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Autore: Adeia Di Elferas    05/06/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Quattro colpi di bombarda, tanto era bastato per convincere in modo definitivo Donato Raffagnino a cedere il castello di Annone a Gian Giacomo da Trivulzio.

Poco gli importava se i suoi l'avrebbero accusato di essere un vile e un traditore. Era vero, i francesi l'avevano contattato in anticipo, per corromperlo e lui, lusingato dalla cifra proposta – che da sola era più alta di un intero anno di stipendio dal Duca di Milano – aveva subito lasciato uno spiraglio aperto.

A farlo decidere, però, per la resa definitiva era stato ben altro: non la propria viltà, ma quella altrui.

Il primo tra i vili, a suo dire, era stato Ludovico Sforza, che aveva pagato i suoi uomini con ducati alleggeriti, cercando di fare il furbo e dimostrando quanto poco li stimasse come uomini e come soldati.

In secondo luogo, sapeva che Alessandro Sforza, già in Alessandria, aveva cercato di convincere Galeazzo Sanseverino a correre in suo soccorso, ma questi, ben lungi dal voler rischiare la pelle per niente, aveva rifiutato subito.

E poi c'era stata la fuga di Lucio Malvezzi. Mandato quasi a forza dal Moro lì ad Annone, non appena aveva visto profilarsi le prime bandiere francesi, aveva cominciato a farsi evasivo e poi, al primo rullio di tamburi, era scappato a gambe levate, con la scusa di esser stato richiamato d'urgenza ad Alessandria.

“Avete fatto la cosa giusta.” disse piano Gian Giacomo, quando, oltrepassato il portone d'ingresso della rocca di Annone, si trovò davanti il castellano rinnegato: “Non ha senso combattere contro un esercito come quello che comando io.”

Accanto al Trivulzio c'era un uomo che Raffagnino non conosceva nemmeno di vista. Sui trentacinque, o forse qualcosa in più, con lo sguardo sveglio e i capelli e la barba di un castano chiaro che tendeva al rossiccio.

Era intento a osservare in alto, verso il loggiato che dava sul cortile del castello e non stava degnando il castellano della sua attenzione. Sembrava troppo impegnato nel valutare lo stato della fortificazione e a immaginarne, forse, il possibile uso futuro.

“Troilo...” fece Gian Giacomo, passando già oltre a Donato, come se ritenesse già conclusa la loro trattativa, e rivolgendosi a quello che il castellano non conosceva: “Dobbiamo dare ordine di radere al suolo questo castello e anche le fortezze vicine. Voglio dirigermi subito a Valenza. Lì troveremo molto oro e del cibo. E poi ci sposteremo a Bassignana, Caselle, Casteggio... E da lì fino ad Alessandria.”

Il Rossi annuì, compreso nel suo ruolo e poi, involontariamente, lanciò uno sguardo a Raffagnino che, per puro caso, senza intenzione, aveva sentito tutto quanto.

Donato sentì il cuore perdere un colpo. Il modo in cui Gian Giacomo si voltò verso di lui gli lasciò intendere che l'aver sentito troppe cose, l'avrebbe presto trasformato in un uomo morto.

“Pagatelo di più. Anche il suo silenzio ha un prezzo.” fu invece il provvedimento subitaneo del Trivulzio e così, con Troilo che concordava silenziosamente, compiaciuto nel vedere come il suo amico mantenesse comunque un certo stile, evitando spargimenti di sangue inutili, Raffagnino sentì il cuore perdere un altro colpo, ma questa volta per il sollievo.

 

Tornata alla rocca assieme al figlio, e consegnati il cinghiale e le lepri rimaste, Caterina passò dal castellano per sapere se ci fossero cose urgenti di cui doveva occuparsi.

Subito, con un automatismo che la donna trovò quasi ridicolo, l'uomo le passò un po' di lettere e le disse: “Queste meriterebbero una risposta al più presto.” poi, occhieggiandone un paio sulla scrivania, sospirò: “Quelle, invece, potete controllarle con calma, riguardano il grano che volevate comprare, ma non danno buone notizie.”

