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Autore: Adeia Di Elferas    07/06/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Lucrecia osservava in silenzio la sua dama di compagnia che finiva di acconciarle i capelli. La visione un po' distorta della realtà che le dava lo specchio che aveva dinnanzi a sé, le faceva quasi sembrare buffa tutta quella situazione.

La sua amica – tale voleva considerarla, benché le paresse, come tutte le altre, solo una sconosciuta che le sorrideva per ingraziarsi di riflesso il papa – si trovava, nel vetro levigato che la rifletteva, ad avere un viso esageratamente lungo e le labbra curve e deformate, mentre lei, la giovane Borja che tutti ritenevano bellissima, sembrava solo una bambina imbronciata con gli occhi troppo stanchi e le guance arrossite.

“Mio fratello Jofré..?” domandò Lucrecia, mentre la sua dama di compagnia tirava l'ultima ciocca bionda per fissarla a lato della testa.

“Credo sia quasi pronto.” disse piano la giovane.

La figlia del papa annuì appena, quasi felice di vedere le piccole mani dell'altra rincorrere i capelli che le erano scivolati tra le dita per colpa di quel movimento improvviso.

Non che le importasse, di avere suo fratello accanto, ma quel giorno era di pessimo umore e trovarsi completamente sola al centro dell'attenzione sarebbe stato solo un peso. Quel 21 agosto avrebbe ricevuto la carica ufficiale a Governatrice di Spoleto e si stava apparecchiando per lei una grande festa che, però, la Borja avrebbe volentieri disertato. Il sole era sorto da poco, eppure il programma era così serrato che la ragazza aveva dovuto svegliarsi quando ancora c'era buio. Tutto, per poter essere vestita e agghindata come si confaceva alla sua nuova carica. Tutto per qualcosa che, in realtà, non voleva.

L'unica cosa che voleva era riavere Alfonso. Anche se Spoleto non le dispiaceva e anche se, doveva ammetterlo, c'erano stati momenti di sincero entusiasmo, nel suo animo, da che era lì, appena aveva modo di fermarsi un istante, tutto ciò a cui pensava era suo marito.

Accarezzandosi il ventre gonfio, nel quale stava crescendo il suo secondo figlio, Lucrecia sospirò e chiese alla dama di compagnia quanto le ci voleva ancora per finire di pettinarla.

Questa assicurò che aveva quasi fatto tutto il necessario per farla apparire 'bella come una regina', ma di fatto si perse ancora per qualche minuto per gli ultimi ritocchi e così la Borja ebbe ancora un po' di tempo per pensare al suo Alfonso.

Lo voleva, lo voleva disperatamente, più di qualunque altra cosa, più di qualsiasi altro uomo. Non esisteva in terra altro amante possibile, per lei. Era l'unico che riuscisse ad arrivare al suo cuore, a stringerlo nel pugno e a liberarlo con una carezza.

Ogni giorno riceveva rassicurazioni in merito alle trattative tra Napoli e il papa, ma sapeva che se suo padre sapeva essere testardo e cocciuto, anche gli Aragona non scherzavano e temeva che avrebbero fatto pagare al Santo Padre la sua decisione di cacciare da Roma Sancha con scandalo, impedendo ad Alfonso di tornare da lei.

“Ecco, adesso siete perfetta.” concluse la ragazza, sollevando finalmente le mani dal capo della Governatrice di Spoleto.

Lucrecia si osservò allo specchio. Quasi non si riconosceva in quegli arzigogoli e in quelle treccine incrociate in ogni direzione. Ricordava con nostalgia la sua infanzia, quando correva libera nei giardini di casa sua, a Subiaco, sotto lo sguardo benevolo di sua madre, sfuggendo ora a Juan, ora a Cesare, che non desideravano altro che stare con lei... Juan, che aveva finito la sua vita buttato, già cadavere, nelle acqua impetuose del Tevere...

“Grazie.” disse, secca, alzandosi finalmente dalla sua sedia e tirando un sospiro di sollievo: “E adesso andate a vedere se mio fratello è pronto. Non voglio far aspettare oltre i miei ospiti.”

