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Autore: Adeia Di Elferas    02/06/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Deve esserci un modo...” stava dicendo piano Lorenzo, scartabellando tra i documenti che aveva portato a casa da Castrocaro: “Quella cagna non può vincerla così...”

Semiramide, che era appena tornata al palazzo, dopo essere stata un momento in chiesa, sentì la voce del marito uscire dalla saletta e restò un momento in ascolto, per capire se fosse solo o in compagnia.

Da quando il marito era tornato da Castrocaro, l'Appiani poteva dire di non averlo nemmeno visto, altro che parlarci. L'aveva evitata a cena, le aveva fatto trovare la porta della sua camera chiusa, la notte e, quella mattina, quando lei si era svegliata ed era andata a cercarlo, le si era negato tramite l'interposta persona di uno dei loro servi.

“Dovevamo insistere...” continuava il Medici: “Ma adesso... Adesso... L'unica speranza è che non paghi la prima rata. Che poi, che si è deciso a fare, per rateizzare la cauzione... Quella donna è furba, troverà il modo per non darci nulla. Dovevamo chiederle tutto, sull'unghia.”

Semiramide attese di sentire qualcuno – magari il legale Aldrovandini – rispondere a suo marito, ma quando arrivò solo uno spesso silenzio, allora la donna si arrischiò a sbirciare oltre la porta socchiusa.

Scostandosi il velo che aveva messo in capo, soprattutto per proteggersi dai raggi solari di quel 17 agosto, aguzzò la vista e, scorto il Popolano seduto in poltrona con un fascio di documenti sulle ginocchia, controllò se accanto a lui vi fosse qualcuno.

Abbastanza sicura che l'uomo fosse completamente solo, Semiramide non frappose altri indugi e, convinta che quello fosse l'unico modo per poterlo fronteggiare a quattrocchi senza che lui le sfuggisse di nuovo, entrò nella saletta.

“Adesso parli anche da solo, Lorenzo? Non credo sia un buon segno.” gli disse, la voce molto meno aggressiva di quanto non si fosse figurata prima di aprir bocca.

“Non ho tempo.” la liquidò subito lui, sollevando appena gli occhi tondi dai suoi fogli.

“Non mi hai nemmeno detto com'è andata a Castrocaro...” fece lei, avvicinandosi un po', il velo che portava in testa ora stretto tra le mani, come sussidio per stemperare la tensione di quel momento.

“Mi hai forse visto tornare con il figlio di quella meretrice? No. E allora avresti dovuto capire anche da te che è andata male.” la rimbrottò lui, riassettando in fretta i suoi documenti e alzandosi quasi di corsa dalla poltrona, desideroso di chiudere molto in fretta quel confronto.

“Forse, se la legge ha dato ragione a lei, è perché è lei che merita la custodia del piccolo...” provò a dire l'Appiani, che, benché avesse effettivamente ben immaginato l'esito dell'udienza, si sentiva profondamente sollevata nell'averne la conferma ufficiale.

“Al diavolo quel dannato bambino! È l'eredità che quella donnaccia vuole!” sbottò il Popolano, scuotendo il capo e andando verso la porta: “Se tu l'avessi vista..!”

“Com'è? Raccontamelo.” colse la palla al balzo la donna, frenando il Medici, che stava per sgusciarle di nuovo via da sotto al naso.

Questi fu tentato di tacere e andare oltre, ma, effettivamente, da quando era tornato a casa moriva dalla voglia di descrivere a qualcuno ciò che aveva provato davanti a una donna come Caterina Sforza.

Così, suo malgrado, fingendo, anzi, di fare un favore a una moglie troppo curiosa, Lorenzo si sistemò con cura le carte del processo sotto al braccio e cominciò: “Ha due occhi verdi, di quelli che sembrano fatto di vetro, per quanto cambiano colore con la luce, ma non li ho trovati belli. Erano troppo freddi, pieni di rabbia. Erano di ghiaccio.”

L'Appiani cercava di figurarsela, ma ciò che le interessava di più era l'espressione che stava facendo il Popolano. Dopo tanto, tanto tempo, le pareva vivo, e non perché sospinto dall'odio o dal rancore, ma perché interessato realmente a condividere con lei qualcosa.

“Ha un corpo considerevole e posso anche capire che all'inizio mio fratello l'abbia trovata attraente, ma a uno sguardo appena più attento la sua voluttuosità diventa volgarità, a parer mio. È intelligente, ma la è troppo, per essere una donna – proseguì il Medici, non accorgendosi della piccola incrinatura delle labbra della moglie, a quell'ultimo inciso – ha una presenza notevole e non mi sorprende che si faccia rispettare da interi eserciti, sottomettendoli, anche se poi, di notte, non si fa problemi a farsi sottomettere dagli stessi uomini a cui ha gridato ordini fino a poche ore prima.”

