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Autore: Adeia Di Elferas    19/05/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La rocca d'Olona era caduta da appena un paio di giorni nelle sue mani, senza sforzo, quasi senza perdita di uomini, eppure Gian Giacomo da Trivulzio si aggirava per il campo francese come un cane rabbioso.

Sapeva che i soldati francesi erano tutto fuorché facili da governare, ma cominciava seriamente ad averne abbastanza. Aveva dato ordini più che precisi e aveva anche imposto pene esemplari per chi venisse meno alle regole che aveva imposto, eppure, non appena abbassava un momento la guardia, c'era subito qualcuno pronto a fare disastri.

Quella mattina, rabbioso dopo l'ultima notizia che gli era giunta all'orecchio, aveva fatto arrestare all'istante un armigero francese che era stato a capo di una piccola spedizione punitiva in un villaggio non lontano dalla rocca appena conquistata.

Sapeva che dovevano andare verso Spigno Monferrato, e che dovevano anche farlo abbastanza in fretta, ma non riteneva quella punizione una perdita di tempo. Non poteva permettere, per nessun motivo, che degli uomini al suo servizio si perdessero in saccheggi e brutture non autorizzate.

Tuttavia, subito dopo la ferma del maggior colpevole – purtroppo gli altri non erano stati riconosciuti – Don Giuliano di Ligny gli aveva chiesto di incontrarsi. Anche se il comando era stato dato direttamente dal re di Francia a Gian Giacomo, l'uomo aveva capito molto presto quanto il suo non essere d'Oltralpe stesse pesando sulla sua autorevolezza sia coi soldati, sia con gli altri comandanti.

Quando arrivò finalmente al padiglione del Ligny, mentre ancora stava entrando, scostando di malagrazia il telone che proteggeva l'ingresso, disse: “Ho un'impiccagione da sovrintendere, non ho tempo, si può sapere che volete da me?”

“State calmo.” cominciò a dire Don Giuliano, l'accento francese tanto forte da rendere le sue parole quasi ridicole: “Voglio solo parlarvi di quanto state facendo e farvi capire che state sbagliando.”

il Trivulzio stava per ribattere, quando si accorse che nella tenda, assieme a un paio di attendenti del francese, c'era anche Troilo de Rossi, che lo stava guardando in modo molto intenso, quasi a pregarlo di mantenere la calma.

Così, schiarendosi la voce, Gian Giacomo domandò: “In che modo punire un soldato che non ha rispettato gli ordini sarebbe un errore?”

Il Ligny fece un'espressione un po' annoiata e poi, con uno sbuffo, si avvicinò al comandante generale e gli disse: “Non piace nemmeno a me, vedere quello che fanno i nostri soldati, ma come possiamo biasimarli? Vedono cibo, soldi, oggetti che possono tornare utili, donne, animali... Come possiamo impedire loro di goderne?”

“Possiamo perché siamo i loro comandanti.” ribatté subito il Trivulzio, sollevando il mento e non guardando più Troilo, che pure cercava ancora di trattenerlo tacitamente: “È nostro dovere impedire questo genere di atrocità inutili. Abbiamo una guerra da portare avanti! Se ci fermiamo tutte le volte per permettere a questi barbari francesi di sfogare i loro istinti, allora..!”

“Come vi permettete..!” sbottò Don Giuliano, lanciandosi contro Gian Giacomo e prendendolo per il collo.

Passarono minuti concitati, durante i quali gli attendenti e il de Rossi cercarono di dividere i due comandanti che, furiosi l'uno con l'altro ed esasperati dalla collaborazione che li vedeva sempre fianco a fianco, stavano seriamente cercando di ammazzarsi a vicenda.

Alla fine, quando i tre pacificatori ebbero la meglio sui due litiganti, tanto il Trivulzio quanto il Ligny si resero conto della figuraccia fatta davanti ai loro sottoposti. Così, entrambi, come se si fossero messi d'accordo, si rassettarono un po' e si tranquillizzarono.

“Per stavolta fate quello che volete, con quell'armigero.” disse piano Don Giuliano, asciugandosi un piccolo rivolo di sangue che scendeva dal labbro raggiunto da uno dei pugni del comandante generale dei francesi: “Ma in futuro non tollererò altri ritardi di marcia per motivi tanto sciocchi.”

