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Autore: Adeia Di Elferas    13/06/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina stava giocherellando assorta con i guanti che Bianca aveva cucito per Giovanni. Erano molto belli, estremamente morbidi e ben imbottiti. Non solo erano fatti con perizia, ma anche con amore.

La Tigre poteva notare con quanto attenzione sua figlia avesse disegnato la forma delle dita, lasciando il palmo largo e rendendoli comodi da infilare e sfilare, soprattutto per chi, come il Medici, faceva fatica a farlo.

Le lettere a cui la donna doveva rispondere erano ancora immote sulla scrivania. Da quando si era ritirata in stanza, i guanti erano stati tutto ciò a cui aveva prestato attenzione. Non sapeva nemmeno dire come fossero finiti lì. L'ultima volta le sembrava di averli lasciati nella cassapanca, ma evidentemente poi li aveva spostati ancora e se n'era scordata.

Riflettere su quanto Bianca fosse stata accorta e gentile a fare quel regalo a Giovanni, la Leonessa ripensò anche a quello che le aveva detto su Sforzino.

Se ne vergognava, ma poteva dire di conoscere il suo sestogenito molto poco. A parte studiare teologia e le vite dei santi, sembrava non avere altre passioni. Escludendo il cibo, ovviamente.

Riappoggiando i guanti alla scrivania, la Sforza sospirò e si chiese cos'avrebbe fatto il Medici al suo posto. Lui sembrava sempre capire cosa servisse per sistemare le cose. Anche se Sforzino non era suo figlio, avrebbe di certo capito come fare per risollevargli un po' lo spirito.

Mentre faceva questa considerazione, si ricordò in un lampo di un episodio che aveva ormai dimenticato da tempo. Era una parentesi così minima, che faticava a capire come potesse esserle tornata in mente.

Non sapeva nemmeno più dire che periodo fosse di preciso, ma si ricordava che all'epoca era incinta da poco. Giovanni, mentre chiacchieravano del più e del meno, un mattino presto, entrambi insonni, stretti l'uno all'altra a letto, le aveva detto, ridendo, che i confetti che aveva fatto arrivare per tramite di Leonardo Strozzi non era quasi riuscito ad assaggiarli perché Sforzino li aveva mangiati uno dopo l'altro senza riuscire a fermarsi.

“Dovevi dirgli di smetterla e dovevi tenerli per te.” aveva detto contrariata Caterina: “Già mangi poco, se quel poco lo devolvi anche a chi mangia già abbastanza..!”

“Era così felice, mentre li mangiava, che non ho avuto il cuore di fermarlo. Sono più contento che se li sia goduti lui, che non che siano finiti in bocca a me.” aveva ribattuto il Popolano, tranquillo e con un vago sorriso sulle labbra: “Ha così pochi motivi di gioia, che mi ha fatto solo piacere, vederlo tanto entusiasta.”

Così, deglutendo a fatica, provata dal ricordo tanto vivido delle parole quasi sussurrate e del tocco leggero e dolce del suo terzo marito, la donna prese finalmente il necessario per scrivere e, invece di dedicarsi per prima alla missiva per Ercole Este, indirizzò la lettera che aveva davanti a Leonardo Strozzi.

'Voi ci mandavate li anni passati, vivente il Magn. Ioanni de bona memoria a le volte qualche scatola de seme de Melloni, de Cocumeri et de altra sorta confecti quale haviano più del delicato che non hanno li coriandoli. Harò caro che ce ne mandiate qualche scatola de ciascuna, ma siano de zuchero fino et facto de fresco, et così la axpectiamo.' scrisse, senza fermarsi nemmeno un secondo, pensando a descrivere al meglio ciò che voleva: 'Bene valete.' concluse.

Rilesse un momento e le parve che la sua richiesta fosse abbastanza chiara. Mise la data e firmò.

Poi, con un altro sguardo ai guanti, le tornò in mente anche come Giovanni avesse detto che Sforzino avesse amato la guarnizione dei confetti e così aggiunse in un post scriptum: 'Questi confecti voria havessino alquanto de Muschio.'.