Malgrado Lorenzo volesse dare della Tigre un ritratto impietoso, più parlava, nonostante la scelta precisa delle parole e delle immagini, più a Semiramide dava l'impressione di essere stato suo malgrado affascinato dalla Sforza.

“Quella è una donna infida, cattiva. Dicono che faccia a pezzi i suoi amanti e i suoi nemici, che li ammazzi a mani nude, e non fatico a crederlo.” soffiò il Medici: “Deve avere per forza un ascendente indiscutibile su chi le sta attorno, perché ti giuro che quando quel forlivese si offerto per pagare si è capito che non erano d'accordo già in precedenza... E poi, quel vestito rosso...”

“Se ammetti anche tu che quella donna ha un forte ascendente su chi le sta attorno – lo interruppe la moglie, irritata, per quanto non volesse esserlo, dal velo che aveva coperto gli occhi del suo uomo nel ricordare il vestito indossato dalla Tigre, un velo che aveva visto di rado, anni prima, e sempre e solo rivolto a lei – perché sei ancora convinto che Giovanni non l'amasse davvero e che sia stato solo truffato?”

Il Popolano si ricompose, tornando grigio in volto e atono nella voce: “Perché era un Medici, era mio fratello, era troppo sveglio, per perdere la testa per una donna del genere. Deve averlo avvelenato con una delle sue pozioni da strega, o averlo minacciato o...”

“Non ho più voglia di ascoltarti.” concluse bruscamente la conversazione la donna: “Stammi bene, Lorenzo. Se vuoi, più tardi, possiamo pranzare insieme, ma solo se non mi parlerai di questa storia.”

L'uomo deglutì e poi, mentre la moglie si allontanava, in un moto d'orgoglio disse: “Pranzo fuori, oggi. E poi devo vedere Aldrovandini...”

“Fai come vuoi. Non mi interessa.” soffiò la donna e, senza voltarsi più verso di lui, lo lasciò al suo destino, almeno per quella volta.

 

Caterina si morse il pollice, guardando con attenzione Simone Ridolfi che sciorinava cifre e calcoli come fosse stato un vero banchiere. Di tutti i difetti che aveva, di certo non c'era l'incompetenza in campo finanziario.

Il Consiglio Ristretto era composto quel giorno dal Governatore, da Luffo Numai, dal medico personale della Sforza, dal castellano, da Tornielli e da un paio di Capitani. Oltre a questi erano presenti Galeazzo, Bianca e Giovannino che, fin dal principio, era rimasto aggrappato alla madre, attentissimo a tutto quello che veniva detto e fatto.

“Ci servirà un barbiere esperto di amputazioni.” disse piano il dottore, interrompendo l'elenco di spese irrinunciabili che stava facendo Simone.

“Non basteranno i nostri cerusici?” domandò la Tigre, appoggiata al tavolo della mappa, il figlio retto con un braccio, e la mano libera appoggiata al bordo del legno.

“Potrebbero, ma per questo tipo di amputazioni io cercherei qualcuno di esperto, o tanto varrà non tagliare affatto gli arti infetti, lasciando il malato preda della peste.” rispose il medico.

“Conoscete qualcuno di affidabile?” fu allora la domanda di Luffo, che, da quando si era impegnato in solidum con Ottaviano al pagamento della cauzione a Lorenzo Medici, aveva cominciato a vedere con un'altra ottica il denaro.

Per evitare che Forlì e il suo esercito venissero decimati prima dell'inverno, trovava che spendere qualche lira in più sarebbe stato accettabile.

“Posso provare a contattare Bartolomeo Beliardo. So che ha molta esperienza e un'ottima mano e che non si spaventa nemmeno davanti alla peste.” confermò il dottore, voltandosi, però, verso la Contessa, per cercare la sua approvazione.

“Va bene. Contattatelo.” soffiò lei, dopo un solo momento di esitazione.

“Quindi, mia signora – prese la parola Ridolfi, che detestava sentir parlare di certe cose, e si trovava molto più a suo agio con numeri e conti – i beccamorti siete sicura di volerli pagare sei lire al mese?”

“Sì. Se Antonio Lombardi e Piero Ciriale accettano, non posso pagarli meno.” annuì lei, sentendosi gli occhi attenti di Bianca e Galeazzo addosso: “Il primo è anche stato tra gli Spitaleri dei Battuti Grigi... Non posso sminuirne il lavoro.”

Il Governatore si appuntò la cifra, con una smorfia di difficile interpretazione e poi chiese: “E invece per i preti? Davvero li volete pagare tanto?”

Questa volta prese la parola Numai: “Frate Giovanni Tedesco, dell'Ordine di Sant'Agostino non si muoverà per meno di venti lire al mese.”