Gian Giacomo avrebbe voluto dirgli tutto quello che gli passava per la mente, ma riuscì a trattenersi, soprattutto perché il suo amico Troilo gli stava accanto a lo sfiorava appena con la spalla, a mo' di tacito monito.

Il milanese rinnegato, alla fine, fece un suono gutturale e annuì, e lasciò il padiglione, seguito dal de Rossi.

Quando, poco più tardi, si trovò davanti al palchetto improvvisato per l'esecuzione, provò un profondo piacere nel vedere il francese che aveva avuto l'insolenza di contravvenire agli ordini penzolare appeso per il collo, scosso dagli ultimi spasmi di dolore, e poi immobile, come un pesce che alla fine si arrende al suo pescatore.

“Se solo bastasse, impiccare un uomo ogni tanto...” soffiò, alle sue spalle, Troilo, una mano alla barba chiara e folta.

Gian Giacomo capiva benissimo il sentimento che aveva portato il suo amico a dire quella frase, tuttavia si finse più cinico di quanto non fosse, commentando: “Di corde ne abbiamo. Di soldati anche. Posso permettermi qualche impiccato, di quando in quando.”

 

Quel 13 agosto a Caterina sembrava il giorno più caldo dell'estate. Assieme a Giovannino, che le stava sempre incollato come se avesse paura di vederla scappare, se non l'avesse stretta a sé di continuo, si era messa nel corridoio, su una delle sedute di pietra, nella speranza di scampare un po' all'afa.

Era uno dei punti più freschi della rocca, eppure anche lì non si respirava. Il bambino, comunque, era riuscito ad addormentarsi e la Tigre l'aveva lasciato fare, tenendolo tra le braccia con una certa dolcezza, cercando di lasciarlo riposare.

L'ideale, gliel'aveva detto anche il suo medico, sarebbe stato tenerlo a letto, tranquillo, ma quel piccolo diavolo d'un Medici non ne voleva sapere e così la madre si era adattata.

Le finestre che davano sul cortile d'addestramento erano aperte e così, assieme all'odore pungente di quel mezzogiorno, entravano le voci dei soldati e il clangore delle loro armi. La Sforza sapeva che tra loro c'era anche Galeazzo e, probabilmente, pure Bernardino. Però aspettò che fosse Giovannino a svegliarsi, attirato proprio dalla voce del fratello più grande.

Con delicatezza, Caterina gli diede un bacio sulla fronte e, con un breve sorriso, gli chiese se stava meglio, ben sapendo che il figlio avrebbe risposto – come in effetti fece – con un gorgoglio poco articolato, che, però, di norma indicava un discreto benessere.

Così, stringendolo al petto, protettiva, si avvicinò alla finestra e si mise a guardare in basso. Era stato proprio Galeazzo a lasciarsi andare a un grido di trionfo, dato che il suo sfidante, un grosso soldato sulla ventina, era in terra e stava cercando di rialzarsi, una mano sull'addome, dove, probabilmente, era stato colpito.

“Hai visto che bravo, tuo fratello?” chiese la Leonessa, parlando nell'orecchio di Giovannino che, attirato dal rimbombo delle armi e dal vociare dei soldati, si era fatto attento come un grillo.

In un atto di ammirevole correttezza, il Riario si era proteso per aiutare il suo sfidante a rialzarsi e in quel momento la Contessa vide finalmente anche Bernardino che, in un angolo ombreggiato, osservava il fratello maggiore senza però prendere parte attiva all'addestramento. Se assomigliava a suo padre quanto la Sforza temeva, probabilmente si era tirato indietro per non sudare troppo.

“Mi raccomando, Galeazzo!” disse a voce molto alta la donna, sporgendosi dalla finestra per farsi vedere: “Non essere troppo duro coi nostri soldati, o non avremo uomini da mandare ad ammazzare i francesi!”

Il Riario, gonfio d'orgoglio per la battuta della madre, aveva sollevato lo sguardo verso di lei per poi esibirsi in un inchino tanto formale dall'apparire ridicolo. Anche gli altri soldati accolsero quell'intervento della Tigre con spirito cameratesco. Di rimando, Caterina si lasciò andare a una risata liberatoria, di quelle che le uscivano spesso, quando stava in mezzo alle sue truppe.