Sfiorando il nodo nuziale che portava all'anulare, si chiese se il Medici sarebbe stato felice della sua decisione e si augurò che un incarico del genere Strozzi fosse in grado di evaderlo molto in fretta.

Messa da parte quella missiva, iniziò un altro messaggio, diretto al Duca di Ferrara. Fu molto sintetica e gli promise che avrebbe costretto con ogni mezzo Tomaso Broccardi a saldare il suo debito.

Infine, stanca già di adempiere a quel lavoro da scrivania, prese un'altra pagina e rispose in modo secco e un po' scorbutico ad Alessandro Orfeo – per il quale, anche a distanza, provava una profonda e viscerale antipatia – dicendogli che per quanto riguardava la condotta di Ottaviano, non sapeva ancora che dire e si rimetteva alla risposta di Giovanni da Casale.

Mentre vergava il nome di Pirovano sul foglio ruvido, la Sforza si morse l'interno della guancia.

Non poteva dire che il milanese le mancasse da morire, anzi, c'erano momenti in cui le sembrava quasi che non fosse mai esistito. Non fosse stato per qualche suo effetto personale ancora presente in quella stanza, forse non avrebbe pensato a lui nemmeno quando era lì da sola.

Però c'era una cosa che le mancava terribilmente: la parvenza di stabilità che le aveva dato. Quando lui era a Ravaldino lì con lei, Caterina riusciva a non cercare altri uomini. A volte a fatica, ma saperlo sempre disponibile per lei, sempre pronto a soddisfare i suoi bisogni e accoglierla tra le sue braccia, le rendeva molto più facile darsi delle regole.

Lasciata sola in balia dei suo istinti, invece, si era in fretta ritrasformata nell'anima raminga che era stata appena dopo la morte di Giacomo e, forse, se possibile, era addirittura peggiorata, perché non era più guidata solo dal dolore e dalla solitudine, ma anche da un certo grado di esperienza, che le permetteva di muoversi con maggior sicurezza di sé, ponendosi via via sempre meno limiti.

Imprecando tra sé un paio di volte, amareggiata dalla realtà dei fatti, che la vedeva molto più debole di quanto volesse, la Contessa chiuse la missiva e poi ricontrollò un'ultima volta che tutte le lettere fossero pronte.

Le raccolse e si alzò in fretta dalla scrivania. Andò dritta dal castellano, sapendo che a quell'ora l'avrebbe trovato a pranzo e, lasciandogli davanti alla scodella di zuppa i messaggi, gli disse di farli partire al più presto.

“Fate partire immediatamente un ordine a nome mio, per il Governatore di Imola, Corradini, affinché fermino Tomaso Broccardi e lo costringano a saldare immediatamente il suo debito con il Duca di Ferrara.” proseguì poi la donna, guardando verso l'ingresso della sala dei banchetti, da cui stava entrando proprio in quel momento Ottaviano: “E se per caso dovesse far storie o dicesse per qualche motivo che non intende pagare quanto deve, allora voglio che sia arrestato e che venga portato subito qui a Ravaldino, in modo che possa essere io a interrogarlo e convincerlo a saldare il debito.”

Cesare chinò appena il capo e, dopo aver deglutito una cucchiaiata di brodaglia, ribatté: “Lo faccio immediatamente.”

“Finite il pranzo, prima...” si ridimensionò la Sforza: “Si tratta di una cosa da farsi alla svelta, ma il tempo per mettervi qualcosa nello stomaco l'avete.”

Il castellano ringraziò in silenzio, ma, dopo ancora un paio di boccate di zuppa calda, abbandonò la ciotola ancora mezza piena e, scusandosi con un cenno, partì per adempiere al suo compito.

'Poveraccio, questo Broccardi...' si disse, mentre raggiungeva i baraccamenti per scegliere una staffetta rapidissima da mandare a Imola: 'Mi auguro per lui che capisca quanto sia meglio pagare che farsi portare qui... Se capita sotto le mani della Tigre, quella, per certo, lo ammazza...' e, con un sospiro, additando il messaggero migliore presente in quel momento, lo chiamò a sé e gli spiegò che ordini dovesse recapitare al Governatore Corradini.