“E don Bastiano Manenti si accontenterà di quindici, ma non di meno.” concluse il castellano, che conosceva bene il chierico in questione.

“Ci saranno dei preti che non vogliono farsi pagare!” sbottò Ridolfi che, con quell'ultima spesa, vedeva sballato tutto il suo calcolo di bilancio per i mesi a venire.

“Se rischiano di morire, anche i preti vogliono essere ben pagati.” lo corresse Caterina: “E poi questi due godono della fiducia e della fede del popolo. A volte un'illusione di guarire grazie a una benedizione impartita dalla mano giusta fa bene quanto una medicina. Dobbiamo prendere loro e basta.”

Il Governatore, per quanto molto contrariato, non aggiunse più nulla, limitandosi a scrivere quanto era stato deciso sui suoi libri contabili.

“Direi che non c'è altro su cui discutere.” disse infine la Leonessa.

“Per le norme igieniche?” chiese, a quel punto Tornielli: “Dobbiamo mettere in pratica quelle della scorsa epidemia o ci sono disposizioni aggiuntive?”

La donna guardò Simone, che, nel suo modo di vedere quella faccenda, avrebbe dovuto essere l'esecutore materiale dei suoi ordini, essendo il Governatore della città, ma poi si rivolse comunque al Capo dei Magistrati, ben conscia del fatto che fosse in realtà lui quello con cui parlarne: “Sì, quelle della volta scorsa. Ah, e voglio anche che vietiate contatti tra i soldati di stanza al Quartiere Militare con i bassifondi. Se vogliono del vino, si accontentino delle locande a loro vicine, e se vogliono delle donne, si arrangino con quelle che lavorano al limitare del Quartiere.”

Tornielli annuì, aggiungendo che trovava quella disposizione alquanto saggia e poi, dopo aver chiesto se vi fosse altro e essersi sentito rispondere di no, attese semplicemente di essere congedato.

“Mi raccomando. Non voglio che una misera epidemia di peste abbia ragione di noi.” concluse la Contessa, quando lasciò tutti liberi di andare.

Mentre i Capitani, il castellano, Tornielli e Numai si avviavano alla porta, Ridolfi si avvicinò alla Tigre, con il pretesto di salutare meglio Giovannino.

“In fondo – si schermì davanti allo sguardo interrogativo della sua signora – è pur sempre il mio figlioccio...”

La Sforza aveva notato come Bianca e Galeazzo stessero tergiversando, evitando di lasciare la sala prima di lei. Non capiva, però, se lo stessero facendo per fiancheggiarla in caso di bisogno o per accertarsi che non facesse qualche sciocchezza. Ormai sapevano, come altri, quanto poco la Contessa e il Governatore andassero d'accordo, malgrado formalmente i due cercassero di collaborare nel modo più disteso possibile.

“E voi?” chiese in un sussurro Simone, mentre con la grande mano ancora giocherellava con quella piccola e tozza del bambino: “Rispetterete anche voi il vostro veto o già stanotte vi si potrà trovare a razzolarvi in un letto pieno di pulci, in qualche locandaccia, con un soldato sopra di voi e uno sotto?”

Caterina cercò di controllare l'espressione del proprio volto, sperando che i suoi figli non avessero sentito le parole avvelenate del fiorentino. Si chiese se quell'uomo avesse ipotizzato quello scenario per puro caso o se, in qualche misura, avesse sentito qualche chiacchiera riguardo una delle sue recenti notti raminghe nei pressi del Quartiere Militare.

“Forlì non è una grande città, e i suoi abitanti sembrano non trovare nulla di più interessante dei vostri intrallazzi notturni.” si spiegò lui, stringendo appena gli occhi, come se avesse capito benissimo cosa si agitava nella mente della sua signora: “Dovreste stare più attenta ai posti che frequentate. Certe locande hanno occhi e orecchie ovunque. E non voglio che il mio figlioccio cresca con una madre che sta sulla bocca di tutti.”

“Se avete paura che io non rispetti le mie stesse norme d'igiene – si difese la Leonessa, alzando appena la voce e sforzandosi di sorridere – posso dirvi di star pur tranquillo: io non vengo dai bassifondi, per cui, per me, quella disposizione in particolare non vale.”

Simone sospirò e poi schiuse le labbra, come se fosse pronto a sferrare un nuovo attacco. La Contessa, però, non aveva alcuna intenzione di lasciargli di nuovo sfogare la propria frustrazione e il proprio malumore su di lei, perciò lo salutò in modo abbastanza chiaro e si mosse verso i figli.

Bianca e Galeazzo, che in realtà avevano sentito praticamente tutto, fecero del loro meglio per fingersi del tutto ignari del mezzo battibecco a cui avevano assistito e, seguendo la madre, andarono alla porta.