 

Bianca aveva ancora molto sonno, ma il sole era sorto da un po' e non voleva starsene a letto troppo a lungo. Era scesa presto in cucina, per incontrare un paio di sue amiche e poi, mangiato in fretta qualcosa, stava aspettando che arrivasse l'ora per la sua lezione di cucito.

Se voleva ritagliarsi il tempo per imparare quello che le piaceva, e che doveva, per accordi con sua madre, relegare ai momenti liberi da altri impegni, doveva per forza essere mattiniera.

“Crolli dal sonno!” le aveva detto la cuoca, prima, intenta già a quell'ora a rimestare le verdure per il pranzo.

E in parte l'immagine era davvero realistica. Anche in quel momento, infatti, Bianca ciondolava per il corridoio, puntellandosi di quando in quando contro il muro, assorta, attendendo di sentir suonare le campane. Allo scoccare dell'ora, infatti, aveva buone probabilità di trovare la sua maestra – una delle serve della rocca – finalmente libera dai suoi primi impegni mattutini e pronta per dedicarsi a lei per almeno un'oretta.

Salì le scale un gradino alla volta, con lentezza, la mente che cominciava a perdersi nei ricordi della notte appena passata. Se aveva tanto sonno, infatti, non era solo per via del risveglio prematuro, ma anche perché aveva dormito molto poco.

Si era intrattenuta fino a tardi nei locali della servitù e poi si era incontrata con il soldato con cui, qualche giorno prima, l'aveva vista anche Ottaviano. Non avevano fatto granché. Si erano baciati, si erano sfiorati, le loro mani avevano trovato la strada per infilarsi sotto gli abiti, ma nulla di più.

Quel ragazzo non le dispiaceva, era quasi suo coetaneo, e aveva un bel fisico. Non faceva mai discorsi interessanti, ma lei non se lo teneva vicino certo per far conversazione. E, cosa per lei ancora più importante, non era mai stato tra le prede di sua madre.

Con lui non si era spinta oltre il limite che lei stessa si era prefissata. Però voleva capire, voleva conoscere e così, ogni volta, si faceva sempre più ardita, con lui. Era docile, per fortuna, ed era facile scrollarselo di dosso, quando le cose si facevano troppo spinte.

La Riario non sapeva ancora cosa voleva dalla vita, ma la paura cominciava a montare in lei come un'onda lenta, qualcosa di inesorabile. Vedeva sua madre ancora abbastanza tranquilla e non le aveva ancora parlato in modo concreto dei suoi progetti per mettere lei e i suoi fratelli al sicuro, quindi era probabile che, almeno per il momento, non si aspettasse un'invasione imminente.

Ma alla fine i francesi sarebbero arrivati, lo sapevano tutti, e Bianca ricordava anche troppo bene quello che i francesi avevano fatto a Mordano, e giorno dopo giorno, notte dopo notte, più ci pensava più arrivava alla conclusione che, prima di rischiare di fare la fine delle donne prese a Mordano, avrebbe davvero voluto provare ad avere un uomo solo perché lo voleva.

Non era più solo la curiosità a spingerla, né la voglia di libertà, tanto meno l'attrazione per qualcuno in particolare. Da quando era morto Manfredi, Bianca aveva cominciato a ragionare sulla sua situazione in modo molto più freddo e distaccato.

Però, per il momento, si limitava a valutare l'idea, senza spingersi oltre.

Era ormai arrivata al piano e si accorse subito della madre seduta a una delle panchette di pietra, con in braccio Giovannino e un libro nella mano libera, intenta a leggere.

“Sei già sveglia a quest'ora?” chiese la Tigre, abbassando il volume, tenendo il segno con l'indice, mentre la figlia avanzava verso di lei.

La Riario abbozzò un sorriso e ribatté: “Mi avete insegnato voi, a dormire lo stretto indispensabile e svegliarmi presto.”