 

Alessandro Bentivoglio si rigirò sulla sua brandina da campo. Non riusciva a prendere sonno. Era tormentato dai pensieri peggiori che potessero aleggiare nella sua mente e aveva l'addome contratto, come se stesse per vomitare.

Era una notizia fresca, freschissima, così recente da poter quasi dubitare che fosse vera. Ma aveva visto il messaggero ferito, l'aveva sentito parlare con le sue orecchie. Era tutto tremendamente vero.

Gli sforzeschi si aspettavano immediatamente un attacco ad Alessandria, con al massimo qualche scorribanda nei paesi vicini. E invece, nel giro di poche ore – nemmeno due giorni – Gian Giacomo da Trivulzio aveva fatto crollare Bassignana, Caselle, Castelnuovo Scrivia, Broni, Stradella, Voghera, perfino Tortona, che era stata abbandonata senza nemmeno alzare la spada da Antonio Maria e Cristoforo Pallavicini.

E in mezzo a tutti questi paesi catturati e sventrati, c'era anche Casteggio.

Alessandro sentiva un peso sul petto. Faticava quasi a respirare. Non aveva avuto notizie di sua moglie. Sapeva che, tra tutti, era stata l'unica a cercare di opporre resistenza. Abbandonata dal Moro, si era trovata sola davanti a un esercito scomposto e violento. Non poteva essere sopravvissuta.

Il Bentivoglio avvertiva con maggior nettezza il senso di nausea che gli chiudeva lo stomaco. Si rigirò sull'altro fianco, illudendosi che questo potesse bastare a placare quel disturbo, sintesi del senso di colpa e della paura. Colpa, perché nemmeno lui, che era il suo legittimo sposo, l'uomo che per Dio e per gli uomini avrebbe dovuto difenderla, nemmeno lui era andato a Casteggio a cercare di salvarla.

Era rimasto lì, nei pressi di Milano, con i suoi duecento balestrieri e i suoi cinquecento cavalli senza fare nulla, lontano dalla mischia, sentendo solo l'eco lontano dei tamburi da guerra e dei cannoni.

Sentiva che Ippolita era morta. Non poteva essere altrimenti. Aveva udito alcuni degli uomini al campo riderle dietro, dire che era stata una sciocca a restare e una bambina capricciosa a voler provare a contrastare un esercito come quello francese.

I meno delicati avevano detto che era solo una pazza, come tutti gli Sforza, e che aveva fatto la fine di suo padre: morire male e da giovane. Poco contava se Carlo Sforza non era morto combattendo come lei.

Perché è così che Alessandro se la figurava, mentre si rivoltava nella sua cuccetta, nel buio della sua tenda, nel cuore di quella notte d'agosto: bellissima, con la spada nel pugno a lottare fino alla morte, incitando i suoi a resistere.

La cosa che più lo angustiava, nell'immaginarsela riversa in terra, coperta di sangue, era sapere di non essere stato in grado di apprezzarla appieno. Era rimasto fin da subito soggiogato dalla sua selvatica bellezza e dalla sua indole particolare. Aveva qualcosa di diverso da tutte le altre. Però non l'aveva mai sentita davvero sua.

Non avevano mai diviso il letto, nemmeno una volta, e non era stato perché lui non fosse attratta da lei o perché lei lo odiasse. Prima, semplicemente, la Sforza era troppo giovane e poi, quando forse sarebbero stati pronti per conoscersi anche in quel senso, la vita li aveva separati.

Di punto in bianco, il venticinquenne sentì un po' di trambusto verso l'ingresso del suo padiglione.

Nel buio, si rigirò una volta di più sulla brandina, fino a mettersi a sedere e poi alzarsi, sentendo uno dei due soldati che gli facevano da guardia esclamare: “Ho detto che il mio signore non vuole essere disturbato da nessuno!”