“E quelle?” chiese la Sforza, indicandone un altro paio che l'uomo aveva messo da parte, ma che indicavano in modo abbastanza chiaro la Contessa come destinataria.

“I soliti nostalgici.” commentò piano lui, per poi soggiungere: “Ma se preferite controllare da voi...”

La Tigre aveva capito benissimo che con il termine 'nostalgici' Cesare Feo intendeva dei suoi amanti occasionali che, come tanti prima di loro, avevano provato a contattarla in quel modo, per i più svariati motivi.

Così alzò una mano e ribatté: “Mi fido. Non ho voglia di leggerle.” e prese quelle che invece necessitavano una pronta risposta.

Andando verso la propria stanza, Caterina si accorse, con distrazione, di avere ancora del sangue secco sulle mani. Così, prima di ritirarsi per adempiere alla corrispondenza, passò un momento nei locali della servitù e cercò Argentina. La trovò intenta a rammendarle l'abito rosso, ma quando le disse di farle portare presto in camera una bacinella d'acqua per le mani, con del sapone e, più tardi, la tinozza per il bagno, la serva si dimostrò ben felice di abbandonare il lavoro di cucito in favore del nuovo compito affidatole.

Finalmente in stanza, nell'attesa che arrivasse il necessario per pulirsi le mani, la Leonessa aprì le missive una per una e le lesse. Quella che riteneva più interessante, inutile dirlo, era quella di Giovanni da Casale, per quanto dicesse molto poco. Una lettera di Leonardo Strozzi, invece, ebbe il potere di far riaffiorare la sua rabbia costantemente latente e così, prima di impugnare la penna per scrivere una risposta eccessivamente collerica, la Sforza attese l'arrivo di Argentina o di chi per lei.

Per fortuna fu proprio la sua serva personale a occuparsi di quell'incombenza e così, mentre la domestica preparava il tutto e sistemava anche un pezzo di sapone profumato accanto alla bacinella, la Tigre le chiese: “Dimmi, è stato tutto tranquillo, mentre non c'ero?”

“Sì, mia signora.” rispose lei, senza pensarci.

“Giovannino è stato bene? I miei figli sono stati tutti tranquilli? Perfino Bernardino?” indagò lei, alzandosi per raggiungere l'acqua, prendendo un pezzo di sapone che aveva confezionato lei stessa, assieme alla figlia: “Non mi serve una risposta di comodo. Da te mi aspetto lealtà, ed essere leali, a volte, significa dire anche cose spiacevoli.”

Argentina versò un po' d'acqua dalla brocca sulle belle mani della sua signora e, un po' meno sicura di sé, ammise: “Messer Giovannino è stato bene, ma vi ha cercato parecchio. Le balie erano disperate, e madonna Bianca era fuori... Insomma, ci hanno messo un po', per calmarlo.”

La Contessa fece una smorfia, mentre si grattava via con attenzione il sangue secco dalle unghie. Il suo primo pensiero, arrivata a Ravaldino, era stato passare dal suo figlio più piccolo, ma poi aveva lasciato perdere, pensando che fosse il caso, dopo una mattina trascorsa a dedicarsi a Galeazzo, occuparsi un po' degli affari di Stato. Forse era stata in parte una scelta molto egoista, perché, per quanto amasse molto passare del tempo con Giovannino, quel giorno temeva risvegliasse in lei troppi ricordi e non aveva voglia di affrontare la memoria di Giovanni.

Così, dicendosi che in fondo avrebbe potuto giocare con l'ultimogenito quella sera, fece un sospiro pesante e poi chiese tacitamente all'altra di continuare.

Così la serva deglutì e proseguì: “Messer Sforzino è stato molto tranquillo, invece, e ha passato la mattina a studiare. Messer Bernardino, invece, quando... Ecco, quando vi ha saputa fuori a caccia con il fratello, è uscito dalla rocca e non è ancora tornato.”