La Sforza, che quella notte non aveva quasi chiuso occhio, finendo per recarsi nella stanza dell'ultimogenito prima dell'alba, trovandolo a sua volta sveglio, sollevò un sopracciglio e commentò: “Tu e i tuoi fratelli finite sempre per imparare da me quello che non dovreste.”

La giovane non sapeva come interpretare di preciso quella frase, così evitò di farlo e, con il pretesto di salutare il fratellino, si avvicinò ancora di più e accarezzò il piccolo sulla fronte, dicendo: “Si è ripreso molto meglio di quel che potevamo immaginare.”

“Ha il mio sangue. È forte.” sussurrò Caterina, chiudendo il libro una volta per tutte, capendo che non sarebbe riuscita a continuare la sua lettura.

Non che fino a quel momento fosse stata particolarmente proficua. In tutto, in quasi due ore, aveva letto sì e no dieci pagine, e per almeno la metà si era distratta così tanto da non ricordarsi nemmeno di cosa parlasse il tomo che si era scelta.

“Stai aspettando di fare lezione di cucito?” domandò la Contessa, guardando Giovannino e sollevando solo alla fine gli occhi verdi verso quelli blu scuro della figlia.

Questa annuì e, stupita un po' come sempre di vedere la madre tanto al corrente di tutto, benché ai più apparisse completamente disinteressata ai figli e alle loro occupazioni, chiese, quasi per fare conversazione che per altro: “Mio fratello Cesare ha scritto anche a voi?”

Dal modo in cui la Leonessa incrinò le labbra, la ragazza capì subito la risposta, ma aspettò comunque che la donna dicesse: “No, non mi ha più scritto.”

“Si vede che non vuole disturbarvi.” tagliò corto la Riario, rendendosi conto troppo presto della leggerezza con cui aveva commesso quel passo falso.

“Che dice?” chiese comunque la Sforza.

“Nulla di importante.” assicurò Bianca, mentre prendeva tra le braccia Giovannino, che aveva teso verso di lei le piccole mani: “Si sta stancando di Roma e si augura che la guerra a Pisa finisca presto. Lui vorrebbe partire subito, anche se la città rischia il sacco, ma nostro cugino Raffaele glielo sta impedendo, per la sua sicurezza.”

“Se c'è una cosa che dovremmo imparare tutti da nostro cugino Raffaele – soppesò la Contessa, con un'espressione dura in volto – è la prudenza. Comunque, quando ti capiterà di scrivergli, fai sapere a tuo fratello che la guerra a Pisa finirà presto. Sto aspettando che Pirovano mi riferisca cosa la Signoria ha deciso per il sacco alla città, ma che lo facciano o meno, le ostilità stanno per chiudersi.”

“Ne sembrate certa.” fece la giovane, appena distratta da dei passi che salivano le scale alle sue spalle.

“La sono. I francesi si stanno muovendo in fretta verso Alessandria, e appena Alessandria cadrà, la prossima vittima sarà Milano.” spiegò in fretta Caterina, anch'ella distratta dai passi che riecheggiavano nel silenzio della rocca: “E mio cognato Lorenzo vuole avere la testa libera e l'esercito in salvo per aiutare re Luigi a proseguire la sua cavalcata, dritto verso di noi. Quel francese ha sete di sangue. È un nostro cugino, in fondo, ha il sangue dei Visconti nelle vene. Non si fermerà, se capirà di avere il passo facile.”

La Riario avrebbe voluto fare tante domande, in primis avrebbe voluto sapere perché il Medici fosse davvero così deciso a spalleggiare i francesi e poi avrebbe voluto chiedere perché il re di Francia, ottenuta Milano, avrebbe davvero dovuto assecondare il papa, marciando sulla Romagna, ma dalle scale era infine arrivato il Capitano Mongardini e il modo in cui andava loro incontro fece capire a Bianca che dovesse parlare proprio con sua madre.

Così, con discrezione, si fece un po' da parte, con il fratello in braccio, ma non se ne andò, perché la Tigre le fece segno di restare.

“Cosa c'è?” chiese la Contessa, fissando il soldato.