Siccome, chiunque fosse a voler entrare continuava a insistere, alla fine il Bentivoglio decise di andare a controllare di persona. Accese un paio di candele in più, giusto per poter vedere meglio e, proprio quando fu a un passo dall'ingresso del padiglione, pronto a scostare la tenda, sentì una voce che, fino a pochi istanti prima, era stato sicuro di non poter risentire mai più.

“Sono sua moglie!” stava esclamando Ippolita: “Dovete lasciarmi entrare!”

Alessandro non ci pensò due volte e, nel giro di un soffio, uscì e se la trovò davanti. Ippolita, nel momento in cui lo vide, parve rilassarsi tutta d'un colpo.

Il suo viso, dai tratti sicuri e dallo sguardo fiero, era segnato da quello che doveva aver passato nella sua Casteggio. I suoi abiti erano impolverati e strappati. I capelli erano arruffati e raccolti alla meno peggio.

“Sì, è mia moglie.” fece il bolognese, quasi senza fiato e, prendendola per la mano, la fece entrare subito nel padiglione.

Rimasti soli, nella semioscurità del tendone, il Bentivoglio diede sfogo a tutto il suo sollievo e alla sua incredulità stringendola a sé come non aveva mai osato fare. Sentiva qualche lacrima scivolargli sulla guance e capiva finalmente quanto davvero fosse innamorato di quella ragazza che gli era capitata in sorte.

“Fai piano...” sussurrò lei, scostandolo appena: “Sono un po' ammaccata...”

Ora che poteva osservarla meglio, Alessandro notò sul volto della moglie qualche graffio e, sopra l'occhio destro, l'esito di quello che doveva essere o un pugno o un colpo in terra.

“Vado a chiamare il cerusico... Così ti potrà medicare e...” iniziò a dire, ma la Sforza lo frenò, tenendolo per un braccio.

Il bolognese, vuoi per il gran caldo, vuoi perché in guerra non era solito portarsi tanti vestiti, era a torso nudo, indossando solo un paio di brachette da notte in tela leggera. Già nell'abbracciarlo, Ippolita aveva avvertito un fremito che faticava a ignorare. La sua pelle calda e il suo corpo ancora giovane, ma ben strutturato le avevano dato una sensazione di sicurezza che non provava da troppo tempo.

“Non voglio vedere un cerusico.” gli disse, a voce bassa: “Voglio solo un po' di pace.”

“Però vorrai un po' di acqua e qualcosa da mangiare.” provò lui, andando al suo tavolino da campo e versandole subito da bere: “Avanti, vieni a sederti e metti qualcosa nello stomaco. Voglio sapere cos'è successo di preciso.”

La milanese non se lo fece ripetere. Bevve e mangiò tutto quello che il marito le offrì e poi, a pancia ragionevolmente piena, gli raccontò dell'arrivo improvviso dei francesi, del loro attacco violento e di come le difese della città fossero state rotte prima che si potesse far qualcosa per arginare la disfatta.

“Io ho resistito finché ho potuto, ma poi sono rimasta a terra priva di sensi – spiegò, indicando il colpo che aveva sulla fronte – e quando ho ripreso conoscenza, sono riuscita a non farmi notare e sono scappata. Sapevo che eri qui e sono venuta da te.”

Alessandro aveva ascoltato tutto in silenzio e solo a quell'ultimo inciso aveva detto la sua: “Hai fatto bene. Sono tuo marito.”

Restarono a discutere ancora un po', mentre la notte arrivava al suo mezzo e le candele si consumavano. Nei resoconti molto freddi e quasi troppo tecnici che la Sforza faceva di quel che era successo a Casteggio, il Bentivoglio si perse molto volentieri. Inseguiva le sue parole, spesso senza capirne davvero il senso. Più la vedeva muoversi e parlare, più si rendeva conto del fatto che era davvero viva, che aveva scampato il pericolo più grande, e che era di nuovo con lui.

