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Autore: Adeia Di Elferas    30/05/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Bianca aveva fatto tardi senza rendersene conto. Dopo cena, era stata nelle cucine a chiacchierare con la cuoca e una delle serve che erano di riposo e poi, proprio quando aveva deciso di ritirarsi per la notte, una delle sguattere, con cui aveva legato abbastanza, benché avessero qualche anno di differenza, l'aveva vista e fermata.

L'aveva portata un attimo nella dispensa, per poter parlare senza che nessuno le sentisse, e l'aveva messa a parte di un bruttissimo episodio capitato quel pomeriggio.

La giovane, le aveva raccontato, era intenta a pulire della verdura che sarebbe servita poi alla cuoca quella sera, quando aveva sentito dei rumori. Pensando si trattasse di un'altra sguattera, aveva continuato il suo lavoro senza nemmeno sollevare lo sguardo ed era stato a quel punto che aveva sentito qualcuno afferrarla da dietro e cercare, maldestramente, di sollevarle le gonne.

Di riflesso, terrorizzata, ma non per questo incapace di difendersi, era riuscita a voltarsi, pur non vincendo la stretta dell'aggressore, e a puntare il coltellaccio che aveva in mano alla gola dell'uomo che stava cercando di prenderla con la forza.

Quando aveva capito che l'uomo altri non era se non il figlio primogenito della Tigre, le si era doppiamente gelato il sangue nelle vene e aveva scostato un po' il coltello. In quel momento, la paura per una punizione esemplare, nel caso l'avesse per errore ferito, o, peggio, ucciso, era stata più forte della paura della violenza.

Tuttavia il Riario non era, notoriamente, un cuor di leone e la reazione repentina della giovane l'aveva spiazzato tanto da farlo subito desistere e scappare via.

Bianca aveva ascoltato tutto quanto in silenzio, sentendosi via via più in collera con il fratello. Non era la prima volta che lo sapeva intento a simili azioni, ma pensare che avesse osato allungare le mani su una donna che lavorava per loro e che – Ottaviano lo sapeva benissimo – era anche una sua amica, le aveva fatto provare una rabbia difficile da contenere.

Siccome, comunque, la sguattera era riuscita a cavarsela bene, la Riario aveva cercato di moderarsi, l'aveva ascoltata ancora per un po' e l'aveva rassicurata, dicendole che avrebbero trovato il modo per tenerla al sicuro.

“Anche se – aveva soggiunto, sollevando un sopracciglio – non credo che mio fratello ci proverà mai più, calcolando che gli hai puntato un coltello alla gola.”

Così, con lo stomaco ancora stretto in una morsa di collera, Bianca stava per raggiungere la sua stanza, divorata dall'incertezza. Non riusciva a decidersi se dire qualcosa a sua madre o no, quando fosse tornata da Forlimpopoli. Da un lato, avrebbe voluto farlo per fermare Ottaviano e nella speranza che venisse punito. Dall'altro, era convinta che sua madre sapesse già benissimo cosa facesse il suo primogenito e, quindi, anche fare la spia, non le sarebbe valso a nulla. Anzi, avrebbe potuto ritorcerlesi contro. C'era stato un momento, quattro anni prima, in cui la Riario avrebbe dovuto fare da delatrice, e non l'aveva fatto. Forse anche sua madre avrebbe fatto quel collegamento mentale e avrebbe finito per ricordare cose che era meglio per tutti dimenticare.

Le bastava il senso di colpa che si portava appresso costantemente, senza bisogno di rinverdire nella Tigre un astio che la stessa Contessa aveva deciso di non sfogare.

Bianca era quasi arrivata davanti alla sua stanza. Avrebbe voluto passare un momento da Giovannino, ma era troppo tardi. L'avrebbe solo svegliato e poi avrebbe dovuto restare con lui finché non si fosse riaddormentato.

Quel giorno, siccome la madre era partita per Forlimpopoli prima del pomeriggio, il piccolo si era aggrappato alla sorella come a uno scoglio in mezzo alla tempesta e la Riario era riuscita a sganciarsene solo a sera fatta. Anche se lo adorava, voleva un po' di tempo per sé.