La Tigre, in altri momenti, si sarebbe preoccupata subito, a quella notizia. Ma il figlio di Giacomo, ormai, l'aveva abituata troppo a quel genere di fughe e così, almeno finché non fosse stata sera, pensava che non ci fosse nulla da temere.

“Ottaviano?” domandò Caterina, facendosi passare il telo per asciugarsi le mani finalmente pulite.

“Ah, lui è rientrato che era quasi mezzogiorno.” rispose prontamente Argentina, lasciando intendere con uno sguardo quale fosse stata, probabilmente, l'occupazione del giovane dalla sera prima fino a quella mattina.

Alla Contessa faceva piacere avere una serva che fosse sempre tanto informata su tutto, tuttavia trovava singolare la sua capacità di tenere così facilmente le fila di tutti loro.

“Sei una donna molto attenta.” le disse, porgendole il telo umido: “Sembri più brava di me, a tenere d'occhio i miei figli.”

A quel punto la domestica si pietrificò. Era evidente che temesse qualche punizione, che avesse paura di essere considerata un'impicciona e non solo una servitrice fedele e puntigliosa.

Chinò il capo e balbettò: “Io... Io, mia signora, non faccio nulla se non per amor vostro.”

“Non volevo essere fraintesa.” ribatté un po' secca la Leonessa, che dopo quello che la moglie di Bernardino le aveva fatto, ormai quattro anni addietro, detestava, da parte di una donna al suo servizio, quel genere di affermazioni: “La mia voleva essere una lode.”

Argentina, allora, risollevò il viso, ma ormai aveva perso la parola, così la Contessa si limitò a chiederle di portare via l'acqua – che si era fatta rosata per colpa del sangue – e di farla chiamare, quando fosse stata pronta la tinozza per il bagno.

Sedutasi alla scrivania, la Sforza prese la penna e la intinse nell'inchiostro. Per prima cosa scrisse a Pirovano, per dirgli che non poteva accontentarsi di vaghe promesse, ma che esigeva da Firenze dei termini chiari, per la condotta di Ottaviano.

Poi scrisse a Fortunati, per ragguagliarlo circa il processo di Castrocaro. Anche se si era ripromessa di farlo subito, aveva continuamente rimandato e ora, non fosse stato per una missiva di lui, con cui le chiedeva nuove, se ne sarebbe addirittura scordata.

Dopodiché, per continuare a fingersi collaborativa con il cognato, vergò una lettera per Lorenzo, con cui lo metteva a parte proprio della sua comunicazione dei fatti al piovano di Cascina. Non gli chiese di nuovo e apertamente di accelerare le pratiche per farla entrare in possesso dell'eredità di Giovanni, ma comunque si disse fiduciosa nell'avere presto da lui almeno una relazione riguardante l'ammontare dei beni che le spettavano.

E poi, terminati questi scritti mediamente impegnativi, si dedicò finalmente alla risposta per Strozzi.

L'uomo, con tono abbastanza goffi e non molto gentili, le aveva scritto per lamentarsi del fatto che alcuni soldi, da lei – diceva – promessi tramite altre persone per un certo affare, non erano ancora arrivati e che lui aveva dovuti anticiparli di tasca propria per non perdere l'affare e l'amico con cui aveva trattato.

Siccome Caterina non aveva commissionato quella compravendita di cui parlava lo Strozzi, né, tanto meno, gli aveva mai dato incarichi per interposta persona, si era adirata non poco nel vedere come Leonardo si fosse fidato più di questi sedicenti intermediari che non di lei.

Dopo aver ragionato ancora un istante, la donna cominciò la lettera con un paio di frasi di prammatica, per poi passare all'attacco: 'Io non posso se non dolermi de facti vostri che in tanto tempo non habiate riscosso quelli benedecti denari da li obligati per Antonoro, che se non posso dire altro se non, o che voi fusti ingannato quando poigliasti tali obligati che mi dicesti essere tanto secuti et uomini da bene, overo che voi li andiate comportando a qualche vostro proposito: et io non intendo ne le cose mie raxonevole voi habiate havere più respecto ad altri che a me.'.

