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Autore: Adeia Di Elferas    17/06/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Machiavelli osservava con un certo distacco la Tavola di Nostra Donna di Santa Maria Impruneta mentre, la folla la trasportava verso il cuore della città.

Anche se quel genere di ricorrenze gli interessava poco, il Segretario di Stato aveva pensato che sarebbe stato giusto, per lui e per la sua carriera, mostrarsi partecipe di quella parentesi di vita cittadina.

Così era stato accanto alla Tavola fin dal suo arrivo al limitare della città. Il sole di quel 24 agosto era crudele e gli batteva sulla testa con la ferocia di un martello. A nulla serviva avere con sé il cappello, se poi era necessario tenerlo in mano, in rispetto alla Madonna.

La data scelta dalla Signoria, per quella festa, era il 25 agosto. Era stato Vitelli a chiedere e ottenere che venisse anticipata di un giorno. Aveva reso noto che quel giorno aveva intenzione di dare l'ultimo affondo a Pisa, in modo da aver vinta la città una volta per tutte anche senza piegarla al sacco – come, d'altro canto, gli era stato esplicitamente richiesto – e così trovava che la processione gli sarebbe stata di miglior auspicio e aiuto, se fosse stata fatta in contemporanea con il suo attacco.

Facendo parte del seguito che aveva preso in consegna il sacro oggetto fin da prima dell'ingresso in Firenze, Niccolò aveva potuto assistere a un curioso avvenimento.

Mentre passava sotto un ulivo, l'effige della Madonna era rimasta per un istante impigliata nelle fronde della piante e un rametto era rimasto incastrato in una delle stelle del mantello di Maria.

Alcuni di quelli che portavano a braccio la reliquia, istigati anche dagli altri fedeli, che avevano visto in quel fatto solo un incidente spiacevole, avevano cercato di far cadere il ramicello usando una canna, ma, per quanto si fossero impegnati, non c'erano riusciti.

Niccolò era rimasto abbastanza basito, quando, dinnanzi all'impossibilità di districare il ramoscello a quel modo, invece di ingegnarsi a trovare un'altra soluzione, i presenti avevano cominciato a gridare il miracolo, volendo vedere in quel fatto il volere divino.

“La Madonna – dicevano – porta in Firenze l'ulivo della pace! La guerra è vinta!”

La processione era arrivata a San Felice. Lì, in mezzo alla folla che l'attendeva, Machiavelli riconobbe anche Jacopo Salviati, seguito dalla moglie e sai figli. Trovava quasi ridicolo quello sfoggio di prole. Era come se quell'uomo, all'apparenza così pacato e misurato da sembrare a tratti un ignavo, volesse dimostrare a tutti che, nel segreto della sua casa, era molto più intraprendente di tanti altri.

I portantini aveva smesso un momento di avanzare, su suggerimento di alcuni, e avevano abbassato la Tavola al solo scopo di togliere il ramo d'ulivo dal mantello della Madonna metterlo più in bella mostra, direttamente sulla spalla della statua, in modo che tutti potessero vedere e capire.

“Non ti sembra che sia un segno un po' troppo scontato? Un ramo d'ulivo...” sussurrò Lucrezia Medici, mentre, assieme al marito e seguiti dalle balie che tenevano i loro figli, si metteva a seguire a passo lento la processione.

Jacopo corrugò appena la fronte e poi disse, accomodante: “Lo trovo un segno divino molto più pratico di una colomba. Almeno un ramo d'ulivo non rischia di insozzare con le sue deiezioni la Madonna...”

La donna avrebbe voluto insistere, ma aveva capito che il marito aveva compreso perfettamente quello che intendesse, ma che avesse deciso di smorzare la questione solo perché aveva intravisto poco distante da loro un altro Medici, Lorenzo, e, forse, anche solo poche parole riguardo quello che veniva già definito un miracolo avrebbero potuto scatenare tra loro uno scontro. E il Salviati tutto voleva, fuorché una zuffa nel mezzo della processione dedicata alla Nostra Donna di Santa Maria Impruneta.

Il Popolano, però, li aveva notati a stento. Anche se alla sua sinistra c'era la moglie, Semiramide, la sua attenzione era tutta per Puccio Pucci, che gli stava alla destra. Stavano discutendo gli ultimi dettagli riguardo la sua partenza alla volta di Forlì e della Madonna o dei Salviati non gliene importava proprio nulla, al momento.

“E quel Pirovano?” chiese a un certo punto l'ex ambasciatore fiorentino, scansando all'ultimo un pezzo di sterco di cavallo.

“Non ho idea di quando ripartirà.” rispose velocemente Lorenzo.

“No, perché preferirei trovarmi al cospetto della Contessa Sforza sapendolo lontano... L'ultima volta con lei c'era quel Feo, che era un sempliciotto... Ma con quel milanese accanto, potrebbe anche sentirsi abbastanza forte per...” cominciò a borbottare Puccio.

Al che il Popolano alzò imperioso una mano dalle dita tozze e lo redarguì: “Non vi conviene molto parlare del passato. Non ho dimenticato che siete stato al servizio di mio cugino Piero. Non mi interessa cosa sia successo tra voi e la Sforza in passato. A me interessa il presente. Tornate a casa con i soldi, o con una valida scusa per revocarle la custodia del bambino. Altro, da voi, non voglio.”

Pucci chinò appena il capo e, convinto che tacere gli avrebbe solo giovato, non disse altro.

La processione stava attraversando tutta Firenze e anche Giovanni da Casale aveva deciso di assistervi, almeno nella parte finale. Tuttavia, poco prima che potesse uscire dalla locanda, per raggiungere il resto del pubblico in attesa nel cuore della città, l'oste gli diede voce e lo fece avvicinare.