“Voglio togliermi questi abiti. Puzzano di morte.” fece a un certo punto lei.

“Aspetta, accendo ancora qualche candela, o non vedremo nulla...” disse subito il bolognese, scattando in piedi.

“Lascia stare. Tanta luce, a volte, non serve a vederci meglio.” borbottò lei, che si stava già togliendo il primo strato di abiti su cui, in effetti, era rimasta una buona quantità di sangue secco e fango.

La diciottenne continuò a spogliarsi, fino ad arrivare alla sottoveste. Era sottile e, con un filo di luce in più, Alessandro era certo che avrebbe potuto vedere di lei ogni dettaglio.

Ippolita avvertiva la presenza del marito vicino a sé. Era come qualcosa di impalpabile e allo stesso tempo di incredibilmente materiale. Quando aveva deciso di far rotta al campo milanese, l'aveva fatto per disperazione, non sapendo dove altro andare. Adesso, però, che c'era e che il Bentivoglio l'aveva accolta con tanto entusiasmo, si faceva strada in lei un'altra prospettiva.

Aveva fatto cose, in quegli ultimi tempi, di cui non si credeva capace. Aveva combattuto, ucciso, aveva visto amici d'infanzia morirle accanto, aveva vendicato la loro memoria e aveva lei stessa scampato la morte. Aveva provato a difendere le sue terre, si era sentita tradita dal suo stesso sangue e poi aveva cercato rifugio da un uomo che non poteva dire di conoscere a fondo, ma che stimava.

Adesso, si diceva, poteva fare anche qualcos'altro. Non era più il caso di avere paura. Aveva fatto cose per cui si richiedeva molto più coraggio. Senza contare che, da quando aveva passato per la prima volta a fil di spada un uomo, aveva sentito crescere dentro di sé una fame nuova, e Alessandro era colui che poteva legittimamente provare a sfamarla.

“Basta giocare.” disse lei, secca, posandogli una mano sul petto.

Il Bentivoglio non capiva se in quel gesto c'era un moto di repulsione o il suo esatto opposto. C'era una vaga pressione, nel tocco di lei, come se volesse allontanarlo, però le sue dita gli sfioravano la pelle come se volessero sentirlo ancora di più.

“Sono tua moglie. Voglio essere la tua donna e voglio che tu sia il mio uomo. Abbiamo aspettato anche troppo.” continuò lei e con un sospiro un po' tremulo, si fece più vicina e si puntellò appena, per arrivare a baciarlo sulle labbra.

Il bolognese mai si sarebbe atteso un simile risvolto, quella notte, ma nel momento in cui sentì il sapore della moglie, nel petto gli si accese un fuoco e, senza che potesse controllarsi, l'attirò ancor di più a sé e iniziò a indagare quel corpo che per tanto tempo aveva sognato di far suo.

 

Cesare Feo camminava a passo svelto lungo il corridoio. Erano quasi le quattro del mattino, ma la Sforza gli aveva detto di portarle notizie a qualunque ora, specie se si trattava di nuove riguardanti Tomaso Broccardi.

La staffetta che il castellano aveva mandato, era arrivata di buon'ora a Imola, benché avesse aggirato alla lunga Faenza, e aveva avuto molta fortuna, nel ritorno, mettendoci ancora meno tempo.

Così l'uomo non se la sentiva di attendere il sorgere del sole, per andare a riferire alla sua signora.

Stringendosi un po' nella vestaglia, benché facesse caldo perfino a quell'ora, il castellano arrivò alla porta della camera della Tigre. Esitò un momento, chiedendosi se fosse il caso di bussare lì o di spostarsi appena di lato e cercarla nella sua tana.

Provò a tendere l'orecchio, nel caso in cui qualche rumore potesse indirizzarlo, ma, non udendo nulla, decise di provare a cercarla prima nella sua stanza ufficiale. Solo la sera prima l'avevano vista uscire in città, di certo in cerca di compagnia maschile, e quindi il Feo si auspicava che invece quella notte avesse preferito restare sola.