Era qualcosa di profondo, per quanto il più delle volte il riso fosse suscitato o da battute molto volgari o, al contrario, da motti nemmeno troppo spiritosi. Era semplicemente la sensazione di fondo a farla stare bene. Era come se, in mezzo agli armigeri, si sentisse davvero a casa, lontana dal giudizio di chiunque, in un certo senso, al sicuro.

Era ancora scossa dall'ultimo sprazzo di risata, quando sentì la voce del castellano chiamarla. Il tono non le piaceva. Aveva imparato, negli anni, a capire in anticipo quando Cesare Feo aveva qualcosa di brutto da dirle.

“Cosa c'è?” chiese, ritirandosi dalla finestra e facendosi seria.

L'uomo portava sotto al braccio un plico di fogli e le stava porgendo una lettera: “Sono arrivati adesso con una staffetta veloce. Dovete leggere subito, dice.”

Senza farselo ripetere, Caterina, ignorando le proteste di Giovannino, mise il figlio seduto sulla panchetta di pietra e prese subito la lettera. Era di Pirovano. Le annunciava che assieme alla missiva le sarebbero arrivate le carte di convocazione per il processo, che sarebbe stato celebrato il 14 agosto a Castrocaro.

La Tigre bestemmiò a voce bassa, poi, dopo un solo momento di smarrimento, in cui l'occhio le cadde sul suo ultimogenito, che la fissava perplesso, disse: “Convocate Numai, Aspini, e l'Oliva. Li voglio tra meno di dieci minuti nel vostro studiolo. Fate presto.”

 

Pandolfo si morse l'unghia del pollice, guardando il suo cancelliere con gli occhi iniettati di sangue.

Non aveva dormito, quella notte, e nemmeno quella prima. Quando non era l'ansia a tenerlo sveglio, ci pensava sua moglie Violante, che non faceva altro che dargli il tormento con i suoi consigli.

“Accettate.” gli disse il messo veneziano che stava accanto al cancelliere e che cominciava a essere stanco dell'incostanza del riminese: “Vi prego accettate e basta, non ne caverete di meglio.”

“Ma io – cominciò a dire il Malatesta, spostandosi dalla fronte una ciocca di unti capelli neri – ho espressamente chiesto almeno cinquecento ducati.”

“E il Doge, invece, vi concede di partire per il campo, come voi volete, ma a un prezzo inferiore, non è difficile da capire.” perse la pazienza il veneziano: “Ragionate! Se resterete ancora a lungo a Rimini, saranno i vostri stessi sudditi a farvi la pelle, alla fine. Cento lance e venticinque cavalleggeri sono anche troppi, per l'apporto che darete alla guerra!”

Il Pandolfaccio si accigliò chiudendosi per qualche istante nei suoi pensieri. Continuava a tornare con la mente alla sera prima, quando, inutilmente, aveva cercato l'appoggio di sua moglie, sentendosi sempre e solo dare dei consigli che non voleva sentire.

“Lascia stare i soldi – gli aveva detto, cercando di tenerlo a distanza mettendo tra loro la sedia del suo scrittoietto – vai al campo, invece, approfittane! I riminesi stanno facendo pressioni da settimane, per convincere Venezia a lasciarti andare e tu non te ne sei nemmeno accorto!”

“Ma se me ne vado – aveva ribattuto il Malatesta, aggirando subito la sedia e fronteggiando Violante – faranno un colpo di mano e mi strapperanno Rimini!”

“Qui resterò io.” aveva subito proposto la Bentivoglio, e il marito sapeva che ne avrebbe avute le capacità.

In realtà il Pandolfaccio preferiva i campi militari alla vita di palazzo. Si era sempre annoiato tra feste, banchetti e affari di Stato. Però non voleva lasciare sua moglie da sola, si fidava troppo poco, ormai, per permetterle di fare quello che voleva con chi voleva.

“Se solo non avessi continuato a importunare le ragazze di Rimini, nessuno ti avrebbe avuto così in odio.” aveva soggiunto la donna, rabbuiandosi.

Quel commento aveva fatto scattare una molla nel Malatesta che, con un gesto repentino, le aveva afferrato i polsi e aveva subito cercato di piegarla al suo volere: “Se solo tu non continuassi a rifiutarmi, non avrei bisogno di cercare contadine e popolane.”