L'uomo si scusò per il disturbo con un cenno del capo e salutò anche la Riario, poi si schiarì la voce e disse: “Sono venuto a cercarvi per conto del Governatore. Ecco, crede che ci sia un nuovo caso di peste in città.”

“Dove?” s'informò la Sforza, lasciando la panchetta di pietra.

“Nei bassifondi, mia signora.” rispose lui.

Caterina strinse gli occhi e si informò: “Il Governatore era lì a quest'ora per fare i controlli che gli ho ordinato?”

Mongardini stirò un sorriso, mettendo in mostra i piccoli denti bianchissimi e poi, un po' in imbarazzo, ammise: “No, non per quello.”

Non c'era tempo per arrabbiarsi. La Sforza voleva vedere di persona se quello che Ridolfi aveva visto era davvero un appestato e, nel caso lo fosse, avrebbe dovuto subito inasprire le restrizioni sulla popolazione. Aspettava l'arrivo di Bartolomeo Beliardo solo il giorno dopo, ma avrebbe potuto fargli avere un messaggio veloce per costringerlo a presentarsi con qualche ora d'anticipo, se necessario.

“Mandate a chiamare il mio medico, voglio che ci sia anche lui, per darci conferma.” ordinò la donna, rivolgendosi al Capitano, e poi, voltandosi verso la figlia, soggiunse: “Porta Giovannino nella sua stanza e il mio libro nella sala delle letture e...”

La ragazza aveva già recuperato il tomo ed era pronta a congedarsi, quando la mente della madre venne attraversata da un'idea molto precisa.

“Vuoi venire con me?” le chiese.

Colta un po' alla sprovvista, la Riario stava già per dire di sì, quando Mongardini tossicchiò un momento, per attirare l'attenzione della Tigre, e disse: “Mia signora... Il caso di sospetto di peste, ecco, sarebbe in un bordello.”

“Ah, ecco perché Ridolfi l'ha scoperto.” sbuffò Caterina, colta da un lampo di comprensione, poi guardò la figlia, che era arrossita leggermente, e le chiese: “Per te è un problema?”

Bianca scosse il capo, così la Contessa annuì e ripeté a Mongardini di andarle a cercare il suo medico e di farlo andare subito sul posto.

“Se per te non è un problema – disse poi, dedicando un breve sguardo alla giovane – allora non lo è nemmeno per me. Avanti. Porta in camera tuo fratello, io sistemo il libro. Ci vediamo tra cinque minuti al portone.”

 

“Io invece dico di restare!” gridò Alessandro Sforza, i suoi trentaquattro anni che rendevano la sua voce profonda e autorevole, senza, però, farlo sembrare troppo vecchio per quello slancio di coraggio: “Alessandria non deve cadere o Milano sarà persa!”

“Milano è già persa!” ribatté con furia Lucio Malvezzi, che si era rotto la testa giorno e notte in calcoli di ogni tipo per capire se il Duca avesse anche solo una remota possibilità di farcela: “Non ha senso ostinarci a combattere! Ci uccideranno tutti e senza un valido motivo! Il nostro sacrificio non servirà a nulla!”

Il Consiglio di Guerra che era stato aperto appena un'ora prima, lì ad Alessandria, si era infiammato come una torcia nell'arco di pochi minuti.

I toni si erano accesi subito e tutti i comandanti, invece di cercare di arrivare a un accordo, altro non aveva fatto se non gridarsi addosso, finendo per recriminare screzi e torti di anni prima, allargando la contesa a parenti di primo e secondo grado, amici e conoscenti. Quando, però, si era riusciti a riportare la conversazione sull'ordine del giorno, ovvero decidere se difendere Alessandria o abbandonarla prima dell'arrivo dei francesi, si era toccato il punto più alto di nervosismo.

“Galeazzo Sanseverino – ricordò lo Sforza, che era in fretta diventato il capo di quelli decisi a restare – ha portato con sé qui milleduecento lance, milleduecento cavalleggeri e tremila fanti! Vi dico che possiamo resistere!”