Dopo appena due colpi, la donna andò ad aprirgli. Cesare riuscì a imporre ai suoi occhi di non fissarla troppo. Indossava un camicione da notte da uomo, che le arrivava sì e no all'inizio della coscia.

“Ci sono notizie di Broccardi?” chiese lei, stringendo un po' gli occhi e trattenendo uno sbadiglio.

Si era addormentata da poco, e sperava che l'uomo avesse cose importanti da dirle, altrimenti sarebbe stato un risveglio del tutto inutile.

“Sì.” annuì il Feo: “Gli è stato detto quanto avevate ordinato di dirgli e ha mandato, davanti a testimoni attendibili, tra cui il Governatore Corradini, immediatamente un carro a Ferrara con i soldi dovuti al Duca. Corradini li ha contati personalmente, e sono la cifra esatta.”

Caterina sospirò e commentò: “Si è convinto in fretta.”

Il castellano si ricordò il preciso racconto fatto dalla staffetta, che aveva visto tutto quello che era successo a Imola. Gli aveva raccontato che il Governatore aveva subito preso una ventina di soldati e si era presentato a casa di Broccardi. Gli aveva chiesto ragione di quel debito e Tomaso aveva risposto che sì, il debito c'era, ma che al momento non aveva soldi a sufficienza per ripagarlo.

“Allora – aveva raccontato la staffetta – il Governatore gli ha detto che in tal caso eravamo obbligati a prenderlo e portarlo qui a Forlì, al cospetto della Contessa, che desiderava chiedergli spiegazioni di persona, nelle segrete della sua rocca.”

Il ghigno che aveva distorto i lineamenti leggeri del messaggero aveva messo i brividi a Cesare.

“E questo – aveva ripreso il giovane – s'è bagnato le brache dalla paura e s'è gettato a terra, gridando come un matto, pregando e implorando e poi ha dato le chiavi della cassaforte e ha detto al Governatore di contare pure lui i soldi che servivano, che era pronto a questo e altro, per evitare la Tigre.”

“Sì, si è convinto in fretta.” disse piano il castellano, abbassando lo sguardo, non volendo ripetere alla Sforza tutto quello che gli era stato riferito dalla staffetta.

“Meglio così.” annuì la Contessa e poi con un cenno del capo, disse al Feo: “Se è tutto, torno a dormire.”

L'uomo confermò che non aveva altro da riferirle e così lei chiuse la porta e andò a sedersi sul letto.

La Leonessa immaginava bene come mai Broccardi si fosse deciso tanto rapidamente a saldare il suo debito. Aveva ordinato apposta di dire che, in caso si fosse dimostrato recalcitrante, sarebbe stato portato da lei a Forlì. Sapeva benissimo cosa la gente pensava di lei e il terrore che i racconti che la riguardavano avevano instillato nella popolazione.

Era una cosa che, a caldo, la disgustava, ma, a mente fredda, si rendeva conto di quanto potesse tornarle utile. Quel caso ne era stato un fulgido esempio.

Provò a ricoricarsi, il pensiero del Duca di Ferrara e della sua collerica richiesta già svanito. Era contenta di sapere che almeno quel motivo di attrito tra lei ed Ercole non ci sarebbe stato, ma in fin dei conti si rendeva conto di quanto poco le importassero i favori di un uomo il cui soprannome era Tramontana. Un uomo – era bene ricordarlo sempre – che era stato il suocero di sua sorella Anna Maria, e che aveva contribuito a rendere la sua breve vita un inferno.

Mentre osservava in silenzio le ombre sul soffitto, stesa nel suo semplice lettuccio da soldato – che era così diverso dai baldacchini in cui aveva dormito quando viveva a Roma o nei palazzi di suo marito, a Imola prima e a Forlì poi – Caterina si rese conto che non sarebbe riuscita a riprendere sonno.

Le sue preoccupazioni e la consapevolezza di non poter porre rimedio a gran parte dei suoi problemi, la indussero a rimettersi in fretta seduta e a cercare distrazione. Provò a leggiucchiare qualcosa, poi dopo essersi versata un paio di calici di vino, pensò che prendere un po' d'aria l'avrebbe aiutata.

