luffo, accigliandosi: “Governatore, vi ricordo che Gamabara e tutti gli altri sono comandanti capaci.”

Simone sollevò le mani, nervoso, e sbottò: “Capaci, capaci, ma sotto la media! Uno che ottiene così tanti favori evidentemente ha qualcosa in più da mettere sulla bilancia!”

“Questo lo scopriremo con il tempo.” disse Caterina, infilandosi in quella che stava diventando una discussione accesa: “Per il momento ci basti sapere che il Conte di Pitigliano, che noi sappiamo essere caro al papa, si è schierato apertamente con Venezia, contro Milano, e in favore della Francia.”

Quando incrociò gli occhi un po' impauriti di Galeazzo, che nell'osservare la mappa si stava rendendo conto molto velocemente di quanto fossero di fatto sempre più accerchiati da nemici, la Contessa si sentì in difficoltà.

Voleva proteggere i suoi figli, e in un certo senso aveva già un piano abbastanza preciso per cercare di salvare loro la vita, quando fosse successo il peggio, anche se c'erano ancora dei dettagli che doveva sistemare, degli agganci che doveva testare per vedere quanto fossero solidi.

Vedendo nel gruppetto dei Capitani che aveva voluto alla riunione anche il viso olivastro di Michele Marulli, rientrato a pieno titolo nel suo consiglio ristretto per via dell'amicizia e della stima che l'aveva legato a Giovanni, la donna ebbe improvvisamente fretta di chiudere il Consiglio per poter scambiare con lui due parole che da tempo le si agitavano nella mente.

Così, dopo un'ultima panoramica sulle forze papaline e quelle milanesi, congedò tutti quanti, facendo però segno al bizantino di aspettare un momento.

Galeazzo aveva esitato, ma poi, non vedendosi richiamato dalla madre, era uscito come tutti gli altri. Solo Simone Ridolfi sembrava restio ad andarsene.

“Avete qualcosa da dirmi?” chiese la Contessa, fissandolo con aria di sfida.

Avrebbe voluto riprenderlo in modo esemplare per il suo atteggiamento lassista nei confronti degli incarichi di salute pubblica che lei stessa gli aveva affidato, ma, avendo in braccio Giovannino, non aveva intenzione di lasciarsi andare all'ira. Aveva paura di spaventarlo, o, se non altro, di inquietarlo, e così aveva deciso di rinviare a un secondo momento il discorso che aveva intenzione di fare al Governatore.

“Niente...” fece quest'ultimo, guardandola un momento, ma poi, abbassando la voce, disse, come se proprio non potesse trattenersi: “Non vi sembra azzardato portarvi appresso per la rocca, per tutto il giorno, un bambino così piccolo che ha appena scampato una febbre che poteva essere mortale?”

“Non credo siano affari vostri.” ribatté piatta la donna, accarezzando con fare protettivo la testa del piccolo.

“Se Giovanni potesse vedere come...” principiò a dire lui, ma la Leonessa lo zittì all'istante.

“Vi ho detto che non sono affari vostri. Andatevene.” sibilò, distogliendo subito lo sguardo per andare a dedicarsi a Marulli.

Ridolfi rimase con la bocca mezza aperta, l'arringa che aveva preparato che si spegneva sul nascere. Guardò la Tigre, ancora bellissima e così carnale, pur avendo già passato i trentasei anni, età in cui la maggior parte delle donne, specie se madri di così tanti figli, iniziavano ad abbandonarsi a una sorta di senile alterigia. Si rese conto che, per quanto nel tempo avesse cominciato a saperne di più su di lei, non l'avrebbe mai e poi mai compresa. Andando alla porta si chiese con un velo di ansia se mai Giovanni avesse davvero capito chi aveva sposato, e, cercando di convincersi che sì, che il Medici aveva scelto senzientemente quella belva come moglie, uscì in corridoio.

“Allora posso contare sul vostro appoggio.” concluse Caterina, dopo aver parlato per almeno mezz'ora con Marulli.

Questi, sfiorando la manina di Giovannino, che si stava protendendo verso di lui, incuriosito, annuì e confermò: “Devo solo chiedere conferma per un paio di cose, ma quando il momento arriverà, potrete contare su di me.”

La Sforza fece un sorriso mesto e, abbassando lo sguardo, disse: “Anche Giovanni ve ne sarebbe grato. Lui li considerava tutti come figli suoi.”