“Voi siete un pazzo!” l'attaccò subito Malvezzi: “Pazzo a pensare che questo Sanseverino sia diverso dagli altri! Suo fratello, Giovan Francesco, è dalla parte dei francesi! Chi vi dice che anche lui non sia in combutta con re Luigi?!”

“Giovan Francesco sarà coi francesi, ma Fracassa è con Milano! E così Galeazzo!” sbottò Alessandro, sempre più paonazzo.

“E comunque – soggiunse proprio Galeazzo Sanseverino, che se n'era stato zitto fino a quel momento – mio fratello Giovan Francesco sta pensando di lasciare i francesi e ritirarsi a Napoli.”

Quella rivelazione, però, non portò variazioni di vedute in Lucio, che, anzi, ne approfittò per dare dei voltagabbana ai Sanseverino una volta di più.

“L'unica certezza – tagliò corto Alessandro, asciugandosi la fronte, fradicia di sudore non tanto per il calore di quel 21 agosto, quanto per la tensione – è che Gian Giacomo da Trivulzio è nei pressi di Casteggio, adesso. Mia nipote Ippolita farà di tutto per rallentarli, ma non può certo far miracoli...”

“Vostra nipote Ippolita...” lo derise Malvezzi, che trovava la situazione ormai quasi comica: “Ci state dicendo che il nostro destino sarebbe appeso alle capacità di una donna di diciotto anni?”

Quella stoccata fece di nuovo perdere le staffe ad Alessandro che, per quanto abbastanza calma come animo e di nervi saldi, non sopportava sentire attaccare la propria famiglia, specie l'orfana di suo fratello Carlo e così, prima di trovare le parole per ribattere, si trovò ad alzare le mani.

Galeazzo Sanseverino assistette, senza intervenire, alla zuffa tra lo Sforza e Malvezzi e fu proprio in quel momento che capì la situazione disastrosa in cui il Moro li aveva gettati.

Uscì dal salone di soppiatto. Una volta fuori, si prese qualche minuto per osservare dalla finestra il cielo terso sopra Alessandria. Sospirò e andò a cercare il suo attendente.

“Aspettiamo qualche giorno. Appena i francesi ci saranno alle coste – decretò – voglio che tutti i miei uomini siano pronti ad andarsene. Ci sposteremo a Pavia, se riusciremo. Ha ragione Malvezzi, è da sciocchi perdere tempo e uomini qui ad Alessandria. Solo un testardo orgoglioso e tronfio come uno Sforza può pensare che sia una buona idea...”

 

Un cane randagio abbaiava come un matto appena fuori dalla porta, mentre alcune delle ragazze e un paio di ragazzi – anzi, sarebbe stato più giusto definirli ragazzini – che lavoravano nel bordello attendevano in strada di sapere cosa ne fosse della loro collega tacciata di essere un'appestata.

Più che l'umana pietà per l'ammalata, però, tra loro serpeggiava la paura di essere in pericolo e di potersi trovare un bubbone da qualche parte ed esser morti prima di rendersene conto.

A stonare un po', appena dentro al postribolo, c'era il Governatore. Spettinato, la barba arruffata, i vestiti in disordine e gli occhi cerchiati, sembrava un fantasma, più che un uomo. Come tutti aspettava il responso della Tigre e del medico, ma sapeva benissimo cos'aveva visto. L'unica consolazione stava nel fatto che quella donna gli si era offerta quando lui aveva già soddisfatto i suoi bisogni con un'altra, altrimenti, forse, accecato dal vino e dal desiderio, avrebbe rischiato di vedersi contagiare.

Aveva ancora la bocca impastata e la vista un po' annebbiata. Era stata una notte terribile. Sua moglie gli aveva fatto avere una lettera in cui gli chiedeva di tornare da lei e, come unica reazione, il fiorentino aveva passato ore e ore a rimuginare, per poi uscire in cerca di qualcosa di forte da bere e di qualcuno con cui tirare l'alba.