Concluse comunque con una sorta di rassicurazione, dicendo che se l'affare, alla fine, si fosse concluso, avrebbe pagato lei il tutto in ogni caso, e chiuse abbastanza freddamente con un secco 'Valete'.

Rilesse un paio di volte tutte le missive che aveva preparato e, proprio mentre finiva di firmarle e sigillarle, Argentina bussò di nuovo alla sua porta, per dirle che il bagno era pronto.

“Ci voleva.” disse piano la Sforza, seguendo la serva nella camera accanto e chiedendole di aiutarla, se non aveva di meglio da fare.

Mentre la Tigre si spogliava e si immergeva nell'acqua tiepida che profumava di olii balsamici, la serva commentò, quasi soprappensiero: “Anche messer Galeazzo ha chiesto un bagno. Mi fa piacere pensare che queste terre avranno un signore così attento alla pulizia.”

“Pensi che sarà lui, il mio successore?” chiese distrattamente la Contessa, massaggiandosi un po' il collo, sia per detergerlo, sia per scioglierne i muscoli.

Caterina sapeva che, probabilmente, Galeazzo avrebbe dovuto cercare la sua fortuna altrove. L'idea di farne il nuovo signore di Imola e Forlì si allontanava via via che i francesi avanzavano verso Milano, ma non per questo la Sforza rinunciava a sperare per lui un futuro ai vertici di uno Stato, quale che fosse.

“Lo pensano tutti, mia signora.” confermò la cameriera, versandole in testa un po' di acqua calda, come le aveva richiesto a gesti la Leonessa: “Tutti vedono il modo in cui lo trattate, tutti sanno che lo portate con voi in Consiglio e che seguite i suoi addestramenti. E, se posso, ritengo che messer Galeazzo sia la scelta migliore.”

“Lo credo anche io.” convenne la Tigre, senza sentire il bisogno di provare a smentire Argentina.

 

Lucrezia Medici osservò in silenzio l'ennesimo carretto che trasportava due feriti, di cui uno sembrava tanto grave da meravigliarsi che fosse ancora vivo.

Da qualche giorno, era così. Firenze accoglieva a ritmo serrato uomini che tornavano dal pisano, e solo i più fortunati riuscivano a tornare sulle proprie gambe.

La cosa che lei proprio non riusciva né a capire né ad accettare non era tanto che uomini giovani e validi perdessero un arto o la vita per una guerra. Combattere comportava quel rischio, ed era così da che il mondo esisteva. Ciò che la Medici non digeriva era il fatto che più della metà dei feriti che tornavano in città non erano soldati, ma semplici ficcanaso o contadini che, infervorati da una curiosità che lei non condivideva, si erano avvicinati troppo agli scontri, finendo per restarvi loro malgrado coinvolti.

Dopo la caduta della chiesa di San Paolo, si diceva che Pisa fosse come un girone infernale, con gli ultimi difensori arroccati in un ultimo disperato colpo d'orgoglio e gli assedianti distratti e inconcludenti, più dannosi a quel modo che non se avessero raso subito al suolo tutto quanto.

Quel giorno la Signoria e il Collegio dovevano decidere se mettere a sacco Pisa una volta e per tutte e la donna stava aspettando con ansia suo marito Jacopo per capire quale direzione avrebbe preso Firenze.

Da un lato si prospettava il saccheggio e il vilipendio di una città già sconfitta. Sarebbe stato facile, perché ormai Pisa era allo sbaraglio e la carica dei fiorentini, così esaltati dalle ultime vittorie, avrebbe travolto quel poco che ancora c'era da travolgere.

Dall'altro, invece, si apriva una via di buon senso, umanamente parlando, che avrebbe permesso ai superstiti di trattare e uscirne vivi, per quanto squattrinati e ammaccati.

Lucrezia, comunque, riteneva più sicura la prima opzione. Sarebbe stato come un gatto che giocava con il topo già in trappola, ma almeno si sarebbero tolti una spina nel fianco. Anche se suo cugino Lorenzo stava facendo di tutto per convincere la Signoria a schierarsi il più palesemente possibile con i francesi, non era detto che re Luigi li avrebbe risparmiati, una volta giunto in centro Italia, e a quel punto avere anche Pisa come fonte di problemi e spesa sarebbe stato un autentico suicidio.