“Smettila!” aveva provato a difendersi lei, mentre il marito la gettava sul letto, immobilizzandola e sollevandole le vesti: “Smettila! Sono incinta! Non così! Potresti fare del male a tuo figlio!”

“Anche l'altra volta dicevi di essere incinta – era stato il basso ringhio del Pandolfaccio, che non aveva alcuna intenzione di fermarsi – e poi non era vero niente.”

“Quindi partirete tra un paio di settimane per il campo preposto all'attacco di Cotignola.” concluse il messo veneziano, che, mentre il signore di Rimini si perdeva nei ricordi della notte appena trascorsa, aveva continuato a parlare: “Accettate e non se ne parli più.”

Stordito, più dalla memoria di quello che aveva fatto a Violante, il ventiquattrenne si trovò ad annuire in silenzio. Il suo cancelliere, molto sollevato, sorrise all'uomo del Doge e cominciò subito a discutere con lui i dettagli di quell'ingaggio.

Pandolfo, invece, era ancora ancorato all'immagine di sua moglie che, lo sguardo freddo e distante, lo guardava mentre si rivestiva e gli diceva, in un sussurro gelido: “Vorrei davvero non essere incinta, solo per non dare al mondo un altro mostro con il tuo sangue nelle vene.”

 

“Sì, sì, vado subito a farmi dare i documenti.” disse l'Oliva: “Anche il certificato di battesimo del piccolo, non si sa mai.”

“Sì, dobbiamo arrivare a Castrocaro con tutto.” confermò la Tigre, seduta sulla poltrona che un tempo era stata di Giacomo.

“Siete sicura che sia prudente, arrivare a pubblicare il matrimonio?” chiese Numai, pensoso.

Era già quasi sera. Il discorso si era protratto a lungo e la Contessa voleva che non ci fossero dettagli lasciati al caso. Nel giro di poche ore avrebbero dovuto essere al processo, e per allora doveva essere tutto pronto.

Fu Spinunccio Aspini a rispondere al posto della Sforza: “Siamo costretti. Lo esibiremo solo se strettamente necessario, ma mi aspetto da un legale come Aldrovandini una richiesta del genere. In fondo, è la carta migliore che possano giocare, se sono davvero convinti che la nostra signora non arriverebbe a rischiare lo Stato per tenersi suo figlio.”

Luffo gli diede ragione e, mentre l'Oliva chiedeva di nuovo congedo e lasciava lo studiolo per correre in chiesa a recuperare i documenti necessari, la Leonessa soggiunse: “Io credo che Lorenzo sia in buona fede, quando pensa che io non abbia mai sposato Giovanni.”

“Ancora meglio, lo sorprenderemo di più.” la incoraggiò Spinuccio.

Caterina pensò a Giovannino, a come avesse dovuto aspettare Bianca, per poterlo lasciare e andare a discutere con i suoi consiglieri. Se si dimostrava così riottoso a starle lontano, accettando come ripiego a malapena la sorella, come avrebbe reagito, se per caso il Medici fosse riuscito a strapparglielo?

“Con permesso – disse piano Aspini – vado a preparare gli ultimi documenti, così domattina avrò tutto quanto.”

La Tigre lo salutò e poi, rimasta sola con Numai, si mise una mano sul volto e chiese: “Credete che ce la faremo?”

“Siete la legittima tutrice di vostro figlio.” annuì lui, convinto, avvicinandolesi e osando metterle una mano sulla spalla, con fare paterno: “Siete la vedova di Giovanni Medici. Nessuno potrà negare queste evidenze, quando produrrete i documenti del caso.”

“Però è vero che pubblicando le nozze rischierei di vedere il mio Stato minacciato.” soppesò lei, con voce sottile, come se in fondo si vergognasse di quel pensiero.

“Il papa, sulla carta, vi ha già tolto lo Stato, eppure siete ancora qui.” la rinfrancò Luffo: “Vi hanno scagliato contro eserciti, vi hanno ucciso due mariti e un amante, vi hanno imprigionata e hanno attentato alla vostra vita, eppure siete ancora qui.”

Caterina aveva capito l'intento del suo Consigliere, tuttavia quell'elenco aveva solo avuto un effetto deprimente sul suo umore. Era stato come ricordarle tutte le sventure che avevano funestato il suo governo. Il fatto, pensava, che fosse ancora al timone della nave, significava solo che era stata più fortunata e testarda di altri.