La Contessa era sparita dietro la porta di uno degli sporchi cubicoli di quel bordello già da qualche minuto. Si era portata appresso il suo dottore e la figlia. Simone avrebbe avuto molto da ridire, circa quella scelta, ma non aveva osato profferir parola.

“E quella secondo voi è peste?!” la domanda, gridata con rabbia dalla Sforza, non appena uscì dalla stanzetta, fece trasalire il Governatore.

Alle spalle della Leonessa, il medico lo fissava con aria contrariata, mentre la Riario, che si era soffermata un attimo di più con la malata, stava osservando circospetta l'ambiente che la circondava, apparentemente incuriosita e orripilata in egual misura da ciò che vedeva.

“Questo – proseguì furiosa Caterina, indicandosi alle spalle – è mal francese! Seriamente, Ridolfi, uno come voi non riconosce una piaga venerea da un bubbone pestifero?!”

Quella rivelazione fece trasecolare il fiorentino, che riuscì a malapena a balbettare: “Mal francese..?”

“Che diamine. Se non lo sapete riconoscere, posso solo pregare che vostra moglie sia abbastanza sveglia da farlo al posto vostro...” borbottò la Contessa, scuotendo il capo: “In ogni caso, questa segnalazione ha una sua utilità.”

Simone era ancora abbastanza sconvolto da non capire subito quello che era stato detto. Anche se aveva visto la peste, a Firenze, ne era sempre stato ben lontano, e forse era quello il motivo per cui, nel vedere una lesione che non conosceva, aveva subito pensato alla morte nera, suggestionato dai casi che iniziavano a moltiplicarsi nelle campagne.

“Questa ragazza non deve più lavorare.” disse la Tigre, rivolgendosi al proprietario del postribolo, un uomo di una certa età, pelato e con qualche dente di meno: “Almeno non nel modo in cui l'ha fatto finora. Se vengo a scoprire che la vendete ancora ai clienti, giuro che vi faccio chiudere questa bettola. E lo stesso vale per tutti gli altri malati che troveremo.”

Poi si voltò verso il medico e gli chiese se fosse disponibile a visitare anche tutti gli altri. Questi non era entusiasta all'idea, ma, suo malgrado, tergendosi la fronte umida, annuì.

“Vieni, Bianca. Non c'è altro da vedere.” concluse la Tigre, facendo cenno alla figlia di seguirla e poi, rivolgendosi a Ridolfi, disse: “E poi criticate me, che, se ne ho voglia, almeno vado in locande pulite, e non in topaie del genere.”

In strada, il cane randagio continuava ad abbaiare mentre il medico, coadiuvato da due soldati, faceva rientrare tutte le ragazze e i ragazzi nel bordello per visitarli.

Caterina sentiva la testa pulsare. Era stata attenta, in quegli anni, a tenere il più possibile il mal francese lontano dal suo esercito e dal suo popolo. Non era facile, e anche a Forlì e Imola c'erano molto contagiati. Però, rispetto ai paesi con cui confinava, poteva dirsi fortunata. Scoprire che nei bassifondi, spesso frequentati dai soldati perché economici, c'erano casi che passavano sotto silenzio a quel modo, la stava destabilizzando.

Lei stessa rischiava. Anche se di norma faceva caso allo stato di salute dei suoi amanti, aveva avuto incontri talmente confusi e spesso frettolosi, da rendere difficile accertarsi sempre di correre pochi rischi.

“Madre, state bene?” chiese Bianca, al suo fianco.

“Stai zitto, cagnaccio!” abbaiò la Sforza, dietro al randagio che, con un guaito, batté subito in ritirata, spaventato da una belva molto più vorace di lui: “Sto bene.” concluse poi, guardando la figlia.

Tornarono verso Ravaldino quasi senza parlare. Solo all'altezza della statua di Giacomo Feo la Contessa ritrovò la voce.

“Spero che tu ti ricorderai quello che hai visto oggi. Stai attenta, quando ti scegli un uomo. Una leggerezza può costarti la salute per sempre.” disse piano Caterina, avviandosi al ponte levatoio.