Michele ricambiò il sorriso triste e chinò il capo: “Lo faccio per lui, ma anche per voi. Stare al vostro servizio mi ha permesso di capire tante cose di voi, e non posso che esservi un servo fedele.”

La Tigre deglutì un paio di volte, per non lasciarsi prendere troppo dal momento e poi concluse, accompagnata da un gorgoglio impaziente di Giovannino: “Avanti, adesso andiamo... Comincio ad aver fame e immagino che anche mio figlio abbia lo stomaco vuoto.”

 

Giovanni da Casale sollevò lo sguardo verso il soffitto affrescato e, quando lo riabbassò, si trovò davanti Lorenzo. Era stato silenzioso come un gatto e anche adesso, che lo fissava a pochi passi di distanza, gli ricordava tanto un felino. Non palesemente aggressivo e rapace come la Tigre di Forlì, però. Era qualcosa di sornione, di apparentemente indifeso e innocuo che, però, all'occorrenza, era pronto a tirar fuori lunghi artigli e ferire a morte il rivale.

“Siete stato gentile a venire in casa mia, finalmente.” disse piano il Medici, senza avvicinarsi oltre, né proporre a Pirovano di sistemarsi da qualche parte, per poter discutere più comodamente.

Questo dettaglio fece sperare al milanese che la visita sarebbe durata molto poco. Non aveva alcuna voglia di stare con il Popolano, tanto meno sotto al suo tetto. Caterina l'aveva messo in guardi in modo troppo esplicito, perché potesse sentirsi davvero tranquillo.

Aveva anche dovuto lasciare la spada, all'ingresso del palazzo, e, se non fosse stato per uno stiletto nascosto nello stivale, si sarebbe sentito del tutto disarmato. Anche se confidava discretamente nelle due capacità di lotta corpo a corpo, era indubbio che una lama era una difesa migliore, rispetto a un pugno.

“Ho ricevuto una lettera dalla vostra signora.” spiegò il fiorentino, avendo cura di lanciare un'occhiata insinuante a Giovanni, mentre diceva le ultime due parole: “E ho trovato le sue ragioni molto... Convincenti, se si può dire così.”

Pirovano non sapeva dire cosa di preciso la sua amante avesse scritto al Medici, perciò annuì e basta, senza sbilanciarsi.

Lorenzo, nel vederlo reagire a quel modo, ebbe il sentore della sua incertezza, ma gli sembrava solo una perdita di tempo, provare a prendersi gioco di lui portandolo ad ammettere di non avere idea di cosa la Sforza avesse scritto.

Così, con un sospiro pesante, prese un piccolo plico di fogli dal tascone interno della sua giacchetta di raso e la porse al milanese, dicendo: “Fatele sapere che sono contento, malgrado tutto, che il piccolo stia meglio. Era la notizia che aspettavo per consegnarvi questo. Dovrete farglielo avere il prima possibile.”

Scorgendo l'aria terribilmente formale della pigna di documenti che l'altro gli stava porgendo, Giovanni da Casale si accigliò e, facendo mezzo passo avanti per arrivare alla mano tesa del Popolano, chiese: “Di cosa si tratta?”

“Questa è la convocazione ufficiale al processo che verrà istruito a Castrocaro. Sarebbe meglio che ci fosse anche la vostra signora, sapete, dato che discuteremo della custodia del suo figlio più piccolo.” spiegò Lorenzo, con un sorriso che gli sollevava appena gli angoli della bocca, lasciando del tutto freddi gli occhi.

“E quando sarà, questo processo..?” di informò Pirovano.

“Il quattordici di questo mese.” rispose, con un certo compiacimento il Medici.

Il milanese sentì il sangue gelarsi nelle vene. Era già l'11 agosto. Avrebbe dovuto fare miracoli per far avere il tutto alla Contessa in tempo affinché potesse essere pronta. Era vero che in poche ore da Forlì si arrivava a Castrocaro, ma doveva arrivarci pronta.

Da un po' la donna si aspettava quella convocazione, ma, avvicinandosi sempre di più la data senza averne notizia, si era convinta che il Medici avesse momentaneamente cambiato idea, per chissà quale ragione.