“E voi fate in modo di andare di persona a controllare che i miei ordini siano messi in pratica. Vi ho nominato Governatore affinché lavoriate per me e svolgiate compiti ben precisi, non perché restiate in uno studio a far di conto tutto il giorno.” soggiunse la Sforza, appena prima di lasciare la Sala della Guerra, lanciando un'occhiataccia a Ridolfi.

Questi fece un inchino eccessivo e quasi offensivo, per quanto affettato, ma non osò più affilare la lingua contro di lei, almeno per quel giorno.

 

“Forse dovrei alzarmi...” disse, strascicato, Francesco Gonzaga.

Isabella, in risposta, lo cinse di nuovo tra le braccia, godendosi la sensazione ruvida e un po' selvatica della pelle villosa del marito contro la propria: “Aspetta... Non è ancora sorto il sole.”

L'uomo fece un suono gutturale, un po' come a darle ragione e un po' come a darle torto, ma si prese comunque un momento per godersi anche lui la sensazione celestiale della pelle levigata e liscia della sua donna. Tutti dicevano dell'Este che non fosse una bellezza, ma che sapesse vestirsi e agghindarsi in modo così elegante e alla moda da far dimenticare perfino i suoi difetti. Lui, però, non era del tutto d'accordo: aveva sempre trovato che sua moglie fosse molto più bella nuda, che con addosso i quintali di stoffa che si faceva preparare dei migliori sarti d'Italia.

E anche quella volta, mentre la sentiva cedevole e disponibile sotto di sé, il Gonzaga si trovò a pensare che la preferiva mille volte senza veli, così com'era davvero, che non mascherata fino a non sembrare nemmeno più lei.

Da quando si erano riappacificati, decidendo a tavolino di non parlare del passato, di evitare motivi di scontro e di cercare di concepire un erede, i Marchesi di Mantova avevano passato più tempo stretti l'uno all'altra che impegnati nei loro affari.

Per la corte, quel ritorno di fiamma, era stato da un lato un sollievo e un modo per scrollarsi un po' di dosso la tensione che i due coniugi sapevano riversare anche sui loro cortigiani, ma dall'altro aveva reso la macchina dello Stato molto più lenta e farraginosa.

Anche se il Gonzaga di rado si occupava in modo serio dell'amministrazione dello Stato, quando lo faceva, o quando discuteva coi suoi consiglieri in merito alle mosse belliche che l'attendevano, lo faceva sempre con addosso una strana fretta, come se tutti quei discorsi, per lui, fossero solo una grande perdita di tempo. E, appena poteva ritenere conclusa una discussione, correva a cercare la moglie e a isolarsi dal mondo.

Parimenti, l'Este, che di norma era sempre molto attenta a Mantova, che intratteneva i letterati della corte, che chiacchierava con le sue dame di moda e con gli uomini di politica, era diventata d'un tratto sfuggente, distratta, con la testa altrove. La si poteva trovare assorta a guardare il marito, quando questi era nella sua stessa stanza, o, in sua assenza, la si poteva scorgere con in viso stampato un sorriso etereo e lontano, come se la sua mente fosse ancorata a una realtà diversa da quella che stava vivendo.

Francesco, soggiogato dalla stretta decisa della moglie, ne saggiò con attenzione il corpo, che si era fatto molto più formoso e generoso, negli ultimi anni e, sfiorandole il collo con le labbra, senza farsi scrupoli a graffiarla un po' con la sua barba ispida, le sussurrò: “Lo sai che sono un uomo impegnato...”

“Lo sai che l'uomo, in questa casa, sono sempre stata io...” lo corresse lei, con una risatina soffocata, mentre il marito ricominciava a cercarla, pronto a prenderla ancora una volta.

Isabella, in quei giorni, stava riscoprendo la passione che l'aveva travolta all'inizio del suo matrimonio. Il Gonzaga era un amante instancabile e molto intelligente. Sapeva anticipare le sue mosse e i suoi bisogni, rendendo le loro unioni una sorta di danza ben studiata, che permetteva a entrambi di ottenere ciò che volevano, dando all'altro ciò che cercava, in un mutuo scambio che lasciava entrambi entusiasti e soddisfatti.

Trascinati via ancora una volta dal desiderio, i due Marchesi persero la cognizione del tempo e solo dopo un po', mentre l'Este restava con la testa sul petto di lui, il respiro ancora rapido e la pelle arroventata, l'occhio di Francesco scivolò verso la finestra: “Porco mondo, adesso il sole è sorto eccome e io devo incontrare il portavoce di Gian Giacomo da Trivulzio!”

Isabella avrebbe tanto voluto trattenerlo di nuovo, ma sapeva meglio del marito quanto quella mosse di avvicinamento ai francesi era importante. Di comune accordo avevano deciso di trattare con Venezia, per ottenere almeno una buona uscita, o anche una condotta ridotta, con impegni minimi, ma con buon prestigio e un discreto ingaggio, e di scaricare una volta e per tutte il Moro.