La Riario annuì, ma non commentò in alcun modo.

“Mi raccomando.” ribadì la Leonessa: “Mi raccomando...”

La giornata proseguì tra alti e bassi. La Sforza si trovò ad affrontare di nuovo il problema degli approvvigionamenti, che scarseggiavano e che andavano ridistribuiti in modo da arrivare all'inverno nel modo migliore possibile. Passò in rassegna alcuni baraccamenti del Quartiere Militare, in uno slancio di preoccupazione per quello che era successo quel giorno, chiese al suo medico di controllare anche almeno i soldati di stanza alla rocca. Passò un paio d'ore nello studio del castellano ad analizzare l'ultima proposta fiorentina per Ottaviano, che tutto aveva fuorché la serietà di un accordo tra uno Stato e un altro, e infine discusse della posizione del Moro, arrivando perfino a chiedersi se fosse il caso di provare a contattare Bona di Savoia.

Alla fine scartò l'idea, dicendosi che non si scrivevano da troppi anni. Non voleva più avere sue notizie. Per quanto l'aveva amata da bambina, tanto l'aveva odiata, da ragazza e altrettanto le era indifferente ora, a trentasei anni.

Infine, calato il buio, riuscì a mettere qualcosa sotto i denti. Combatté il caldo ancora pressante con una mezza brocca di vino fresco e poi, quasi a esorcizzare la paura di quello che aveva scoperto quella mattina nel bordello, uscì e cercò compagnia nei pressi del Quartiere Militare.

Aggirandosi come una Tigre in cerca di sangue fresco con cui dissetarsi, scelse un soldato che non conosceva, gli chiese di cercare un amico, e poi, assieme a entrambi, riparò in una locanda che conosceva poco, ma che offriva stanze dai letti ampi abbastanza per accoglierli comodamente tutti e tre.

 

Bianca aveva visto sua madre lasciare la rocca, quando s'era fatto buio. Era stato un caso. Era salita un momento sui camminamenti per cercare Galeazzo, che si era mescolato ai soldati di ronda. Le premeva dirgli che gli aveva lasciato il libro che voleva nella sua stanza – il De Bello Gallico di Cesare – e che poteva tenerlo quanto voleva.

E invece, mentre osservava assorta la città immersa nel buio, aveva riconosciuto l'abito di raso tané di sua madre che passava sopra al ponte e si allontanava nell'oscurità.

Sapeva benissimo dove stava andando. O meglio, sapeva cosa stava andando a fare e tanto le bastava.

Avvertì una profonda inquietudine scenderle in fondo all'anima e, così, quando finalmente trovò Galeazzo, invece delle parole gentili e dolci che gli rivolgeva di solito, gli si rivolse in modo pratico e un po' freddo, dicendogli solo: “Il libro te l'ho messo in camera, tienilo quanto ti pare.”

Il fratello annuì, la ringraziò e poi fu sul punto di chiederle se ci fosse qualcosa che non andava, ma, seguendo in silenzio lo sguardo della sorella, intravide la figura della Leonessa ormai all'altezza della statua di Giacomo Feo, illuminata da una delle torce che circondavano il basamento del monumento.

Capì subito e preferì non dire nulla.

La Riario riuscì a dedicargli un mezzo sorriso e poi, senza aggiungere altro, lasciò i camminamenti e scese nelle cucine. Si sentiva irrequieta e insicura. Non riusciva a capire sua madre, per quanto ci provasse. Immaginava che la sua fame fosse una reazione a qualcosa, come le violenze subite o la paura per quello che poteva accadere o anche le tragedie che l'avevano travolta nel corso della sua vita. Bianca voleva credere che fosse così e non che fosse una piega della sua natura, così profonda da non poter essere cambiata, perché in quel caso anche lei rischiava di esserne afflitta, magari non subito, ma in un futuro nemmeno troppo lontano...