Mentre il sole caldissimo d'agosto le faceva socchiudere un po' gli occhi, si riparò il viso con una mano, occhieggiando verso l'ingresso del palazzo della Signoria. Era ancora presto, ma sperava di vedere suo marito uscire tra i primi per correre da lei a raccontarle ogni cosa.

“Mia signora – le disse la serva che l'aveva accompagnata fino in piazza – forse dovremmo metterci all'ombra...”

La Medici le fece subito segno di tacere, perché aveva intravisto finalmente qualcuno uscire dal palazzo.

Un moto di insoddisfazione le fece emettere un piccolo improperio, però, mentre si accorgeva che l'uomo che aveva scorto non era il Salviati, ma Giovanni da Casale. Quel milanese, in quei giorni, non faceva che entrare e uscire dal palazzo Vecchio e, a detta di Jacopo, non stava ottenendo assolutamente nulla.

“Non credo che sia così nervoso perché gli importi davvero qualcosa della condotta per Ottaviano Riario – aveva commentato il Salviati, giusto quella notte, mentre lui e Lucrezia se ne stavano stretti l'uno all'altro a inseguire le ombre che la luce della luna gettava sul baldacchino del loro letto – ma perché ha il terrore di quello che la Sforza gli farà, se tornerà a casa a mani vuote.”

Alla spicciolata, ogni tanto qualcuno usciva dal palazzo, e quando la Medici riconobbe sia il Segretario di Stato Machiavelli – inconfondibile per il suo modo di incedere e per la sua acconciatura inenarrabile, che forse solo la calvizie avrebbe saputo domare – sia il gonfaloniere di Giustizia, cominciò ad avvertire una certa insofferenza.

Probabilmente Jacopo si era fermato a parlare con qualcuno. Certo, non poteva immaginare che sua moglie, stanca di stare in casa, in ansia per la decisione riguardante Pisa, e un po' annoiata dal curare Maria che, tranquilla come nessuno dei suoi fratelli, dormiva placidamente quasi tutto il tempo, si sarebbe presentata lì per avere in anteprima qualche notizia.

Malgrado ciò, la donna stava già cominciando a elencare nella sua mente tutti i rimproveri del caso da fare al marito, quando il Salviati, miracolosamente, si palesò.

Scansando un altro piccolo gruppo di feriti – questa volta abbastanza ben messi da non necessitare un carretto – la ventinovenne partì in direzione del suo uomo che, nel vederla incedere tanto marzialmente verso di lui, seguita a ruota da una delle loro serve, quasi si preoccupò.

“È successo qualcosa a casa?” le chiese, non appena l'ebbe a tiro d'orecchio.

“Cos'hanno deciso in Consiglio?” domandò lei di rimando, accorata.

Jacopo tirò un mezzo sospiro di sollievo e poi, camminando, per portare la moglie in un punto un po' più ombreggiato, le spiegò: “I Signori e i Collegi hanno deciso di mandare a sacco Pisa.”

La donna trattenne il fiato, ma evitò di sbilanciarsi, perché era chiaro che il discorso del Salviati non fosse terminato.

“Ma il Consiglio ha bocciato la proposta.” concluse infatti lui.

“Conigli.” soffiò la Medici, assecondando il marito che, abbastanza svelto, si stava indirizzando verso casa.

“Credo sia in parte una mossa per far cadere Vitelli. A tanti membri del Consiglio non piace e lo stanno accusando di aver perso tempo e che, ormai, il sacco a Pisa sarebbe solo uno spregio e non sarebbe nemmeno più così semplice...” proseguì l'uomo, stringendo appena le labbra: “Vogliono accusarlo di non aver colto l'attimo e dato il sacco a Pisa il giorno stesso in cui ne ha varcato le porte.”

“Ma non ne sarebbe stato in grado...” si accigliò Lucrezia, seguendo i passi svelti del marito senza problemi.