Era stato quasi un gesto simbolico, da parte della Marchesa, quasi a sottolineare come fosse necessario gettarsi davvero tutto alle spalle. E liberarsi dell'ombra di Ludovico era un passo importante per ritrovare in modo stabile la loro felicità coniugale.

“Mi raccomando.” disse piano la donna, sedendosi contro la testata del letto e guardando Francesco saltar giù dal letto: “Fai quello che ti ho detto e non sprecare quest'occasione.”

“Perché non vieni anche tu, con me?” chiese l'uomo, che stava intanto cercando di sistemarsi un po' la zazzera di capelli castani, rimasti molto arruffati, dopo la lunga notte che aveva passato con la sua Isabella.

“Già ti prendono in giro, dicendo che passi tutto il tuo tempo a letto con me, ci mancherebbe solo se mi vedessero al tuo fianco con quel francese. Faresti la figura di un incapace che ha bisogno della balia.” tagliò corto l'Este, che, però, avrebbe voluto come non mai poter essere presente, per riparare a eventuali scivoloni del marito.

A malincuore, il Gonzaga le diede ragione e poi, una volta vestito, si buttò un momento sul letto, la strinse a sé, assaporò ancora il suo profumo, la morbidezza del suo seno e dei suoi fianchi e la voracità dei suoi baci, e poi sussurrò: “Torno presto. Se vuoi, poi, possiamo andare a cavalcare... In fondo è domenica anche per noi.”

“Cerca di stare concentrato su quello che devi fare.” lo mise in riga la donna, e poi, prendendogli una delle sue mani callose tra le proprie e posandosela sul ventre, gli sussurrò: “E poi abbiamo una cosa di cui parlare.”

“Pensi di essere incinta?” chiese lui, che, pur avendo ripreso a frequentare la moglie soprattutto per avere un erede, aveva quasi finito per dimenticarsi quel progetto iniziale, all'idea di essere finalmente riuscito nel suo primo intento, si sentì scoppiare d'orgoglio.

“Non lo so, ma potrei... Ho il dubbio da qualche giorno, e noi ci stiamo provando tanto.” rispose lei, con un'alzata di spalle.

Il Marchese avrebbe voluto fermarsi a lungo a parlarne, ma sentì in lontananza le campane suonare l'ora e si rese conto di essere già troppo in ritardo con il suo ospite.

“Pensa ai nostri figli.” disse Isabella, usando volutamente il plurale generico e non il femminile, come a dirgli che, se davvero nella sua pancia stava crescendo una nuova vita, ebbene, doveva finalmente trattarsi del tanto sospirato erede: “Non fare sciocchezze. I francesi vinceranno la guerra, e noi dobbiamo essere a tutti i costi dalla parte dei vincitori.”

“Sei sempre una donna d'immensa saggezza.” sorrise lui e, finalmente, lasciò la camera.

 

Quella domenica, come da accordi, Galeazzo aveva atteso la madre fuori dalla sua stanza, prima che sorgesse il sole.

Si era chiesto, con uno spesso velo di ansia, da quale porta sarebbe uscita, se da quella della sua camera ufficiale, quella che, ultimamente, divideva in pianta stabile con Giovanni da Casale, o da quella della sua tana.

Quando l'aveva vista uscire dalla prima – segno che aveva passato quella notte da sola – il Riario aveva tirato un involontario sospiro di sollievo. Anche se razionalmente capiva le scelte di sua madre e non voleva giudicarle in modo affrettato, a volte pensarla così disinvolta con gli uomini come la dipingevano i forlivesi lo faceva stare male.

Scelte le armi – tra cui la lancia da cinghiale, regalo di Giovanni Medici – madre e figlio si erano fatti portare un fiaschetto d'acqua e uno di vino, avevano preso i cavalli ed erano usciti in direzione dei boschi.

La mattina, per quanto calda fin dai primi raggi di sole, si era dimostrata subito molto piacevole e, in poco tempo, alla sella dello stallone della Sforza erano state appese ben cinque lepri. C'era voluta qualche ora, però, prima che una preda degna di nota si presentasse al cospetto della Tigre e del suo cucciolo.

Caterina fece segno a Galeazzo di fare silenzio e il ragazzino, ormai discretamente avvezzo a essere a caccia con la madre, si fece improvvisamente molto silenzioso.

La donna si fece passare la lancia e indicò con lo sguardo un grosso cinghiale che stava passando abbastanza speditamente a una certa distanza da loro, sparendo di quando in quando tra le piante.

Non erano vicini a uno spiazzo, quindi il terreno non era dei migliori, per prendere un simile animale, ma la Sforza sapeva il fatto suo e aveva voglia di confrontarsi una volta di più con le proprie capacità.