“Vi converrà trovare una staffetta molto veloce...” commentò piano il fiorentino, arrivando perfino a sospirare, per sottolineare la propria fasulla pena: “Fosse dipeso da me, vi avrei consegnato tutto molto prima, ma ho saputo solo oggi del miglioramento del piccolo... Se per caso fosse morto, tutti quei documenti sarebbero stati buoni solo per accendere il camino, lo capite...”

Giovanni da Casale deglutì. Lo irritava alla follia, il tono finto che il suo interlocutore stava usando fin dall'inizio. Non si capacitava di come la Sforza avesse potuto innamorarsi e sposare il fratello di un simile individuo. Non poteva dire di aver mai conosciuto Giovanni Medici, ma se aveva anche solo un briciolo dell'acrimonia di Lorenzo, allora non riusciva a capire come avesse potuto la Leonessa legarselo tanto stretto al cuore.

“Non abbiate paura.” disse Pirovano, senza tradire il proprio nervosismo: “La Contessa sarà avvisata per tempo e non mancherà, al processo.”

Il Popolano si esibì di nuovo nel suo sorriso spento e poi, indicandogli la porta, esclamò: “Ora vi lascio andare! Lungi da me trattenere in casa mia chi ha paura di essere pugnalato alle spalle da un momento all'altro!”

Quell'insinuazione, così improvvisa e detta con un tono tanto inatteso, fece spalancare gli occhi al milanese che, non sapendo come ribattere, restò qualche istante immobile a osservare il Medici.

Questi, ben felice di vedere l'uomo della Sforza tanto attonito, sussurrò, malevolo: “Ho capito benissimo perché avete preferito quella topaia di locanda al mio palazzo. Non sono stupido come mi si crede, messer Pirovano. Solo che a differenza di certa gente, io capisco che non tutto si risolve con il sangue.”

Giovanni, a quel punto, pensò che non fosse il caso di prolungare il discorso, e, chinando appena il capo, borbottò: “Farò avere la convocazione alla mia signora. Con permesso...”

Lucrezia Medici rallentò il passo, quando, mentre attraversava la via Larga, vide uscire dal palazzo in cui abitava suo cugino Lorenzo un uomo. Era quasi di corsa, teneva un plico di fogli sotto a un braccio e con la mano libera cercava un po' goffamente di rinfilarsi il cinturone con la spada.
Alla donna non piaceva molto, passare davanti a quella che era stata anche casa sua, sapendo che ormai era nelle mani dell'uomo sbagliato, ma quel giorno non aveva avuto modo di fare deviazioni.

“Chi era quello?” chiese, chinandosi un po' verso la serva che la seguiva, portandole la borsa di stoffe che aveva appena comprato.

La giovane, che era tra le più informate pettegole di Firenze, rispose subito: “Quello dovrebbe essere messer Giovanni da Casale, il milanese che la Sforza di Forlì ha mandato come suo messo. Io l'avevo già visto, mia signora, e mi hanno detto che era proprio lui.”

Lucrezia ringraziò e tornò a camminare normalmente, anche se il suo sguardo non si staccò più dalla figura di Pirovano finché l'uomo non prese una traversa laterale, sfuggendole.

Aveva avuto modo di vederlo discretamente bene, seppur di spalle. Il viso l'aveva intravisto solo quando l'aveva scorto uscire di corsa dal palazzo, ma quei pochi secondi le erano bastati per intravedere il profilo dritto e regolare, la barba scura e lo sguardo vivo.

Per il resto aveva potuto notare l'andatura abbastanza elegante, per essere chiaramente un uomo d'armi, spalle larghe, un fisico slanciato e gambe veloci. A occhio e croce, non poteva aver passato i venticinque anni.

Arrivata finalmente a casa, Lucrezia si fece dire dove fosse Jacopo e così andò di fretta al suo studiolo e lo trovò alla scrivania, intento a leggere delle carte.

“Sei tornata...” disse piano lui, alzando gli occhi tranquilli verso di lei e sorridendo.

La Medici aggirò la scrivania e andò a dargli un veloce bacio sulle labbra. L'uomo, che apprezzava sempre quel genere di saluto, le posò una mano sul fianco e la tirò di nuovo a sé, per baciarla una seconda volta, con maggior impegno.

Tuttavia la lasciò andare, quando sentì una vaga resistenza. Quando faceva così, sapeva che Lucrezia aveva qualcosa da dirgli.

“Ma è vera la storia dei lucchesi?” chiese infatti la Medici, togliendosi il mantello leggero e sedendosi sulla sedia dirimpetto al marito.