Vagò per la rocca, sperando che l'alba arrivasse presto. Evitò però i baraccamenti dei soldati e le stalle. Voleva dimostrare a se stessa di sapersi dominare, quando si impegnava. Finì nella Sala della Guerra.

Accese qualche candela e si mise a osservare la mappa d'Italia, speculando su ogni minimo risvolto della guerra tra Firenze e Pisa e, subito dopo, di quella tra la Francia e praticamente mezza penisola.

Tuttavia, per quanto la sua mente fosse abbastanza occupata, l'inquietudine di fondo non la lasciava. Sapeva cosa voleva, e si trovò a ripensare a Giovanni da Casale. Con lui al suo fianco, notti come quella sarebbero stato molto più facili da spazzare via.

Prese tra le mani uno dei segnalini che rappresentavano le truppe di suo zio Ludovico. Era arrivata a strapparlo al Moro, pur di averlo per sé. Pirovano, per lei, era importante, molto più di quanto non volesse credere.

Si morse il labbro e poi, lanciando uno sguardo alla finestra per cercare di capire che ore fossero, decise di tornare in camera. Avrebbe scritto a Giovanni e gli avrebbe ordinato di chiudere in fretta le trattative e tornare da lei.

E, se per caso non fosse stato possibile per lui ottenere rapidamente una risposta chiara e accettabile dalla Signoria, che tornasse lo stesso. In fondo, negli anni, la Tigre aveva trattato spesso con Firenze senza bisogno di un ambasciatore.

La condotta per Ottaviano e gli equilibri di forza che la legavano a Lorenzo Medici erano importanti, ma lo era anche mantenere i nervi saldi e, senza Pirovano al suo fianco, sarebbe stato per lei troppo difficile andare avanti. Non aveva tempo né voglia di cercarsene un altro. Se l'era scelto, l'aveva ottenuto, anche a un certo prezzo, e ora lo voleva di nuovo per sé. Anche lui, in fondo, sapeva di essere solo quello per lei, quindi non ci sarebbe stato nemmeno un velo di ipocrisia, nella loro relazione.

Erano entrambi di bell'aspetto, di sano appetito e attratti reciprocamente. Era uno scambio equo.

Lui non le era d'aiuto coi figli, che, anzi, sembrava quasi non vedere nemmeno, né si permetteva di darle consigli per la gestione dello Stato. Però, rispetto agli amanti che si prendeva per una notte o al massimo due, aveva due grandi pregi: era fondamentalmente di buon carattere ed era milanese. Sentirlo parlare con quell'accento che nemmeno i suoi figli usavano, a volte le scaldava il cuore.

Giovanni da Casale non era perfetto, aveva tanti punti deboli e la Contessa ancora non sapeva quanto contare su di lui per le cose veramente importanti. Però era meglio di tutti gli altri uomini sulla piazza. Le serviva solo a una cosa, due al massimo, ma le serviva.

Mentre, nella sua stanza, finiva la breve missiva per il suo amante, la Tigre deglutì a fatica e sussurrò, a voce bassa, lo sguardo che cadeva sul suo nodo nuziale: “Se solo ci fossi ancora tu...”

 

Alessandro Bentivoglio si sentiva strano. Il suo padiglione, che fino a poche ore prima gli era parso scarno e inospitale, aveva assunto una sfumatura estremamente familiare e accogliente.

Forse, si disse, era il calore del corpo di sua moglie, incollato al suo, ancora non del tutto abbandonato a lui, come se, malgrado quello che avevano fatto, ci fosse ancora una piccola barriera da abbattere.

Ippolita gli si era concessa con naturalezza, apparentemente senza indugi. Il bolognese aveva fatto del suo meglio per essere dolce, per seguire le sue silenziose richieste. Ci teneva a non rovinare tutto, dopo aver aspettato così a lungo.