“Dov'è nostra madre?” la voce di Ottaviano, sepolcrale, fece voltare di scatto la giovane che lo vide in un angolo di penombra del corridoio.

Sicuramente era lì da prima, ma non lo aveva notato. Le si stava avvicinando, trasandato e dal passo strascicato, come quando rientrava alla rocca dopo una notte di eccessi.

“Perché me lo domandi?” fece di rimando la Riario, mettendo una mano sulla porta della propria stanza, come a cercare una rassicurazione: “Hai paura che qualcuno le vada a dire quello che hai cercato di fare alla mia amica?”

“Quella pazza aveva un coltello!” esclamò allora il Conte, sgranando gli occhi cerchiati e molto arrossati: “Poteva ammazzarmi!”

“Lavora in cucina, ovviamente aveva un coltello.” ribatté la sorella, sollevando appena il mento, cercando di portarsi il più possibile all'altezza di Ottaviano: “E avrebbe fatto meglio a usarlo.”

“Mi ha minacciato.” disse il Riario, facendosi più serio, assumendo un'espressione di finta sicurezza di sé che Bianca ricordava di aver visto tante volte sul viso del loro signor padre.

“E quindi cercavi nostra madre per andare da lei a denunciare quello che ha fatto la mia amica?” si informò la ragazza, con una mezza risata di sberleffo: “Immaginati come ne sarebbe felice, nostra madre, se le dicessi che una donna su cui stavi per usare violenza è stata a un passo dall'ucciderti.”

“Non è divertente, Bianca.” la riprese il fratello, sollevando un dito e puntandoglielo contro, mentre nella sua gola il pomo d'Adamo scendeva e saliva irrequieto.

“Lo so anche io che non c'è niente di divertente in tutto questo.” fece lei: “E tu non toccare mai più nessuna delle donne che vive in questa rocca, o giuro che dirò tutto a nostra madre e questa volta non sarà magnanima, con te. Aspetterò il momento giusto. Rivedrà in te nostro padre una volta di più e non avrà pietà.”

Quella minaccia, detta con voce sottile e tranquilla, ebbe un effetto profondo sul Riario che, dopo un ultimo sguardo alla sorella, si trovò a crederle.

Retrocedendo di mezzo passo, fu sul punto di andarsene senza aggiungere altro, ma il senso di inferiorità che stava provando, lo portò ad attaccare, a dare un ultimo morso, come una preda già sconfitta che vuole almeno ferire il suo avversario.

“Tu fai tanto la figlia perfetta, l'orgoglio di nostra madre, con le tue lezioni di cucito e il tuo farti vedere sempre affettuosa con i nostri fratellastri, ma anche tu sei da biasimare!” disse Ottaviano, scoprendosi molto più teso di quanto non credesse, mentre la voce gli tremava nel proseguire: “Io ti ho visto, l'altra sera, vicino alle scale, con uno...”

Bianca sentì il sangue gelarsi nelle vene. Era sicura che nessuno li avesse visti. Si era appartata con un soldato con cui a volte si fermava a chiacchierare, la sera, e avevano scelto un posto tranquillo, riparato, vicino alle scale meno usate della rocca. Evidentemente, però, qualcuno li aveva spiati.

“Ci stavamo solo baciando.” si difese la ragazza, che, già nel dire quelle poche parole, avvertiva quanto fosse assurda quella situazione.

“Non vi stavate solo baciando.” insistette lui: “Ho visto benissimo dove avevi le mani, e anche dove le aveva lui.” il Riario si era reso conto di aver toccato un tasto delicato e provava uno strano compiacimento, nel vedere la sorella tanto in difficoltà.

“Ti ricordo che tu hai già una figlia.” ribatté la giovane, non appena riuscì a rimettere in ordine i pensieri: “Una figlia che non hai nemmeno mai visto.”