“Lo so. E lo sanno anche loro. Ma pensi faccia differenza?” negli occhi tranquilli di Jacopo s'era infilata una lama di tristezza, come tutte le volte in cui era reso partecipe di un raggiro ai danni di qualcuno che, malgrado tutto, riteneva degno di stima e lealtà.

“No, lo so... Non fa alcuna differenza.” fece eco la donna, abbassando lo sguardo sulla strada, sporca di sterco di cavallo e polvere.

“La nostra Maria come sta?” chiese allora il Salviati, quasi a volerla riscuotere.

“Bene. Lei sta sempre bene...” fece Lucrezia, con un sospiro: “Credo che se anche il mondo crollasse, lei resterebbe comunque la bambina più silenziosa e paziente delle Terra.”

 

Caterina era appena stata da Giovannino. L'aveva fatto mangiare e aveva avuto conferma in prima persona di quello che già Bianca e le balie le avevano detto: da che era guarito, il suo ultimogenito mostrava un appetito di ferro.

Come prima non faceva capricci, mangiando indistintamente tutto quello che gli veniva dato e, se si smetteva di proporgli bocconi, non protestava per averne di più. Tuttavia, finché gliene si dava, lui mandava giù.

Stava ancora ricordando come il piccolo avesse assaggiato con gusto qualche pezzo di stufato di cinghiale che la donna aveva fatto conservare apposta per lui, quando Luffo Numai si schiarì la voce e riprese a parlare.

Erano nella Sala della Guerra, per discutere alcune novità. Nulla che li interessasse da troppo vicino, ma Caterina aveva voluto al suo fianco Numai, il castellano, un paio di fidati Capitani e l'Oliva.

Per quella volta aveva evitato di portarsi appresso il suo figlio più piccolo e anche Galeazzo, che doveva addestrarsi con l'arco, quel pomeriggio. In fondo, si era detta, se vi fosse stato qualcosa di importanti di cui metterlo a parte, avrebbe potuto farlo con calma più tardi.

“Quindi Tiberti, a parer mio, possiamo considerarlo un uomo perduto.” disse piano Luffo, alla fine della sua lunga trattazione.

Di Achille, in effetti, avevano perso un po' le tracce da qualche tempo. Ma sapevano, con quasi assoluta certezza, che stesse facendo confluire a Roma molte delle sue conoscenze e questo lasciava intendere che avesse infine deciso da che parte stare.

“E l'Alviano?” chiese Caterina, prendendo tra le mani il segnalino di legno che indicava il papa.

L'Oliva notò quel gesto e comprese che la sua signora aveva fatto un collegamento mentale molto preciso e, purtroppo, molto corretto: “Il suo ascendente a Venezia è ancora forte. Ha chiesto una condotta al Doge, per Baldassarre di Scipione, e l'ha ottenuta subito. Ma ciò che a noi interessa davvero è quello che sta facendo con il papa.”

“Quel dannato Borja gli ha dato una condotta?” chiese la Tigre, rimettendo il segnalino al suo posto, trattenendosi a stento dal lanciarlo sulla mappa o, ancora meglio, nel camino.

Quella volta le fiamma, almeno, sarebbero state spente, non come quando aveva ceduto a un impulso molto simile, mandando l'effige lignea di Alessandro VI a bruciare come meritava.

“Sappiamo che il papa intende dargli il comando dei cavalleggeri e che, di rimando, l'Alviano ha mandato Francesco Santacroce a Roma, affinché conduca al campo un contingente di fanti spagnoli.” fece l'Oliva, con cautela.

La Contessa strinse i denti e poi chiese: “Al campo in Lombardia?”

“Sì. Per contrastare gli uomini di vostro zio.” la donna deglutì e poi, con una certa risolutezza, disse: “Ebbene, non appena Milano cadrà, richiameremo qui a Forlì Dionigi Naldi. Sarebbe inutile sprecare un simile uomo per una battaglia persa in partenza.”

“Sempre che non l'uccidano nel frattempo.” constatò un po' dolente il castellano.