Fece capire al figlio di tenersi pronto con arco e frecce, ma poi cambiò idea, indicandogli la spada.

Il Riario capì all'istante cosa la Contessa gli stava chiedendo. Lei avrebbe ferito la bestia e sarebbe spettato a lui finirla.

Con il cuore che batteva più rapido, Galeazzo rimase a pochi passi dalla madre, mentre questa cominciava ad avvicinarsi al punto in cui, secondo i suoi calcoli, in breve sarebbe arrivato il cinghiale.

L'animale era ormai a vista d'occhio e, da come grugnì rabbioso, doveva ormai aver sentito il loro odore. Infatti il suo incedere rapido, ma tranquillo, si tramutò in una specie di galoppo e, sfruttando proprio quello slancio, Caterina si fece trovare pronta, parandosi davanti al cinghiale al momento giusto.

Piantati i piedi nel terreno, impugnò con forza la lancia e, stando abbastanza attenta a non sferrare un colpo che fosse subito mortale, indirizzò la punta metallica rinforzata verso la spalla della bestia.

Uno schizzo rovente di sangue l'accecò per qualche istante e poi si sentì rovinare addosso il cinghiale, la cui stazza era abbastanza notevole.

Ci mise qualche istante a riprendersi, e si rese conto di essere ancora viva solo perché l'animale era rimasto tanto ferito da non avere la forza di rifarsi su di lei.

“Finiscilo.” ordinò, rimettendosi in piedi e controllando come Galeazzo reagiva a quell'ordine.

Il ragazzino, che era rimasto più sconvolto di quanto avesse voluto, nel vedere quella scena, tremava appena, più per la paura avuta per la sorte della madre che non per il modo cruento in cui la donna aveva colpito la preda.

Il cinghiale, una delle zampe anteriori quasi del tutto staccata dal corpo e grondante di sangue, emetteva un grido acuto e straziato, i piccoli occhi porcini che seguivano terrorizzati i passi del Riario.

Quel dettaglio fece esitare il ragazzo. Si sentiva osservato, avvertiva la richiesta disperata di quell'animale agonizzante e avrebbe quasi voluto soccorrerlo, invece di ucciderlo.

“Non è facile, ma devi farlo.” insistette Caterina, alle sue spalle: “Vuoi essere capace di andare in guerra, mi hai detto, vuoi essere in grado di guidare un esercito. E allora prima devi imparare a uccidere guardando negli occhi la tua vittima.”

Galeazzo avvertiva qualcosa di strano, nella voce della madre, come qualcosa di metallico. Sapeva che, come sempre, nei suoi ordini e nel suo modo di trattarlo, era nascosto un insegnamento. Voleva compiacerla e voleva imparare. Così, facendo del suo meglio per estraniarsi da ciò che aveva davanti, tenne saldamente la spada e, con un colpo secco, l'affondò nel collo del cinghiale, facendolo morire all'istante.

Appena il grido straziante della bestia lasciò spazio di nuovo al silenzio e ai suoni del bosco, la Tigre si chinò sulla carcassa ed estrasse la sua lancia, ancora conficcata nelle carni martoriate dell'animale.

“Sei stato bravo.” sussurrò, anche se il suo volto il Riario un po' rimase spiazzato nell'accorgersene, non lasciava trasparire altro se non tristezza: “Quando lo macelleremo, cercheremo anche di rimediare un po' al brutto taglio che ho dato alle carni infilzandolo con la lancia...”

Mentre si occupavano della carcassa, la Sforza si lasciò andare a commenti liberi riguardo al fatto che quell'estate senza pioggia, oltre che la peste, aveva portato una siccità pericolosa anche per gli animali.

“Questo povero cinghiale, per esempio – disse, tagliando con precisione l'arco della coscia – stava sicuramente cercando da bere...”

Dopodiché la Leonessa era passata a parlare d'altro, della peste e dei metodi che avevano scelto per affrontarla, ma anche del processo per la custodia di Giovannino, dell'attesa dell'arrivo di Puccio Pucci, che, pareva, non sarebbe giunto in Forlì prima di una settimana o due, o del fatto che Cesare ancora non avesse potuto prendere il suo posto a Pisa perché i fiorentini stavano tirando la guerra per il lungo.

Galeazzo non ricordava di averla mai vista tanto loquace, e, da un lato, gli piaceva quella novità. Di solito era così difficile indurre la ferrea Tigre a parlare di quello che aveva per la mente, che vederla così incline ad aprirsi lo faceva sentire un privilegiato.