“Forse faremo meglio a ritirarci...” concluse la donna, non volendo più parlare: “Dobbiamo mangiare qualcosa e riposare. E voi dovete ancora avvisare tutti quelli che verranno con noi, quindi...”

L'uomo chinò appena il capo e andò verso la porta, capendo che la sua signora desiderava restare sola.

Appena prima di lasciarla, però, fu colto da un pensiero improvviso e disse: “Se ci fosse bisogno di pagare qualcosa, domani...”

“Ci ho già pensato. Sarà mio figlio, il mio garante, così useremo solo i miei soldi personali e, se ce ne sarà bisogno, impegnerò dei gioielli. In fondo, ho giurato che li avrei usati per tenere al sicuro i miei figli.” spiegò subito lei e, con un eloquente cenno con la mano, fece capire al forlivese di andare pure.

Caterina restò ancora una mezz'ora seduta in poltrona a pensare. Aveva paura, non poteva negarlo.

Anche se si era aspettata, prima o poi, quella convocazione, vedersela recapitare tanto all'improvviso e con così poco preavviso era stato un pugno nello stomaco. Aveva paura dell'esito del processo, perché non si fidava di Lorenzo Medici. Era un uomo subdolo, quello l'aveva capito subito, e temeva che, pur di raggiungere il suo scopo, avrebbe potuto commettere qualche scorrettezza imprevedibile.

Pirovano, nella lettera di accompagnamento alla convocazione, le aveva scritto di stare attenta e si era scusato di non poter essere accanto a lei, perché proprio il giorno della sentenza sarebbe stato impegnato alla Signoria per la questione della condotta di Ottaviano. Un tempismo, anche quello, che aveva lasciato la Contessa molto perplessa.

Avrebbe voluto avere accanto a sé almeno Giovanni da Casale. Si sentiva sola, senza un reale appoggio. Anche se la maggior parte dei suoi figli adesso faceva quadrato con lei, in questioni importanti, la sua sensazione di instabilità non migliorava comunque.

Rendendosi conto che restare lì immobile a rimuginare le avrebbe solo fatto male, la Tigre alla fine lasciò la sua postazione e scese nella sala dei banchetti. Anche se a tavola c'erano Galeazzo e Bernardino, che da come la guardavano di quando in quando dovevano essere stati informati di quanto accaduto, la Contessa restò in disparte, senza parlare con nessuno.

Provò a mangiare, ma si accorse di avere lo stomaco completamente chiuso. Riuscì a malapena a bere un paio di calici di vino, ma anche quello scese nella gola a fatica.

Quando fu certa di non essere in grado di mangiare o bere altro, lasciò la tavola, sempre senza cercare il contatto di nessuno e andò in camera. Si mise a letto ancora vestita, con la finestra spalancata per cercare di raffrescare un po' l'ambiente, ma di fatto l'afa era pressante come in pieno giorno, quella sera. Prese il Decamerone, ma, più si sforzava di perdersi nella trama delle novelle che aveva amato di più, più il ricordo di Giovanni si faceva presente e difficile da gestire.

Avrebbe voluto andare nella stanza del figlio, coccolarselo un po', parlargli di suo padre, studiarne i lineamenti per ricordarseli per sempre, ma una sorta di innata scaramanzia la portava a evitare quello che sarebbe sembrato un addio.

Abbandonata la lettura, spense le candele e, rigirandosi nel letto, capì che non sarebbe riuscita a chiudere occhio. Se solo avesse avuto accanto a sé Pirovano, avrebbe avuto qualcosa da fare per scaricare la tensione e ingannare l'attesa.

Si mise seduta, poi in piedi, vagando come un'anima in pena, i morsi del suo corpo che si mescolavano ai graffi della sua mente, torturandola. Alla fine, non avendo alcuna voglia di farsi vedere in quello stato da uno dei suoi soldati, scrisse un breve biglietto, uscì in corridoio e cercò un servo.

Gli spiegò dove dovesse portare il messaggio e specificò: “Devi dire alla sua padrona che se è già impegnato, lo pago il doppio. Basta che sia qui il prima possibile.”

A quel punto, andò nella sua tana, accese un paio di candele e cambiò l'aria, aprendo la finestra.