Come tutte le volte in cui si fermava a ragionarci, Ottaviano avvertì una breve vertigine. Non era nemmeno sicuro che Cornelia fosse l'unica creatura nelle cui vene scorresse il suo sangue, ma non voleva nemmeno saperlo, se in giro c'erano altri figli suoi. Lo spaventava a morte, l'idea che esistesse sulla Terra qualcuno che era venuto al mondo per causa sua. L'unica via d'uscita dal panico che ogni volta provava era semplicemente schermirsi dietro realtà oggettive.

“Le passo un vitalizio.” disse quindi: “Provvedo a lei.”

“E hai pensato a cosa farne di lei, quando noi saremo costretti a scappare?” lo incalzò Bianca, che, nel essersi sentita attaccata in modo tanto basso, non vedeva l'ora di ripagare il fratello con la medesima moneta.

“Io...” boccheggiò lui: “Scappare..? E quando dovremmo scappare, noi?”

“I francesi non si accontenteranno di Milano, e lo sapresti, se ti degnassi di interessarti anche solo un po' di quello che succede nel mondo.” tagliò corto la sorella, scuotendo il capo e aprendo già la porta della sua stanza: “Fossi in te, se hai ancora un briciolo di dignità, cercherei un posto sicuro per quella povera bambina...”

Il primogenito della Tigre stava boccheggiando. In quel momento alla Riario non pareva un uomo di vent'anni, ma un ragazzino spaventato e basta. Avrebbe anche provato pena per lui, se non avesse avuta ben presente tutta la sofferenza che lui da solo era riuscito a causare.

“Passa una buona notte e non osare mai più fare commenti su come mi comporto.” concluse Bianca, alzando una mano.

Il giovane era ancora spaesato e frastornato, e il vino che gli rigirava lo stomaco non lo aiutava a sentirsi meglio, quando dei passi veloci fecero voltare verso l'angolo del corridoio sia lui sia la sorella.

“Madonna Bianca, Messer Ottaviano...” il castellano ci mise qualche istante a riprendere fiato e poi, rivolgendosi alla Riario, spiegò: “Non trovo Bernardino. Non è rientrato alla rocca, questa sera e non so dove sia... Ho paura che gli sia capitato qualcosa... Sapete che spesso si lascia trascinare in cose che...”

Siccome Ottaviano, nel sentir nominare il fratellastro, aveva gettato gli occhi al cielo, fu Bianca a prendere in mano la situazione, come, d'altronde, si aspettava Cesare Feo.

“So che è stato fino all'ora di cena con Galeazzo... Vado a chiedere a lui.” propose, richiudendo in fretta la propria camera e spostandosi di qualche porta, per andare dal fratello.

Approfittando della distrazione degli altri due, il Riario più vecchio si defilò, del tutto disinteressato alle sorti del fratello che non aveva mai considerato tale.

Galeazzo le aprì quasi subito. Era già in veste da camera e visto come gli occhi verdi fossero cisposi di sonno, era probabile che stesse dormendo almeno da un paio d'ore. Il castellano gli spiegò in fretta quel che era successo e Bianca gli chiese dove fosse Bernardino, l'ultima volta che l'aveva visto.

“Siete sicuri che non è rientrato?” domandò Galeazzo, stropicciandosi il viso e cercando di tornare in fretta presente a se stesso: “Perché a volte si nasconde in dispensa o...”

“Non è rientrato.” ribadì Cesare, sempre più preoccupato.

“Forse so dov'è...” concluse il Riario, ripensando all'atteggiamento degli ultimi giorni di Bernardino.

L'anniversario della morte di Giacomo Feo si stava avvicinando e il bambino sembrava non riuscire a pensare ad altro. Si era fatto irrequieto e più schivo del solito e Galeazzo era praticamente l'unico, tra i fratelli, con cui cercasse un contatto, escluso Giovannino che, però, era troppo piccolo per potergli dare un effettivo conforto.

“Vado a cercarlo...” si propose il ragazzino e tornò in camera per vestirsi.