L'uomo annuì e riassunse quanto accaduto quel giorno: “Il Capitano del Popolo ha trovato un tipo sospetto che aveva una palla di cera con nascosta all'interno una lettera per Pisa, con cui Lucca chiedeva i soldi per saldare il debito contratto per mandargli soccorsi.”

“Ma siete sicuri che Lucca voglia appoggiare Pisa? Sarebbe una follia... La città sta quasi per cadere, che cosa ci guadagnerebbero, i lucchesi? Perderebbero solo uomini e denaro...” disse la donna, cercando di trovare un senso a quell'improvvisa novità.

“Non lo so.” ammise Jacopo, che aveva avuto la stessa perplessità, nel venire a conoscenza di quell'evenienza: “Fatto sta che dobbiamo capire se davvero Lucca ha mandato uomini o armi a Pisa...”

“E quindi avete mandato subito l'ambasciatore di Lucca in patria per chiedere conto di quanto accaduto...” concluse la Medici, con un sospiro.

Il marito annuì di nuovo: “Io avrei mandato anche qualcuno dei nostri, ma...”

“Ma come al solito sei stato zitto, senza dire quello che pensavi.” intervenne Lucrezia, terminando ancora una volta la frase per lui.

Il Salviati allargò appena le braccia, quasi a dire che non poteva farci nulla, se era così.

“Ah, mentre tornavo a casa, ho intravisto quel Giovanni da Casale di cui parlano tutti.” buttò lì la donna, facendo un'espressione abbastanza eloquente.

“E..?” la incalzò Jacopo, cominciando a sentire uno strano calore salire dal collo.

“E posso capire benissimo la Sforza. Ci credo che lo tiene come amante favorito.” fece, con serietà la Medici.

Notando come il marito si stesse visibilmente trattenendo, ostentando una rilassatezza innaturale, Lucrezia scoppiò a ridere e così anche lui si permise una risata, ma molto più stentata di quella della moglie.

“Davvero, comunque...” riprese Lucrezia, ancora divertita dalla reazione del suo uomo, che dopo quasi tredici anni di matrimonio sapeva dimostrarsi ancora geloso come il primo giorno: “Ha un aspetto notevole. Ci si può girare per strada, per guardarlo.”

“Quindi approvi il fatto che l'abbia preso come amante? Anche se suo marito, tuo cugino Giovanni, è morto da meno di un anno?” indagò Jacopo, più, in realtà, per sondare l'idea della moglie in merito a quel genere di situazioni, che non perché gli interessassero gli intrallazzi amorosi della Tigre di Forlì.

“Non dico questo. Dico solo che, da donna, posso capirla.” tagliò corto la Medici.

Siccome il Salviati si era rabbuiato, la donna si alzò, gli arrivò accanto e, chinandosi su di lui, lo baciò, avendo ben cura di fargli capire quanto ancora lo desiderasse, malgrado fosse passato il tempo e malgrado loro, negli anni, fossero un po' cambiati entrambi.

Il marito parve abbastanza rincuorato, tanto, almeno, da trovare la forza di chiedere, a mo' di battuta di spirito: “Devo essere geloso?”

“Di Giovanni da Casale?” sbuffò la Medici, rimettendosi dritta e accarezzandogli una guancia, rossa e calda come il fuoco, con studiata lentezza: “Direi proprio di no. È un gran bell'uomo, ma non mi metterei mai contro la Tigre solo per toglierle di bocca un osso, per succulento che sia.”

Quella risposta lasciò interdetto Jacopo che, mentre la moglie raggiungeva la porta ricordandogli che a breve avrebbero pranzato, chiese di nuovo: “Devo essere geloso..? Lucrezia? Lucrezia..!” ma ormai la Medici era lontana e non lo sentiva, o, più probabile, faceva finta di non sentirlo, continuando a ridere per conto suo.

L'uomo si lasciò ricadere con pesantezza contro lo schienale e, con un sospiro, si domandò perché, in occasioni del genere, sua moglie amasse tanto torturarlo, come un gatto con il topo, attirandolo nella sua rete e facendolo bruciare sulla graticola della gelosia e lui, immancabilmente, ci cascasse ogni singola volta.

“Perché ho sposato una Medici...” sospirò tra sé, dando una sommaria sistemata alle carte e lasciando infine la scrivania: “Ecco perché...”

 

 
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas