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Autore: Adeia Di Elferas    11/06/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Dopo aver sfogato la parte più selvaggia di sé, Caterina era rimasta sveglia. Aveva fatto finta di essere assopita, un po' infastidita dai corpi caldi e sudati dei due soldati che aveva scelto per quella notte.

Non aveva voglia di svegliarsi al mattino in mezzo a loro. Le era già successo altre volte, e preferiva evitare di ripetere l'esperienza. Forse perché quella volta aveva bevuto di meno ed era più lucida, forse perché la sua mente, per quanto forzata a distrarsi con tutto quell'intreccio di braccia, mani, gambe, lingue e respiri spezzati, la stava già riportando alla cruda realtà della sua vita, non dandole tregua.

Aveva troppe cose a cui pensare, troppi scenari da immaginare e ancora troppe amicizie in forse, troppi punti interrogativi, troppi dettagli che la mettevano in ansia. Per quanto riguardava le difese del suo Stato, poteva ritenersi moderatamente tranquilla, anche se era abbastanza propensa a contattare ancora qualche condottiero, nella speranza che qualcuno volesse unirsi a lei in quel folle piano di resistenza ai francesi.

Era il destino dei suoi figli ad agitarla. Le Murate, Marulli, perfino Numai... Sembravano tutti appoggi sicuri, ma come poteva saggiarli, prima di affidare loro le sorti del suo sangue?

Uno dei due ragazzi che stava con lei aveva cominciato a russare sommessamente. Era quello più ingombrante, alto e mastodontico. Malgrado il suo aspetto, per lei era stato facile domarlo. Mentre l'altro, che stava lentamente scivolando a sua volta nel mondo dei sogni, le aveva dato molto più filo da torcere, rendendo la loro schermaglia decisamente più interessante.

Tenere testa a tutti e due contemporaneamente, senza lasciare mai che prendessero davvero il sopravvento su di lei, era stata una sfida difficile da vincere, ma anche quella volta la Contessa sentiva di averla avuta vinta su tutti i fronti.

La Tigre attese di essere certa che entrambi fossero preda del sonno. Li aveva stancati, parecchio, quindi confidava nel fatto che non si svegliassero facilmente. Doversi salutare, dopo incontri del genere, la metteva sempre un po' a disagio. Per lei era molto più facile scaricare un amante occasionale nella sicurezza della sua tana, che non in una stanza di una locanda.

Era un ambiente tutto sommato ordinato. Un po' squallido, senza arredamento, fatto salvo il letto e un patetico inginocchiatoio mezzo rotto, lasciato in un angolo, contro il muro, e probabilmente mai usato, se non per fini tutt'altro che sacri. Era la classica camera usata per il genere di incontri che aveva tenuto anche lei, non certo per un soggiorno più lungo.

C'era un vago odore dolciastro, che si mescolava al sentore forte dei due uomini che le dormivano vicini. Il lenzuolo era ruvido e l'unica finestra era piccola e scentrata. Lasciava però trasparire bene la luce tersa della luna.

L'unica candela – spenta – era di sego, di fattura molto scadente, e quasi finita. La Sforza non si sarebbe sorpresa nel sentire un ratto o due sgattaiolare sotto al letto da un momento all'altro.

Con un sospiro silenzioso, si mosse un po', saggiando la profondità del sonno dei suoi due amanti.

Mentre riusciva a scivolare via dalle loro strette, ancora abbastanza salde e possessive, avvertì uno strano brivido lungo la schiena. Quando si trovava in situazioni come quella, quasi non si riconosceva.

Sapeva di essere giunta alla conclusione di seguire i bisogni del proprio corpo, quando poteva, per non impazzire, ma si rendeva conto di non essere sempre stata così. Mentre, con una studiata lentezza, volta unicamente a non far rumore, cercava in terra il suo abito – che nel buio si confondeva con i vestiti dei soldati – e iniziava a infilarselo, si ricordò di come, fino ai suoi venticinque anni, dividere il letto con un uomo le fosse sembrato solo un obbligo, un tormento, una condanna. Anche all'epoca era cosciente che il suo sentimento fosse dovuto unicamente al fatto che nel suo letto l'unico a infilarsi era sempre e solo Girolamo. Però era anche vero che non aveva mai cercato un amante.

Poi era arrivato Giacomo, e aveva cominciato ad avvertire il morso del desiderio, fino a restarne così soggiogata da non capire altro. Anche in quel caso, comunque, non aveva mai cercato nessuno all'infuori del marito.

Era stata la morte del Feo a cambiarla per sempre. Quando glielo avevano strappato, all'improvviso e in modo violento, qualcosa in lei si era disgregato per sempre.

La morte dell'unico uomo che avesse mai amato davvero, avvenuta per di più per volere di due dei suoi figli – tre dei suoi figli, le ricordava una voce cattiva nella sua testa, messa subito a tacere – le aveva tolto quella poca innocenza che le era rimasta.

Aveva appena finito di rivestirsi, quando, con un mezzo sbuffo, uno dei due, quello più basso, si risvegliò. Accigliandosi, la cercò nel buio e la intravide in piedi vicino al letto. Si puntellò appena sui gomiti e la fissò, interrogativo.

Nella luce debole e argentea della luna, il corpo del soldato sembrava una statua sommersa. Il giovane si sfiorò volutamente una spalla, laddove la Contessa sapeva di aver lasciato il segno dei propri denti. Era quasi un invito a tornare da lui, a svegliare l'altro e riprendere da dove avevano interrotto.

La Leonessa avrebbe quasi voluto tornare a stendersi e dimenticarsi ancora per un po' di se stessa e di tutto il resto, ma non doveva e non lo fece.

Così gli fece segno di fare silenzio, mettendosi un dito sulle labbra e, mentre lui si risistemava con la testa sul cuscino – l'unico guanciale per un letto che poteva comodamente ospitare anche tre o quattro persone – la donna riguadagnò la porta e se ne andò.

L'aria, fiori dalla locanda, era tersa e calda. Aveva perso il conto di quanti giorni di siccità fossero passati dall'ultima pioggia. Erano tanti, quello era sicuro. Anche la strada si era fatta estremamente polverosa, la terra battuta che non si compattava più nemmeno grazie ai liquami della città e al letame dei cavalli. Non c'era da stupirsi che i campi stessero diventando sempre meno fertili e sempre più simili ad appezzamenti di deserto.

Il cielo coperto di stelle e il profumo pungente dell'estate stuzzicavano lo sguardo e l'olfatto di Caterina che, stanca nel corpo, ma ancora troppo vigile nella mente, non aveva voglia di tornare subito alla rocca.

C'erano pochissime persone, in giro. E quelle poche o erano ubriache, o avevano visi poco raccomandabili, o entrambe le cose. La Contessa sentiva il suo pugnale premere contro la gamba e quella sensazione metallica la faceva sentire un po' più sicura di sé. Era una cosa strana. Avvertiva il clima di pericolo, raddoppiato, per lei che era una donna, eppure non aveva voglia di scapparne.

Pensare a come la morte di Giacomo l'avesse cambiata, la stava portando, senza che lo volesse davvero, alla chiesa di San Girolamo.

Era aperta, come sempre, e, quando vi entrò, avvertì una frescura così piacevole, che per un po' rimase immobile, appena oltre l'ingresso, a lasciare che la sua pelle ancora scottata da quella notte di confusa passione, si raffreddasse un po'.

Un po' rigenerata da quella sensazione tonificante, la donna avanzò verso la cappella dei Feo. Si ricordava ancora quando Melozzo l'aveva affrescata. Era stata lei a pagarlo. Così come lei aveva sempre pagato tutto, per il suo Giacomo. Anche se, quando aveva pregato il pittore forlivese di occuparsi di quei dipinti, non aveva pensato nemmeno per un istante che, nel giro di poco, il suo grande amore sarebbe stato tumulato proprio sotto lo sguardo freddo e distaccato di quell'opera d'arte.

Si mise davanti alla pietra tombale del suo secondo marito e non pensò a nulla. Non pregò, non si perse nei ricordi, né si mise a valutare il futuro. Era come fissare una pietra liscia. Non era la prima volta che le capitava, tuttavia, quando di riprese, anche quella volta avvertì un profondo disagio verso il proprio atteggiamento.

Era quasi l'anniversario dell'uccisione del suo Giacomo. Il 27 agosto di quattro anni prima era stato trucidato davanti ai suoi occhi. Eppure, quella notte, non riusciva a provare nulla di particolare, nel ripensarci, se non la solita, scostante, rabbia.

Era appena stata con due uomini che conosceva a stento. Non poteva dire che non le fosse piaciuto, né che si ritenesse un mostro per aver dato sfogo a quel modo ai suoi istinti. Era libera, non aveva legami. Anche Giovanni da Casale era solo un passatempo, per lei. E in più, era lontano. Non gli aveva fatto promesse, né ne aveva pretese da lui. Così come era stato con Manfredi. Si intendevano tra le lenzuola, si capivano con una spada in pugno, ma per il resto, ognuno era libero di fare quel che preferiva, pensare con la propria testa e vedere chi volesse.

La chiesa era per metà al buio e l'odore di incenso era molto meno forte del solito. C'era un silenzio assoluto e in quella pace sembrava quasi che i visi affrescati prendessero vita, osservandola senza dir nulla.

Posò una mano sulla lapide e si disse, però, che, in fondo, si sentiva male, al pensiero di aver addosso ancora l'odore di quei due soldati per il semplice fatto che nessuno dei due era Giacomo.

Dalla sua morte, ogni uomo che aveva avuto, perfino Giovanni, era stato per lei solo un ripiego, una sorta di tradimento verso un marito che non poteva più starle accanto.

Stava gi per girare i tacchi e tornare finalmente a casa, quando sentì qualche passo ovattato e intravide, nei pressi dell'altare, un prete.

Quell'apparizione le ricordò di colpo quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che aveva cercato l'effetto balsamico della confessione. Da quando Fortunati era andato a Firenze, scappando di fatto da lei, per paura di essere in qualche modo punito per la morte fatta da Ottaviano Manfredi, la Tigre non aveva più cercato un confessore.

Non che Francesco le riservasse un servizio da confessore normale... Era più un confidarsi con un amico, anche se in modo molto più libero e profondo. Il piovano era forse l'unico, da che non c'era più il Medici, a sapere certe questioni private della Sforza e a condividerne le ansie e l'irrequietezza.

Finiva sempre per assolverla e non la giudicava mai con troppa durezza. La Tigre aveva i suoi dubbi in merito alla validità di tanta indulgenza, ma lo lasciava fare. Lei bastava averlo come valvola di sfogo.

Adesso che era lontano, però...

“Mia signora...” sussurrò il prete, che si era avvicinato per capire chi fosse e, quando l'aveva riconosciuta, aveva abbozzato un sorriso e un inchino: “Perdonatemi, non volevo disturbarvi.”

La Contessa fu tentata di rispondere solo con un cenno del capo, ma poi ci ripensò e domandò, a bruciapelo: “Mio figlio Bernardino viene qui spesso?”

Il prelato, che come quasi tutti a Forlì era ormai abituato a chiamare il piccolo Feo 'Carlo', strinse un po' gli occhi e annuì: “Sì, passa di qui spesso.”

“E vi infastidisce?” chiese ancora la donna, in virtù dell'agitazione del figlio che, spesso e volentieri, causava solo problemi.

“No... No, assolutamente.” fece il prete: “Va sulla tomba del padre, prega, a volte piange, e poi se ne va. Se qualcuno cerca di avvicinarlo scappa... Non ci dà problemi, solo...”

“Solo?” indagò lei, stringendosi un po' nelle spalle, come sulla difensiva.

“Solo credo che vorrebbe che qualcuno gli stesse più vicino.” concluse il religioso, senza sbilanciarsi troppo.

“L'avete detto anche voi: se qualcuno cerca di avvicinarlo, scappa. Se uno fa così, è difficile stargli vicino.” tagliò corto allora la Tigre e poi, scusandosi a bassa voce, superò il prete e andò verso l'altra tomba custodita in quella chiesa che le interessava.

Davanti all'avello che conteneva gli ultimi resti mortali di Ottaviano Manfredi, la Sforza stava ancora ragionando su Bernardino. Sapeva che stava sbagliando con lui. Avrebbe voluto essere molto più morbida, nei suoi confronti, più affettuosa. Però non ci riusciva. Quando l'aveva davanti a sé, non poteva dominare il suo istinto e finiva sempre o per trattarlo con sufficienza, o per scaraventarlo.

Forse, se avesse potuto tenerselo più vicino quando era più piccolo, quando lei aveva ancora Giacomo, sarebbe stato tutto diverso. Invece se l'era trovato in casa solo dopo la morte del suo amatissimo secondo marito e non era mai riuscito ad accettarlo davvero. Era come la prova vivente del suo più grande fallimento. Perché in fondo, anche lei si sentiva responsabile per la morte di Giacomo.

Era cambiata troppo e Bernardino aveva visto di lei solo la parte peggiore, quella che era uscita con prepotenza dopo le folli ore passate nelle segrete a vendicarsi e, poi, nella sua tana a cercare sollievo con uomini da cui era riuscita a trarre solo una soddisfazione illusoria e passeggera.

“Anche lui, come te – sussurrò, sfiorando la tomba di Manfredi – ha visto solo la bestia.”

La morte di Giovanni Medici, si trovò a pensare, le aveva tolto anche la capacità di essere tenera con uomo. Paradossalmente, quello che il Popolano era riuscito a risvegliare in parte in lei, verso i figli e anche verso di lui, era stato subito spazzato via dalla sua scomparsa. Ormai, con i suoi amanti, riusciva a mostrare solo la parte più aggressiva di sé e, se era capitato, a volte, che fosse più accomodante e dolce, era stato solo per assecondare un suo bisogno e non per uno slancio sincero.

Ricacciando indietro qualche lacrima di pura rabbia, la sensazione che qualcuno l'avesse strattonata fino a farla diventare quel che era, Caterina lanciò un ultimo sguardo alla tomba di Manfredi e poi le diede le spalle e camminò rapida verso l'uscita della chiesa.

Di nuovo immersa nella notte forlivese, decise di tornare una volta e per tutte a Ravaldino. Lì, dopo essere stata un momento in camera per riordinarsi, salì sui camminamenti e restò a fare la ronda con i suoi uomini fino ai primi raggi di sole.

 

Ludovico guardava spaesato verso questo e quell'astrologo, come un bambino che, conteso tra due genitori, non sa a chi dar retta.

Tutti, tutti, dal primo all'ultimo, quel 22 agosto sembravano essere intenzionati a darlo per spacciato. Aveva indetto quel Gran Consiglio di astrologi per farsi consigliare, non solo per farsi predire il futuro, ma quelli, come tanti avvoltoi decisi a masticare le sue carni, non facevano che ripetere che l'aria su Milano era di burrasca e che lui non si sarebbe salvato.

I più ottimisti gli dicevano che forse, alla fine, sarebbe anche riuscito a riorganizzare l'esercito, vincere la guerra e riprendersi parte del suo Ducato, ma a costo di immani perdite e sofferenze.

Il Moro, sudato fradicio, con il cuore che batteva nella cassa toracica risuonando come una campana a morto, spostava febbrile gli occhi dall'uno all'altro, ritrovando un minimo di sicurezza solo quando a parlare era Ambrogio da Rosate, medico di corte ed eminente astrologo.

Tra tutti era l'unico a volerlo difendere, o forse solo blandire, dicendo che aveva ben predetto come tra il 13 e il 23 agosto per il Ducato la guerra sarebbe stata catastrofica – e tale in effetti era, dato che anche quel giorno era arrivata notizia del crollo di alcune loro roccaforti – ma che a settembre il cielo si sarebbe rischiarato e lo Sforza sarebbe stato vincitore.

Alla fin fine, però, nemmeno Ambrogio sembrava più tanto sicuro di sé e, più parlavano gli altri, meno trovava difetti nelle loro previsioni.

Il Duca, dal canto suo, cominciava a chiedersi che senso avesse cercare di rispondere agli attacchi di re Luigi, se tanto era spacciato. Che senso aveva, resistere, lottare, sperare e poi restare delusi e magari uccisi?

Aveva sentito il domine magister Leonardo parlottare con uno dei suoi paggi. Era certo che stesse cercando una via di fuga. Aveva ragione. Era un uomo mille volte più saggio di lui. Aspettare e farsi ammazzare che senso aveva?

Mentre Ambrogio da Rosate faceva un'ultima, debolissima arringa, per cercare di portare dalla sua parte almeno un paio di colleghi, Ludovico ripensò a quelle lunghe giornate d'agosto.

Calco e anche suo nipote Ermes avevano fatto di tutto per convincerlo a occuparsi di più della riorganizzazione delle truppe. Lo avevano pregato di non fidarsi troppo di uomini come i Sanseverino o i Bentivoglio, ma lui non aveva tempo per quelle chiacchiere.

Le sue mattine, i suoi pomeriggi, le sue sere e a volte anche le sue notti – quando disertava il letto di Lucrezia Crivelli, con lui sempre meno paziente e comprensiva – le passava a Santa Maria delle Grazie, a piangere disperato sulla tomba della sua Beatrice, chiedendosi cosa avrebbe fatto lei al suo posto.

Invocava la Provvidenza, poi il perdono divino. Vedeva prima in quella guerra una punizione per i suoi peccati e poi, invece, una prova per saggiare la sua fede.

Aveva cercato anche il consiglio di una santa donna, che aveva pregato con lui per ore, e questa aveva avuto una visione molto chiara, in cui Ludovico avrebbe perso il Ducato.

L'astrologo che Ascanio aveva portato con sé da Roma, poi, aveva fatto anche di peggio, mettendosi a ridere e dicendogli che si giocava la testa, sul fatto che Milano sarebbe caduta e che né il Moro né i suoi discendenti vi avrebbero mai più rimesso sopra le mani.

Quando i pareri degli astrologi accorsi al Gran Consiglio confluirono in un vago senso generale di pessimismo, fu lo stesso Duca a dichiarare sciolta la riunione.

“Non dovete ascoltare questi quattro ciarlatani, zio.” gli disse piano Ermes, raggiungendolo vicino alla porta, mentre tutti si avviavano all'uscita: “Dovete reagire. Prendete in mano la situazione, cercate un accordo con Luigi. Potete offrirgli molto, potete approfittarne e metterlo contro il papa, potete...”

“Non ho tempo...” borbottò Ludovico, scansando il nipote quasi di peso e spostandosi una ciocca di capelli neri, rimasti incollati alla fronte, dietro l'orecchio: “Devo andare a pregare... A Santa Maria delle Grazie... Il mio confessore mi aspetta... Io devo... Devo fare tante cose...”

Lo Sforza più giovane, a quel punto, lasciò perdere ogni altro tentativo e, abbastanza certo che lo zio avesse perso la testa una volta per tutte, sussurrò: “Come volete.”

 

“Quindi mi dareste venticinque lire al mese, come aveva detto il dottore...” fece Beliardo, grattandosi il mento un po' ispido di peli neri, a chiazze, come se si fosse rasato a occhi bendati.

Per essere un berbiere, quella trascuratezza stonava un po' con la sua fama, ma era anche vero che quel Bartolomeo era più abile, dicevano, con la lama da amputazione che con quella da tonsore.

“Vi sembra poco..?” chiese Caterina che, resa un po' insofferente dal caldo afoso di quel giorno, non capiva tutta la perplessità espressa dal viso di quell'uomo.

Beliardo, però, sollevò le mani – due grosse mani piene di calli – e scosse il capo, e spiegò: “Non mi pare affatto poco... Ma ho debiti che necessito di saldare molto presto e quindi vi chiederei di poter avere qualche mensilità in anticipo.”

La Sforza, che pur era sempre abbastanza bendisposta verso i suoi stipendiati, fu sul punto di perdere la pazienza. Quel barbiere ancora non aveva fatto nulla per dimostrare il suo valore, e già pretendeva un trattamento di favore.

Tuttavia, anche quella mattina, quando era scesa dai camminamenti, le era giunta voce che in città era stato visto, confermato e isolato un altro caso di peste e dunque non poteva più aspettare. Ci voleva qualcuno in grado di amputare ciò che andava amputato, limitando i danni di quel morbo mortifero.

“Quanti mesi vorreste in anticipo?” chiese la donna, pronta, nel caso la richiesta fosse stata eccessiva, a ricordargli che le epidemie di peste non duravano all'infinito, ma, nei casi peggiori, solo qualche mese.

“Quattro.” rispose Beliardo, dopo averci ragionato un momento: “Quattro mi bastano.”

La Sforza avrebbe dovuto contrattare, lo sapeva, ma non ne aveva alcuna voglia. E poi, spese prima o spese dopo, cento lire erano sempre e comunque cento lire.

“Ridolfi – disse allora al Governatore, che le stava accanto – date a quest'uomo quanto chiede e assicuratevi che inizi a lavorare oggi stesso.”

“Ma se non c'è nulla da amputare come...” cominciò a dire Simone, ma la Tigre lo zittì all'istante.

“Se non c'è nulla da amputare, si renderà utile in altro modo, radendo gli uomini e sfoltendo le loro chiome, per ridurre la diffusione delle pulci.”

Beliardo ascoltava in silenzio, un po' preso alla sprovvista da quell'inatteso risvolto del suo ingaggio. Se aveva accettato, in parte, era stato anche per non dover tagliare barbe e capelli per un po'.

“Qualcosa non va?” chiese la Contessa, scorgendo lo sguardo del barbiere.

Il salone del palazzo dei Riario in cui si trovavano era quanto di più spoglio e anonimo Bartolomeo avesse mai visto. Era anche molto polveroso, come se nessuno l'abitasse da parecchio. Questi dettagli, uniti all'espressione non proprio amichevole che la Leonessa gli stava dedicando, lo portò a scuotere subito il capo.

“Bene – fece allora Caterina – perché le cento lire che vi farò avere sono per i vostri servigi di barbiere e chirurgo, entrambe le cose. Non aspettatevi di venir pagato per restare in ozio tutto il giorno.”

Il barbiere fece un breve inchino e poi, ufficialmente congedato dalla Sforza, fu invitato ad attendere un momento fuori dal salone affinché il Governatore poi lo accompagnasse all'alloggio a lui destinato e gli illustrasse l'organizzazione della città.

“Mi raccomando, fate in modo che sia impegnato. E dategli le cento lire oggi stesso.” ordinò la donna, con un sospiro: “Adesso torno alla rocca. Se mi cercate, sappiate che sono lì.”

 

“Sì, fai quello che devi.” disse a voce bassa, ma inesorabile, Paolo Vitelli.

Il fratello, Vitellozzo, che aveva avuto da lui l'ordine di tenere a bada i soldati più scalmanati annuì con gravità e poi, facendosi passare lo spadone a due mani, si diresse con passo pesante verso il più irrequieto dei loro uomini.