Il castellano e Bianca, che, l'uno per obbligo, l'altra per prudenza, non poteva uscire dalla rocca a quell'ora, lo pregarono di fare in fretta e di tornare subito, se non l'avesse trovato facilmente, così da poter mandare qualche soldato a setacciare i bassifondi, dove spesso il bambino si infilava per giocare o fare a botte.

Galeazzo annuì e partì veloce come un fulmine. La notte era calda e profumata e, via via che si addentrava nei vicoli di Forlì, si faceva sempre più misteriosa. Era passato molto tempo dall'ultima volta che aveva visto la città a quell'ora, e in quell'occasione era assieme ai fratelli, di ritorno dalla festa a casa Numai.

C'era qualcosa, nelle voci che uscivano dalle osterie e dai postriboli, che lo attirava, ma che, allo stesso tempo, lo spaventava. Cercò di non pensarci e di concentrarsi sul proprio compito. Così, appena addentratosi un po' nel cuore di Forlì, si diresse senza indugio alla chiesa di San Girolamo.

Varcò l'ingresso con passo felpato, come se avesse paura di disturbare quell'angolo di quiete. C'era un odore un po' spento di incenso e la luce di un centinaio di candele in tutto dava alla navata centrale un'illuminazione quasi irreale.

Galeazzo sentiva i proprio passi rimbombare nel silenzio e drizzò le orecchie, nell'attesa di sentire qualche suono che rivelasse la presenza di suo fratello.

Finalmente, quasi arrivato alla cappella dei Feo, sentì qualcuno piangere sommessamente e capì di aver indovinato dove fosse Bernardino.

Il bambino era rannicchiato sotto la lapide del padre e teneva il viso nascosto tra le braccia. Il maggiore si avvicinò circospetto e poi si accucciò accanto a lui.

Il Feo sollevò finalmente lo sguardo e, nel trovarsi davanti il fratello, ebbe un moto d'orgoglio, asciugandosi le lacrime con la manica.

“Sono tutti preoccupati per te.” disse piano Galeazzo, le iridi verdi che incrociavano quelle del più piccolo: “Vieni, torniamo a casa.”

Bernardino, che aveva passato una giornata infernale, avrebbe solo voluto farsi prendere in braccio e farsi portare alla rocca senza dover dire o fare nulla. Però sapeva che il fratello non poteva certo esaudire quel desiderio e che, comunque, qualche domanda gli sarebbe stata fatta.

Così decise di anticipare l'interrogatorio, confessando: “Io non sapevo più dove stare... Non stavo bene da nessuna parte...”

Il Riario si morse il labbro, diede una sbirciata rapida alla tomba di Giacomo e poi, porgendo una mano al fratello, gli disse: “Lo so. A volte capita anche a me. Il trucco è imparare a convivere con quello che abbiamo dentro.”

Il bambino ascoltava rapito, come se dalle labbra di Galeazzo potessero solo uscire profondissime verità e così, convintosi fin troppo facilmente, prese la sua mano e si lasciò aiutare a rimettersi in piedi.

“Domani nostra madre torna?” chiese il Feo, mentre andava verso l'uscita della chiesa ancora mano nella mano con il fratello maggiore.

“Sì.” confermò il Riario, che ne era certo solo in parte: “E non le diremo nulla, della tua fuga, promesso.”

Rincuorato, il più piccolo ritrovò un mezzo sorriso e così, rassicurato dalla presenza di Galeazzo, che con i suoi quasi quattordici anni gli sembrava già un adulto, si calmò.

I due si avviarono verso Ravaldino per la via più corta, la stessa che il maggiore aveva fatto all'andata, ma, a un certo punto, il Riario notò qualcosa che prima non c'era.

Contro un muro, mezzo sdraiato c'era un uomo. Che fosse ubriaco o solo un mendicante, era difficile dirlo. Colto da un moto di umana pietà, il ragazzino volle accertarsi che non fosse un uomo in difficoltà e così, intimando a Bernardino di stare a debita distanza, gli si avvicinò.

Provò a chiamarlo, poi, vedendo che quello restava con il capo chino, coperto da un cappuccio di tela spessa, lo sfiorò. Quello cadde riverso di lato e Galeazzo capì subito che era morto.