Incontrò vicino alle scale, come da accordi, il giovane soldato con cui alle volte si intratteneva fino a tarda sera. Si baciarono, lo cercò sotto il giubbone, infilò una mano sotto la stoffa delle sue brache, si sentiva così confusa e quasi febbricitante di vita che fu sul punto di rompere gli indugi e chiedergli di salire in camera sua, questa volta non per mettersi alla prova o per rimangiarsi la parola all'ultimo momento, ma per andare fino in fondo.

Poi, però, mentre lui la premeva un po' contro il muro, nella penombra del loro angolino, mentre lei lo sentiva distintamente contro di sé e sotto le sue dita, provò un senso di vuoto che la spaventò.

Pensava che, probabilmente, per com'era stata educata e per come si era formata, in modo libero rispetto alle sue pari e senza costrizioni, malgrado un matrimonio – solo sulla carta – che la voleva legata a un ragazzino imberbe, alla fine avrebbe davvero trovato il coraggio di sfamare quella sua voglia e avrebbe scelto un uomo, che le piaceva, capace di darle quello che cercava, prima di correre il rischio di finire in mano ai francesi.

Ma non quella sera.

Scostò con una certa delicatezza il soldato e gli sussurrò: “Basta. Non posso.”

Lui restò un po' contrariato, ma, come aveva fatto anche altre volte, pensò che quella fosse solo una battuta d'arresto momentanea e che, la sera seguente, avrebbero ricominciato daccapo.

“Forse è meglio che non ci incontriamo più così.” fece la ragazza, facendo scivolare via le mani dalla pelle calda e pulsante del soldato: “Davvero, credimi.”

Il giovane ancora si sentiva convinto che quella fosse una delle tante volte in cui la figlia della Sforza si lasciava prendere da chissà quali fantasmi e così, con un altro bacio, più leggero e meno invadente, le disse: “Va bene. Ma se domani sera mi cerchi ancora, io sarò qui.”

 

Quella sera, Simone si trovò da solo con i suoi pensieri. Era stata una giornata cominciata ancora nel cuore della notte, e nel peggiore dei modi. Poi gli impegni si erano susseguiti, dandogli poco spazio per riflettere e capire.

Calato il buio, però, chiuse fuori dalla stanza le zanzare, si trovò alla scrivania, davanti alla lettera di sua moglie Lucrezia.

Quelle della sua donna non erano suppliche, né lamentele. Semplicemente gli diceva che le avrebbe fatto piacere stare un po' con lui, come quando erano sposati da poco.

Era come se volesse dirgli che gli altri non le bastavano più. Che voleva di nuovo quel senso di sicurezza che coglieva entrambi quando, stanchi e sorridenti, si trovavano stretti assieme sotto le coperte dopo una notte di battaglia.

Ridolfi avrebbe voluto accettare subito. La disavventura al bordello, poi, gli aveva fatto rivalutare tanti aspetti della sua condotta. E invece sapeva di non potere. Il suo destino era appeso a un filo e se fosse stato cacciato da Forlì, dove sarebbe andato? E a fare cosa?

Poteva davvero abbassarsi a fare il contabile per sua moglie? Per una donna che non era in grado di stare in un letto solo?

E la Tigre glielo avrebbe lasciato fare? Era una donna rancorosa. Non stupida, però. Forse avrebbe capito che dividere le loro strade sarebbe stato meglio per entrambi e lo avrebbe lasciato libero di darsi alla vita di campagna.

Sempre che una campagna fosse rimasta, dopo l'arrivo dei francesi.

Si arrovellò, non si diede pace, ma alla fine capì che quello che Lucrezia gli chiedeva, al momento, per lui non era fattibile, per quanto lo volesse, oh, lo volesse disperatamente.

Così, dopo essersi stropicciato il viso con entrambe le mani, intinse infine la punta della penna nell'inchiostro e, con la morte nel cuore, scrisse che per il momento non poteva lasciare la città per nessun motivo al mondo, perché il suo incarico gli imponeva una presenza costante a Forlì.

“Ma essere lì con te – sussurrò, mentre firmava – è l'unica cosa che vorrei. La vorrei più di tutto al mondo...”

 
 
   
 
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