Il soldato, giovane e arrogante, era stato acciuffato appena un'ora prima proprio da Vitellozzo che l'aveva trovato assieme ad altri, tra cui Zitolo da Perugia, a cercare di far bottino nelle case ormai devastate della parte di Pisa che avevano preso.

Paolo Vitelli aveva dato la precisa disposizione a tutti di non dare il sacco alla città. Firenze si era espressa contro quel genere di azione e così lui voleva rispettare il volere della Signoria. Ma quella guerra era stata troppo lenta e confusa per i suoi uomini e così alcuni si erano dati autonomamente al saccheggio, prendendo le donne, ammazzando gli uomini e i bambini e intascando quanti più beni possibili.

Ranuccio da Marciano si era opposto alla decisione di non dare il sacco alla città. Sotto il cielo blu intenso di quel 22 agosto aveva fatto parole grosse con l'altro comandante, ricordandogli come la vittoria fosse ormai in mano loro e che con oltre quattrocento braccia di cinta muraria caduta, Pisa era una città da depredare e basta, ma non c'era stato verso di fargli cambiare idea.

Vitellozzo si mise davanti al soldato ribelle e, davanti agli occhi di quasi tutti gli altri armigeri, alzò la spada davanti al giovane – in ginocchio e con le mani legate dietro la schiena – e calò il colpo.

Il giovane morì subito, il suo sangue imbevette il terreno secco attorno e lui e nel giro di pochi istanti anche i suoi commilitoni più affezionati tornarono alle loro occupazioni come nulla fosse.

Paolo aveva osservato tutta la scena, stupendosi come sempre di quanto gli uomini che avevano visto e fatto la guerra finissero per diventare insensibili a quel genere di spettacoli.

Vitellozzo tornò verso di lui, lo spadone sanguinante ancora in pugno e, alzando un attimo gli occhi verso il cielo, borbottò: “Speriamo che piova, boia mondo, fa un caldo che non se ne può più... Già siamo pieni di casi di malaria, ci manche solo che arrivi la peste...”

'Insensibili a questo genere di spettacoli...' si trovò a pensare di nuovo Paolo, gli occhi tondi fissi sul fratello che, come nulla fosse, si era messo a ridere e scherzare con uno degli attendenti, quasi che non sentisse nemmeno il peso della spada che portava, la spada con cui aveva appena ucciso un uomo.

 

A Ravaldino c'era uno strano clima d'attesa. In realtà era da un po' che quella sensazione infida e stremante si stava radicando negli abitanti della rocca. Era come aspettare di continuo una tempesta che si sapeva in arrivo, ma che tardava a scatenarsi.

Caterina non se n'era mai resa conto in modo tanto spiccato come quel 22 agosto. Forse per colpa del sole a picco, che stava per raggiungere il mezzogiorno, o forse perché il non aver chiuso occhio, quella notte, l'aveva stancata più del previsto, rendendola più suscettibile a quel genere di impressioni.

“La corrispondenza..?” chiese al castellano, passando dal suo studiolo.

Diligente, Cesare le passò le lettere che necessitavano la sua attenzione e le spiegò che, a suo avviso, la prima era quella che necessitava una risposta più urgente.

La Tigre ringraziò e poi si diresse alla sala delle letture. Avrebbe potuto andare direttamente in camera, ma preferiva evitarlo. Restare sola nella stanza che era stata sua e di Giovanni l'avrebbe solo incupita ancora di più. C'erano momenti in cui essere circondata dagli oggetti del terzo marito la rassicurava, altri, invece, in cui la intristiva. Quel giorno immaginava che tutte quelle cose su di lei avrebbero avuto solo un effetto deprimente.

Quando arrivò nella sala delle letture, soprappensiero, si accorse all'ultimo istante che qualcuno ne stava uscendo. Per un soffio non andò a sbattere contro Sforzino. Questi, arrossendo un po' nell'incontrarla – una reazione dovuta alla scarsa confidenza che sentiva di avere con la madre – la salutò in modo abbastanza formale e poi andò avanti per la sua strada.