Alla luce della luna lo guardò per un istante, e, quando vide i segni della peste sul suo viso, l'unica cosa che riuscì a fare fu voltarsi verso il fratello e gridare: “Corri! Corri! Torniamo a casa! Subito!”

 

Caterina strizzò gli occhi contro il sole, quando finalmente si trovò davanti la rocca. Il suo stallone sembrava impaziente, come se fiutasse qualcosa di strano nell'aria e pure lei, mentre entrava in città poco prima, aveva avuto l'impressione che vi fosse qualcosa di strano.

Mentre attraversava il ponte, accarezzando il collo nero del suo cavallo per tranquillizzarlo, la donna ripensò alla sua partenza da Forlimpopoli. Lei e Piero avevano chiacchierato per un po', avevano scherzato con frasi allusive riguardo quella notte e l'adeguatezza dello stalliere che il Landriani aveva gentilmente offerto alla sorella come passatempo, avevano assaporato ancora una volta la magnifica sensazione di avere un campo di intendimento comune, di poter dire tutto quello che volevano senza paura di essere fraintesi o giudicati con durezza, e poi si erano scambiati un lungo abbraccio, senza più bisogno di parlare.

La Sforza voleva essere ottimista, e aveva anche detto al fratello che di certo avrebbe trovato il modo di tornare da lui, nel corso delle settimane che li aspettavano, ma in verità temeva che quello potesse essere davvero un addio. Prima che le lacrime li cogliessero entrambi, aveva afferrato le briglie del suo stallone ed era montata in sella.

“Mia signora!” il Capitano Mongardini le corse incontro, non appena la vide: “Metto a posto io il vostro cavallo, voi andate subito dal castellano!”

“Cos'è successo?” chiese allora la Tigre, accigliandosi, convinta che, se fosse capitato qualcosa di davvero grave, Cesare Feo non avrebbe esitato a mandarla a chiamare, come da ordini stabiliti.

“C'è stato un morto di peste in città...” spiegò il soldato, mentre la Contessa smontava di sella e gli lasciava le redini: “Ma andate dal castellano, lui vi spiegherà tutto...”

Caterina, oltremodo preoccupata per quella novità, non perse tempo e corse nello studiolo, dove trovò non solo Cesare, ma anche suo figlio Galeazzo, con Bianca e Bernardino.

Il castellano si alzò subito dalla scrivania e le andò incontro, mettendosi a raccontare una storia confusa, riguardante Galeazzo e Bernardino, una loro uscita notturna per le vie di Forlì e un uomo morto lungo la strada.

Alla Sforza convinse poco tutta la cornice della storia, ma sapeva che la parte cruciale riguardava il morto di peste.

Così, senza porre indugi ulteriori, disse in fretta: “Convocate il mio Consiglio Ristretto, dobbiamo pensare ad alcune spese da fare e a mandare controlli in città... Voglio che sia presente anche Ridolfi. E Tornielli.”

Subito dopo congedò Bianca, pregandola di stare attenta a Giovannino e chiese anche a Bernardino di lasciarla sola con Galeazzo.

Il piccolo Feo guardò prima il fratello, quasi in cerca di qualcuno che lo spalleggiasse, ma poi rinunciò in fretta e, senza dire nulla, corse fuori dallo studiolo.

“Raccontami meglio cos'è successo stanotte.” fece la donna, guardando il quintogenito.

Il Riario le spiegò con calma tutto quanto, dalla scomparsa di Bernardino, al suo andarlo a cercare in chiesa. Sorvolò sul pianto del fratello e su quello che si erano detti, ma tornò a scendere nei dettagli quando parlò dell'appestato.

“L'hai toccato?” chiese la Leonessa, il viso incupito più da ciò che aveva sentito riguardo il figlio del suo grande amore, che non riguardo il morto.

Galeazzo annuì, ma precisò: “Appena rientrato, mi sono fatto preparare un bagno con i vostri sali e ho fatto fare lo stesso per mio fratello.”