Vide che Argentina aveva messo sul mobile una caraffa di vino nero e due calici. Era stata previdente. Era in quei dettagli che si riconosceva una buona cameriera personale. Oltre a rifare la camera, dimostrava sempre una grande attenzione alle possibili esigenze della sua signora.

Dopo aver bevuto appena due dita di vino, Caterina si mise ad aspettare, senza pazienza, come se ogni minuto fosse un'eternità.

Il ragazzo del postribolo arrivò molto prima di quanto avesse sperato. Aveva bussato, con discrezione e appena lei aveva aperto, era entrato, in silenzio, guardandola di sottecchi, lo spettro del loro ultimo incontro che aleggiava ancora sopra di lui.

Caterina lo osservò con attenzione. Indossava i soliti abiti un po' pacchiani, troppo vistosi, tanto indiscreti da far intuire subito quale fosse la sua occupazione. Se avesse avuto dei vestiti più sobri, normali, magari anche modesti, sarebbe stato solo un bel ragazzo. Mentre conciato a quel modo, nessuno avrebbe avuto dubbi su cosa fosse.

“Hai ancora paura di me?” chiese la donna, posandogli una mano sul petto e avvertendo in lui un breve tremito.

Gli occhi chiari del giovane si persero nei suoi, come cercando una risposta e poi il ragazzo la baciò con furia, con una fretta che rispose alla domanda senza bisogni di parlare.

La Tigre sentiva il desiderio dell'uomo che aveva davanti e capiva che, se anche un po' di paura gli fosse rimasta in corpo, era stata ampiamente sconfitta dalla voglia di averla di nuovo e tanto le bastava.

Mentre lo svestiva, lasciando che lui facesse altrettanto, la Sforza spense la mente, mise a tacere tutte le preoccupazioni e si perse del tutto in quello che stava facendo. Avrebbe voluto illudersi che l'uomo che stringeva a sé, che la baciava il collo e il seno, che respirava con forza sulla sua pelle, fosse Giovanni, ma era impossibile ritrovare il suo ultimo marito negli assalti famelici e disperati di quel ragazzo.

Le fu più facile immaginare che fosse il suo Giacomo, così giovane e forte, ma anche in quel caso, dopo poco, la rabbia che gli riversò addosso le fece comprendere che non poteva riecheggiare a quel modo nemmeno il grande amore della sua vita.

Per dar sfogo alla sua collera, sempre presente e sempre difficile da contenere, alla frustrazione, alla stanchezza e alla paura, legata soprattutto a quello che sarebbe successo il giorno dopo, si impose su di lui con prepotenza, dando forma alla passione con graffi e morsi, gesti e movimenti che nulla avevano di dolce e di amorevole. In quel momento, per lei, il ragazzo che arrancava per starle dietro mentre lei pretendeva sempre di più, era solo un oggetto.

E nella stessa ottica, quando fu stanca di lui, gli diede un ultimo morso, sulla pelle sudata della spalla e poi, quasi senza preavviso, si divincolò dalla sua presa e gli disse: “Basta così.”

Il giovane, abituato a sottostare a quello che gli veniva richiesto senza fare domande, non riuscì a trattenersi e, cercando di riafferrarla, le disse: “No, ti prego...”

“Ho detto basta così.” intimò la donna, sorvolando, in virtù del momento concitato, sul fatto che il suo amante le avesse dato del tu.

Così egli si arrese, restando steso accanto a lei, ancora insoddisfatto, confuso, ma abbastanza stremato da non aver la forza di ribattere ancora.

“Puoi restare a dormire, se vuoi.” sussurrò piano lei, alzandosi un momento, per andare a versarsi da bere: “Tanto pagherò la tua padrona abbastanza da averti per me tutta la notte.”

Il giovane non ribatté, ma, gli occhi che seguivano la figura sinuosa della Tigre, si sistemò meglio, passandosi una mano tra i capelli rimasti incollati alla fronte per il sudore e, mentre la donna ancora beveva, si assopì.

Era difficile, per lui, trovare un momento di vera tranquillità e, per quanto quella serata si fosse conclusa in un modo un po' strano, e anche se la Contessa a tratti lo spaventava davvero, si sentiva abbastanza al sicuro da potersi concedere un sonno ristoratore come non gli capitava da tempo immemorabile.