La Tigre lo seguì per un po' con lo sguardo. Il robustissimo appetito del dodicenne e la quasi totale assenza di esercizio fisico avevano fatto di lui un preadolescente impacciato e pingue. Avendo un fisico del genere, alla madre non poteva non ricordare alcuni Sforza, come il fratello Ermes o lo zio Ludovico, tuttavia il viso bastava da solo a farle dimenticare quel parallelismo. Aveva poco o nulla dei suoi parenti di Milano e anche come indole, pareva di sangue diverso dal suo.

Cercando di distogliere la mente dall'ultimo figlio che era nato dal suo sventurato matrimonio con Girolamo Riario – lo stesso figlio che all'inizio era stata tentata di abortire, per la disperazione all'idea di partorire un altro bambino nato da una violenza – la Contessa si mise in poltrona e cominciò a leggere le lettere.

Partì da quella indicata dal castellano. Era niente meno che di Ercole Este, il Duca di Ferrara. Nel leggere quell'intestazione, la donna trasecolò, ma andò avanti a leggere.

Il ferrarese, con tono abbastanza lamentoso, la rendeva partecipe del fatto che un certo Tomaso Broccardi di Imola aveva contratto con lui un forte debito, che, malgrado tutte le sollecitazioni del caso, non voleva ripagare. L'Este restava sul vago, ma lasciava intendere che, in un momento tanto concitato e incerto, per lui sarebbe stato facile considerare nemici tutti gli imolesi e, per estensione, tutti i forlivesi, se quel debito non fosse stato saldato al più presto.

La Leonessa ci ragionò un momento, poi lasciò da parte la missiva, passando alle altre, l'unica delle quali a essere di un certo interesse era quella di Alessandro Orfeo che, per conto del Duca di Milano, le chiedeva novità circa la condotta di Ottaviano presso Firenze.

“Perdonatemi, non volevo disturbarvi...” fece Bianca, entrando nella sala e accorgendosi troppo tardi della presenza della madre.

“Non mi disturbi.” fece subito lei, invitandola a entrare con un cenno della mano: “E poi stavo per andarmene. Ho delle lettere a cui rispondere.”

La Riario annuì e, come le era stato tacitamente chiesto di fare, entrò, cercò il libro che voleva e si mise sul divanetto per leggere.

“Prima ho incontrato Sforzino...” disse piano la Contessa, un po' guardinga: “A te sembra che stia bene?”

Il tono era difficile da fraintendere: la Sforza non stava chiedendo lumi circa la salute fisica del figlio, quanto su quella del suo spirito.

Bianca si morse il labbro, scorrendo intanto l'indice del tomo che aveva scelto e poi, scegliendo con cura le parole, spiegò: “Sforzino sta bene, ma è un po' mortificato.”

“Per cosa?” chiese la madre, colta di sorpresa.

“Be', lo sapete... Cinque giorni fa era il suo compleanno e si aspettava qualcosa da voi. Non un regalo... Qualcosa.” fu la risposta della ragazza, un po' in difficoltà: “Tutti gli anni ci spera, e poi ci passa sopra. Messer Giovanni era stato il primo a dargli un po' di importanza, ma poi è morto e adesso sperava che voi...”

Caterina si sentì in colpa. Aveva ragione, suo figlio, a voler da lei un minimo di considerazione, almeno il giorno del suo compleanno. Era stata indelicata, superficiale e aveva sbagliato tutto anche con lui, come con gli altri.

“Devo andare a rispondere a queste lettere...” sussurrò in fretta la Leonessa, rimettendo in ordine tutte le missive appena lette e raggiungendo la porta frettolosamente.

Bianca, che aveva capito, come spesso riusciva a fare, la reazione della madre, soggiunse, riuscendo a raggiungere il suo orecchio, prima che fosse troppo lontana: “Basterebbe poco, per rimediare... Sforzino è di indole così dolce e pacifica, che gli basterebbe davvero poco...”

 
 
   
 
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