“Bravo.” sospirò Caterina, incrociando le braccia sul petto e sbuffando.

Non aveva la testa, per occuparsi di un'epidemia in città. C'era in sospeso la questione di Giovannino, con l'arrivo di Pucci Puccio atteso a giorni, aveva una guerra tutt'altro che semplice da pianificare, sette figli – anzi, sei, dato che Cesare era a Roma – da gestire come meglio le riusciva, e una vita privata tanto ingarbugliata da farle quasi paura.

“Ascolta, Galeazzo...” disse, dopo un po': “Ti andrebbe di uscire nei boschi, domani, dato che è domenica?”

“Ne avete il tempo..?” chiese lui, non volendo darsi troppe speranze.

La donna alzò una spalla e sussurrò: “Il tempo ce lo metto. Non voglio impazzire e stare con te a caccia mi rilassa.”

Quell'ultimo inciso inorgoglì il ragazzino che, gonfiando un po' il petto, accettò: “Per me andrebbe benissimo, madre. Ne sarei felice.”

“Bene. Allora adesso vieni con me, presenzierai al Consiglio. E poi, domani all'alba, usciremo insieme a caccia.” trasse le somme la Tigre, cominciando già a pensare alla gestione di quell'epidemia che, se era già arrivata in città, probabilmente si apprestava a sfogare tutta la sua morbilità.

“Potrebbe venire anche Bernardino, con noi?” chiese il Riario, mentre usciva dallo studiolo assieme alla madre.

Questa si fermò un momento, lo fissò e poi, con un sospiro, scosse il capo: “No, voglio uscire nei boschi con te e basta.”

La verità, e se ne vergognava, era che in presenza del suo penultimo figlio la Contessa non riusciva a rasserenarsi, tutt'altro. Il semplice fatto di averlo vicino la rendeva irrequieta, non come quando era vicina a Ottaviano, tutt'altro... Se con il suo primogenito le si aggrovigliava nel petto un insieme bruciante di rancore e risentimento, con Bernardino l'insieme di emozioni che provava era molto più subdolo.

Il suo viso, bellissimo e sempre più simile a quello di Giacomo, la riportava indietro nel tempo, a quando aveva assaporato una parentesi di felicità, quasi di normalità, che poi aveva iniziato a deteriorarsi, finendo per sfociare nella più immane tragedia della sua vita. Avrebbe dovuto imparare a disgiungere tutti quei sentimenti da quello che avrebbe dovuto provare per il figlio, ma non ci riusciva.

“Come preferite, madre.” disse Galeazzo, senza provare a forzarle la mano.

“Oggi è il compleanno di Sforzino, vero?” chiese la donna, dopo un po', mentre raggiungevano la sala della guerra.

Lungo tutto il tragitto, complice l'innocente richiesta di poco prima del quintogenito, aveva cominciato a ragionare su tutti i suoi figli, non solo su Bernardino.

Il Riario annuì: “Sì, Bianca gli ha fatto una spongata speciale solo per lui e io gli prenderò dei biscotti, più tardi, in città...”

Caterina annuì, felice di sapere che almeno loro si erano ricordati per tempo di Sforzino. A lei, invece, quella ricorrenza era tornata alla mente per puro caso, e la consapevolezza di quel fatto la faceva stare più male di quanto non volesse ammettere.

Però, ormai nella Sala della Guerra, si disse da sola che in parte poteva ritenersi scusata, per quella leggerezza, con tutte le cose a cui doveva pensare quotidianamente.

“Perdonatemi...” Bianca fece capolino nella sala con in braccio Giovannino che, vedendo la madre, protese le piccola braccia, emettendo qualche suono disarticolato di pura gioia: “Vi cercava e...”

“Dammi qua...” soffiò la Tigre, andandole incontro e dando un bacio in fronte al figlio, prima di prenderlo: “E resta anche tu. Dato che di solito mi aiuti, in questo genere di faccende, è bene che anche tu senta come decideremo di muoverci, per sconfiggere questa peste...”

 
 
   
 
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