Caterina lo sentì respirare più lentamente e capì che si stava addormentando. Lasciò che il vino nero le bruciasse la gola e poi, con lentezza, si andò a stendere accanto a lui.

Una mano sul ventre, mentre l'aria – che finalmente si stava rinfrescando un po' – della notte le asciugava il sudore addosso, dandole la sensazione di avere un po' meno caldo, la donna fece un respiro tremulo e si mise a fissare il soffitto.

Seguendo un filo sconnesso di pensieri, arrivò a dirsi che in un palazzo nobiliare, come anche era quello che ancora possedeva a Forlì, un letto del genere non sarebbe stato ritenuto consono. Era poco più che un lettuccio da soldati, senza gradino, senza baldacchino, quasi senta testata. Anche le lenzuola erano morbide, di buona fattura, ma non avevano nulla a che vedere con quelle ricamate o di seta che aveva avuto a Roma.

Non le importava, però. Così come non credeva che crescere in un ambiente così poco raffinato stesse facendo male ai suoi figli. Uno stile di vita così tutto sommato semplice, per la loro estrazione sociale, alla fine avrebbe giovato a tutti loro.

Con un mezzo sorriso triste, la Sforza si trovò a ricordare dei pollai del palazzo di Porta Giovia, così vicini alle stanze nobili che non era infrequente essere soprappensiero e trovare una gallina raminga che si era fortunosamente infilata in camera.

Ripensando alla sua infanzia, alle battute di caccia con il padre nei boschi del pavese, alle cavalcate, alle prime lezioni di spada, finì a provare una nostalgia immensa. Non solo di Milano e della sua famiglia, ma di quella che lei era stata, prima di imbattersi in Girolamo Riario.

Con il fiato che si faceva corto, si mise a sedere sul letto. Il ragazzo del bordello dormiva ancora profondamente. Lo guardò nella luce incerta della luna e delle candele. Lo vide più giovane di quello che forse era. Le fece quasi tenerezza. Era un sentimento che non provava da tanto tempo, nei confronti di un uomo, e un po' la sorprese.

Anche lui, pensava, era stato venduto da piccolo, e avevano continuato a venderlo, senza che trovasse il modo di cambiare il suo destino. Si meritava qualche ora di sonno tranquillo.

Sapendo che, malgrado tutto, non avrebbe davvero chiuso occhio, quella notte, la Tigre si alzò con lentezza, si infilò l'abito che era stato buttato in terra e uscì dalla stanza.

Fece una breve sosta nella sua camera ufficiale per sistemarsi e usare il vaso da notte e poi, seppur con una certa ritrosia, andò da Giovannino.

Dormiva profondamente, così come la balia che avrebbe dovuto controllarlo. La Contessa gli si sistemò accanto e, insonne, lo vegliò fino all'alba.

Ai primi raggi di sole, quando Bianca arrivò nella stanza del fratellino, per controllare come stesse, lo trovò in braccio alla madre. La bambinaia era uscita e la Sforza stava raccontando al figlio uno degli episodi che più avevano segnato la sua fama, da giovane: la presa di Castel Sant'Angelo.

“Con me – stava dicendo la donna, con il piccolo Medici che l'ascoltava rapito – c'era anche tuo fratello Livio, era nella mia pancia, e Roma è stata nostra, mia e sua, anche se per pochi giorni.”

“Madre.” la salutò la Riario, avvicinandosi con lentezza: “Ho visto che si stanno già preparando per andare a Castrocaro...”

“Lo so, lo so... Adesso vado a prepararmi anche io.” fece lei, alzandosi e porgendo il bambino alla figlia.

Giovannino si aggrappò a Bianca, ma poi tese ancora la mano dai ditini tozzi verso la madre.

Questa gli sorrise, gli diede un bacio sulla fronte e gli promise: “Ti tengo con me, a qualsiasi costo.”

Anche la ragazza aveva sentito e, tenendo stretto il fratellino, guardò la madre uscire. Poi, anche lei diede un bacio a Giovannino e sospirò.

“Nostra madre dice davvero, quando fa queste promesse.” gli assicurò: “Io dovevo andare a Faenza anni fa, eppure sono ancora qui. Vedrai che riuscirà a tenerti stretto a lei. Non c'è nulla di più caparbio e pericoloso di una Tigre che difende i propri cuccioli.”

 
 
   
 
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