La verità, però, era che la Contessa si era messa a parlare senza sosta solo ed esclusivamente per frenare i ricordi di tanti anni prima. Quando aveva ordinato a Galeazzo di uccidere il cinghiale ferito, l'aveva fatto per mettere in pratica un insegnamento che suo padre le aveva dato quando era ancora una bambina. Pensare, però, a tutto quello che era successo relativamente dopo poco tempo, l'aveva gettata in un pessimo stato d'animo e voleva fare di tutto per scrollarselo di dosso.

Finito di macellare, non trovando altri argomenti con cui svuotarsi la testa, dato che il sole indicava più o meno il mezzogiorno, la Tigre chiese: “Hai fame?”

Il Riario annuì subito e, ben felice di avere un compito alla sua altezza, si mise a scuoiare e pulire due delle lepri che avevano preso, mentre la madre sistemava i pezzi di cinghiale e cercava di ripulirsi un po' le mani dal sangue.

Galeazzo era molto concentrato sul proprio lavoro, volendo che le carni fossero perfettamente pulite, quando le avessero messe sul fuoco, ma con gli occhi correva spesso alla Sforza che, apparentemente senza fatica, spostava i quarti di cinghiale mettendoli nelle sacche che avrebbero legato al cavallo. Era abituato da sempre a vedere nella madre una figura molto forte e fisica, ma in quel momento, forse perché erano soli o forse perché l'odore ferrigno del sangue lo suggestionava, gli pareva molto più ferale del solito.

“Forse avremmo dovuto andare alla Casina, a mangiare...” disse piano Caterina, mentre infilzava un pezzetto di lepre sulla punta del pugnale e lo abbrustoliva sulle fiamme del piccolo falò: “Forse avremmo avuto meno caldo e saremmo stati più comodi.”

“A me sta bene anche così.” commentò invece il Riario, che stava realmente apprezzando l'erba sotto di sé e il cielo azzurro che si scorgeva oltre le fronde dell'albero che dava loro un po' d'ombra.

“Tu sei sempre contento...” fece la donna, con un lieve sorriso.

Il ragazzino non ribatté e, quando la madre gli porse un pezzetto di carne già pronto, lo divorò in un paio di morsi. Era di robusto appetito, questo la Leonessa l'aveva capito da un po', ma, per fortuna, tutto il movimento che faceva allenandosi stava preservando il suo aspetto longilineo e scattante, impedendogli, almeno per il momento, di riecheggiare le forme molli e cadenti di Ottaviano.

“Sai, Galeazzo...” cominciò a un certo punto la Contessa, asciugandosi il bordo delle labbra, dopo aver bevuto qualche sorso di vino: “Alla tua età tanti giovani nobili sono già promessi, se non addirittura già sposati...”

Il figlio avvertì un brivido lungo la schiena. Si chiese se quell'uscita nei boschi non avesse quel celato secondo fine: parlargli della sua eventuale futura sposa.

Così, con lo stomaco contratto, smettendo all'improvviso di mangiare, domandò: “Mi avete promesso a qualcuna?”

Caterina, che aveva sollevato quella questione perché sospinta dai propri pensieri, scosse subito il capo, accigliandosi, e cercò di spiegarsi: “No, no, non ti ho promesso a nessuna e sai benissimo che non lo farei mai, tanto meno senza dirtelo prima e chiedere il tuo consenso. È solo che stavo pensando che, quando ti sposerai, io non ci sarò più.”

Il brivido di poco prima, sulla schiena del Riario, cambiò di colpo natura, mentre il ragazzo ribatteva, un po' incerto: “Non dite così, madre, ve ne prego.”

“Forlì non si salverà dai francesi.” continuò lei, a voce bassa, togliendo gli ultimi pezzetti di carne dall'osso della coscia della sua lepre: “Posso fare e dire quello che voglio, ma so che se Milano cadrà, i prossimi a cadere saremo noi, e io ho intenzione di morire combattendo, piuttosto che essere presa prigioniera e morire in catene.”

Quella dichiarazione fece scendere sui due una cappa di teso silenzio che Galeazzo riuscì a rompere solo dopo qualche minuto: “Capisco la vostra scelta. Vi fa onore.” tuttavia i suoi occhi verdi tradivano una paura profonda e la Sforza si sentì quasi in colpa per avergli parlato con tanta franchezza.

Anche se non era la prima volta in cui affrontava con lui quel discorso, le pareva che il figlio fosse molto più recettivo, quel giorno.

“Ecco perché voglio passare un po' di tempo con te. Finché posso.” soffiò alla fine lei, distogliendo lo sguardo, per non cedere a sua volta alla paura: “Ed ecco perché fingo di non sentire, quando qualcuno borbotta perché mi porto Giovannino in braccio anche ai Consigli di Guerra. Loro credono che non siano situazioni in cui portarsi appresso un bambino tanto piccolo, e hanno anche ragione, ma io Giovannino non lo vedrò crescere. Voglio stare con lui, finché posso.”