La branda da campo sarebbe stata troppo stretta, per ospitarli entrambi, ma la giovane si stringeva a lui abbastanza da rendere quel giaciglio più che sufficiente. Alessandro sentiva il seno di lei premuto contro il petto, che si sollevava e si abbassava lentamente con il suo respiro.

“Voglio tanti figli.” disse piano, appena in un soffio, la Sforza: “Tanti figli che crescano sani e forti e che si riprendano con le armi la terra di mio padre.”

Il marito sollevò appena un sopracciglio. Anche a lui non sarebbe dispiaciuto un figlio, e, pensava, da come sua moglie l'aveva accettato quella notte, era probabile che, andando di quel passo, un bambino sarebbe arrivato presto davvero.

Da lì ad allevare un piccolo esercito di Bentivoglio dal sangue sforzesco, però, ce ne passava.

Tuttavia, non volendo smorzare sul nascere quel tentativo di avvicinamento ulteriore fatto da sua moglie – perché, nella sua ottica, confidargli quel desiderio era un modo come un altro per cercare di azzerare le distanze – l'uomo annuì e bisbigliò di rimando, scostandole con lentezza una ciocca di capelli dalla fronte un po' sudata: “Sì, ne faremo tanti. E, quando Milano cadrà, torneremo in Emilia, a Bologna, e lì potremo pensare al futuro.”

“Quando Milano cadrà...” fece eco Ippolita, una mano che cercava con urgenza quella del marito e il viso che premeva contro il suo collo.

Alessandro sentì il calore di qualche lacrima della moglie inumidirgli la pelle. La capiva e non avrebbe voluto essere tanto brutale, ma anche lei, ne era certo, aveva capito che il Moro era spacciato.

“Saremo felici.” disse il bolognese, con una sicurezza che avrebbe convinto chiunque: “Qualsiasi cosa accada, saremo felici.”

La Sforza tirò un sospiro tremulo e riuscì a smettere subito di piangere. Non avrebbe voluto farlo, ma in quel momento, per quanto si dicesse che ormai era una donna e una moglie a tutti gli effetti, si sentiva ancora solo una ragazzina.

“Per il momento – sospirò il Bentivoglio, dopo averle dato un breve bacio sulla fronte – pensiamo a stare lontano dai campi di combattimento. Non hanno bisogno di noi. Facciamo presenza qui, ma appena le cose si faranno difficili, ci defileremo.”

“Questo è un comportamento da vili.” notò Ippolita, spostandosi un po', fino a cercare gli occhi brillanti del marito nel buio.

“No, è un comportamento sensato.” la corresse lui, poi, mettendole una mano sul fianco e accarezzandola, un po' con desiderio e un po' con tenerezza, concluse: “Voglio essere felice e voglio esserlo con te. So che il tuo sangue è quello di Francesco Sforza, so che non accetti gabbie, ma salvarci la pelle questa volta non vuol dire costruirsi una gabbia, ma sopravvivere.”

La ragazza pareva perplessa, ma poi, vinta dal tocco del marito, dalla sua voce, che le era mancata tantissimo, e dalla sua prestanza, che era lì, apposta per lei, a suo uso e consumo, lasciò che un lato di lei molto meno orgoglioso e molto più istintivo prendesse il sopravvento.

“Io ti voglio ancora.” sussurrò.

“Sicura?” fece lui, ma per pura retorica, dato che già la stava facendo scivolare sulla schiena, mettendosi sopra di lei, cercandola come la prima volta, solo con minor cautela.

Mentre Ippolita riprendeva a baciarlo, facendosi quasi mancare il fiato per la presenza ingombrante e piacevolmente prepotente di lui, ad Alessandro venne da sorridere, pensando a quello che dicevano degli Sforza: a detta di tutti gli Sforza erano o grandi guerrieri, o grandi seduttori o grandi mangioni. E, di norma, uno Sforza degno del suo nome eccelleva in almeno due qualità su tre.

Finalmente, si disse il Bentivoglio, sua moglie aveva rispettato quella regola non scritta.

 
 
   
 
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