“Notizie da vostro nipote Tommaso?” chiese la Leonessa, come ricordandosi solo in quel momento della presenza silenziosa e discreta di Cesare Feo.

“Gli ho scritto. Tre volte. Ma ancora non mi ha risposto. Il Bosco non dovrebbe essere ancora stato preso, ma comincio ad avere paura per la sua sorte.” ammise l'uomo, abbassando lo sguardo.

Caterina non sapeva come consolarlo. C'erano momenti, quando si perdeva nei ricordi, in cui Tommaso le mancava. Le era stato accanto in tanti momenti cruciali della sua vita e sarebbe sempre stato legato anche alla memoria di Giacomo, nel bene e nel male. Tuttavia, anche nel pensarlo in pericolo, non riusciva a provare per lui altro che un distaccato senso di ansia.

Era il fratello del suo grande amore, il vedovo di sua sorella, lo zio di uno dei suoi figli, eppure, con il passare degli anni, per lei era diventato quasi un estraneo.

“Se dovesse rispondervi, o se in qualche modo doveste avere sue notizie, vi prego, fatemelo sapere subito.” concluse la Sforza, scostandosi un po' dalla mappa e chiudendo la riunione: “Se non c'è altro...”

“Solo una cosa...” disse Luffo, ma a voce bassa, quando gli altri già si stavano dileguando: “Avete notizia di quando arriverà Puccio Pucci da Firenze?”

La Contessa comprese la sua ansia e cercò di stemperarla un po' assicurando: “Non abbiate paura, non verremo a disturbarvi, quando arriverà. Posso permettermi benissimo di pagare la prima rata per conto mio. A giorni dovrebbero arrivarmi i primi soldi dei gioielli che ho impegnato a Venezia e quindi...”

“La promessa che ho fatto, io la manterrò.” la interruppe l'uomo, guardandola negli occhi: “Se avete bisogno, il mio palazzo è aperto.”

“Lo so. Grazie.” fece lei, capendo che non sarebbe servito a nulla fingere di non avere bisogno del suo appoggio.

Stava per lasciarlo andare, quando un'idea la colse. Ci aveva pensato tante volte, ma non aveva mai avuto il coraggio di parlargliene apertamente.

Aspettò che nella Sala della Guerra ci fossero solo loro due e poi gli chiese: “Se vi chiedessi un altro favore, così grande da poter mettere a repentaglio non solo la vostra vita, ma anche quella della vostra famiglia intera, voi cosa mi rispondereste?”

Numai ci pensò un momento. Sentì un brivido correre lungo la schiena e pensò a sua moglie e a come avrebbe reagito nel saperlo tanto folle da accettare un impegno che pareva tanto pericoloso.

“Risponderei che ho giurato a me stesso di esservi fedele e di proteggervi, per quanto possibile.” fu la sua risposta.

La Tigre fece un respiro profondo. Aveva bisogno di un appoggio stabile che le permettesse di far scappare i suoi figli, nel caso avessero ritardato troppo la fuga da Forlì. E Numai era l'unico di cui si fidasse abbastanza.

“Bene. Avremo tempo di parlarne.” concluse, rendendosi conto di non aver la forza di affrontare subito quell'argomento che, ogni volta, la gettava in un panico inesorabile e calmo, ancor più tragico e destruente di quello frenetico che aveva provato nei momenti di crisi improvvisa.

Era come un'onda altissima, ma lenta, abbastanza forte da rovinare tutto quello in cui si imbatteva, ma non tanto subitanea da distruggere tutto con furia. Era qualcosa di strano, un tipo di paura profondo e costante, lo stesso tremito che la portava, in quel periodo, a cercare di spegnersi ogni notte nell'abbraccio di qualche sconosciuto.

“Quando volete, mia signora. Servo vostro.” annuì Luffo e, guadagnando infine la porta, si chiese se, con quella sua semplice ammissione di fedeltà, avesse in qualche modo firmato una condanna a morte non solo per sé, ma anche per tutti quelli che amava.

 

 
 
   
 
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