Il Riario ricordava un discorso analogo sentito per caso uscire dalle labbra di Giovanni Medici, poco prima che partisse per la guerra. Quel paragone gli sembrò quasi un cattivo presagio, perciò, senza ragionarci troppo, diede voce a un dubbio che, in effetti, l'aveva attanagliato più volte, nel corso della mattinata.

“Adesso preferireste essere con lui?” chiese, spiluccando ancora un po' di lepre, la fame ormai quasi del tutto passata.

La Tigre sollevò un sopracciglio e, con una certa tristezza, parlò senza filtri: “È vero, io non ti volevo, così come non volevo i tuoi fratelli. Ero troppo giovane e tuo padre mi ha fatto troppo male, ma adesso sto facendo pace con certi momenti del mio passato e... Vi voglio bene.”

Il Riario si morse il labbro e accettò il fiaschetto di vino che la madre gli stava silenziosamente offrendo.

Bevve lentamente un paio di sorsi, lasciando che il rosso speziato gli bruciasse la gola e poi, deglutendo, chiese: “Volete bene anche a Ottaviano e Cesare?”

La Leonessa si irrigidì. Non si era aspettata una simile domanda da parte di Galeazzo.

Con cautela, riprendendo il fiaschetto e chiudendolo con cura, quasi sillabò: “Loro me l'hanno fatta troppo grossa.”

Negli anni si era interrogata tante volte su come fossero realmente i suoi sentimenti verso i sue due figli più grandi, e non era mai arrivata a una risposta definitiva. Si era detta che se erano diventati violenti, chi più a fatti e chi più nelle intenzioni, la colpa era solo sua, che aveva dato loro quell'esempio. Di contro, però, si era detta che gli altri suoi figli non erano così e che, quindi, la colpa non era sua, non del tutto, almeno.

Ovunque stesse la verità, comunque, non avrebbe saputo rispondere nemmeno lei in modo coerente alla domanda appena postale dal suo quintogenito: “Perché non li avete uccisi subito?”

Così decise di restare sul vago, pur senza mentirgli: “Sono cose complicate, Galeazzo. Tanto complicate, che non riesco a capirle nemmeno io che ci sono in mezzo.”

Finirono di mangiare in silenzio, senza parlare più di niente di particolare, se non del sapore ottimo delle lepri e del vino, e infine, decidendo che il cinghiale catturato era una preda più che sufficiente per quel giorno, si apprestarono a tornare alla rocca.

“Posso dirvi una cosa, senza che restiate delusa da me?” chiese il Riario, appena prima di montare in sella.

Caterina strinse gli occhi nel sole di quel 18 agosto e, sospirando, annuì: “Certo. A me puoi dire tutto, senza problemi.”

“Prima ho avuto paura, quando il cinghiale vi ha attaccata. Avevo paura vi facesse del male. Vi prego, non reputatemi uno sciocco.” fece, tutto d'un fiato, il ragazzino.

La Contessa fu sul punto di scoppiare a ridere. Si era attesa una confessione molto più pesante, mentre quella le pareva quasi una facezia. Però, scorgendo l'espressione tesa del figlio, si trattenne, restando molto seria.

Gli posò una mano sulla spalla e gli disse: “Ci sono solo due tipi di sciocchi: quelli che hanno paura di tutto, e quelli che non hanno paura di niente. Tu sei stato solo premuroso nei miei confronti e ti ringrazio per questo.”

Vedendo in lui il bambino che ancora era, la donna si sporse in avanti e gli diede un affettuoso bacio sulla fronte, scompigliandogli poi i corti capelli castani che, con il solleone estivo, erano andati via via schiarendosi un po'.

“Avanti, torniamo a casa. Vorrei stare con te fino a sera, ma abbiamo tante cose da fare, a Ravaldino e in città...” sospirò lei, montando in sella al suo stallone nero e invitando il figlio a fare altrettanto.

Sulla via del ritorno, incoraggiato dal clima disteso che si era creato tra lui e la madre, Galeazzo osò fare un'altra domanda, rimbalzata, in realtà, anche da Bernardino e Sforzino: “Quando tornerà messer Pirovano?”

Caterina, che teneva le redini e aveva il figlio aggrappato alla schiena, non poteva vederne il viso, e fece anche fatica a interpretarne il tono, così disse, neutra: “Credo tra un paio di settimane, se tutto va bene.”

Il Riario non disse altro e così, fino a Ravaldino, la Tigre si chiese cosa frullasse per la testa del ragazzino e, per la prima volta da tanto tempo, si trovò a interrogarsi su quanto le libertà che si prendeva con gli uomini pesassero sull'equilibrio dei suoi figli.

Avevano passato la statua di Giacomo Feo ed erano già al ponte levatoio quando si trovò a dirsi che preferiva non conoscerne la risposta.

 
 
   
 
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