“Vi è arrivata questa, una manciata di minuti fa.” gli spiegò, porgendogli una missiva.

Pirovano riconobbe all'istante la grafia della Tigre e così, senza perdere tempo, ringraziò l'uomo e se ne tornò in camera per leggerla. Già dalle prime righe sentì il cuore battere più veloce. Poteva avvertire, nelle parole scelte dalla sua amante l'urgenza reale di riaverlo con sé.

Sapeva che la richiesta di chiudere il più in fretta possibile anche solo la parvenza di un accordo o, almeno, di una proposta accettabile, non era legata alla politica o alla strategia bellica della bella Sforza. Semplicemente si era stancata di stare sola. O meglio, si era stancata di non averlo accanto a sé. Si era pentita di averlo fatto partire e ora, pregna del suo solito orgoglio che la rendeva troppo rigida, lo pregava – a modo suo – di tornare da lei.

Se la immaginava, la notte, da sola, a pensare a lui. La poteva quasi vedere, rigirarsi tra le lenzuola, accarezzando il vuoto che lui aveva lasciato. Riusciva a sentirla sospirare il suo nome e chiudere gli occhi per immaginare di averlo vicino.

Forse, un sussurro maligno dentro di lui gli diceva, mentre erano separati si era concessa ad altri uomini. In fondo, tutti sapevano che lei era così. Ma Pirovano non voleva crederci. Prima di lasciare Forlì aveva minacciato quasi tutti i soldati di Ravaldino, aveva imposto loro di non giacere con la Leonessa, nemmeno se fosse stata lei a chiederlo in modo esplicito. Aveva intimato a tutti di trovare una scusa e rifiutarla. La Sforza era così orgogliosa che, dopo i primi due o tre rifiuti, di certo aveva smesso di cercare ed era rimasta sola, sola ad attenderlo.

Giovanni deglutì, sentendo i rumori distinti della processione ormai arrivata e passata. Lui era ancora seduto con la missiva in mano. Aveva letto e riletto le frasi secche della sua amante e quasi gli sembrava di poterne sentire la voce.

Respirò a fondo. Per quel giorno, con la maledetta processione che c'era in programma, non sarebbe riuscito a ottenere un'udienza particolare con la Signoria. Ci avrebbe provato l'indomani e, lo giurò a se stesso, il prima possibile sarebbe tornato dalla sua Caterina.

 

“Siete sicura che sia una buona idea?” chiese il medico personale della Contessa, guardandola di traverso.

Caterina si era appena fatta visitare. Stava bene, almeno, così le sembrava, ma ogni tanto le riaffiorava la paura di poter incappare in qualche manifestazione della malaria che si portava appresso, verosimilmente, da quando circa quindici anni prima era stata in guerra al seguito degli Orsini.

Quella mattina aveva tossito un po' e tanto le era bastato per chiedere conferma del suo stato di salute al dottore. Questi l'aveva auscultata, le aveva fatto qualche domanda, si era informato, seppur in modo molto superficiale, riguardo agli altri aspetti della sua vita – cercando anche quella volta di porre l'accento sull'importanza di mantenere una condotta regolare, senza eccessi con il vino e con gli uomini, e del dormire il giusto numero di ore per notte – e poi i due, mentre la donna si rivestiva, erano passati a discutere dell'epidemia di peste.

I casi erano sporadici, in città, ma qualcuno c'era stato e, per quanto isolato all'istante, rischiava comunque di creare un pericolo per l'intera popolazione.

Dopo qualche frase quasi di circostanza, la Tigre aveva chiesto se, a parere dell'uomo, fosse una buona idea usare la sua pozione a far dormire, quando si fosse reso necessario l'intervento di Beliardo per amputare qualche dito o, peggio, qualche arto.

“Non ne sono sicura, infatti chiedo a voi.” fece la Sforza, finendo di sistemarsi l'abito e tornando a guardare il medico.

Questi sollevò le spalle e disse: “Immagino che quel barbiere abbia già i suoi metodi, per limitare il dolore dei suoi pazienti.”

La Leonessa non apprezzò molto quell'inciso, che, nell'arco di una sola frase, sembrava volerla rimettere al suo posto, come a dirle che, per quanto si sentisse un'esperta, restava comunque una profana, in quel campo.

“Tornando a quel che mi riguarda – proseguì quindi la Contessa, evitando motivi di scontro con quello che, in fondo, riteneva un amico – dite che sono in buona salute?”

“Sì, mia signora.” fece lui, ben felice di cambiare argomento: “Vi ripeto di riguardarvi e non fidarvi troppo del vostro fisico che, per quanto notevole, è comunque umano, ma per il resto...”

“Quindi se oggi uscissi a cavalcare, non ci sarebbero problemi, giusto?” tagliò corto Caterina, dando un rapido sguardo fuori dalla finestra.

Negli ultimi giorni si era fatta molto più irrequieta del solito. Forse per via dell'avvicinarsi dell'anniversario della morte di Giacomo, forse perché aspettava il ritorno di Pirovano... Quale che fosse il motivo, dopo meno di mezza giornata sentiva la rocca farsi troppo stretta attorno a lei e aveva bisogno di uscire. Andava al Quartiere Militare, o in una locanda a bere, e poi tirava sera, cercandosi compagnia una volta calata la notte. Quel giorno, però, aveva voglia di andare per boschi.

“Nessuna obiezione.” affermò il dottore: “Anche se vorrei consigliarvi di scegliere un cavallo più tranquillo di quello che montate di solito. Se dovesse disarcionarvi...”

“Non l'ha mai fatto, nemmeno quando l'ho cavalcato a pelo. Non vedo perché dovrebbe farlo proprio oggi.” lo liquidò lei, un po' infastidita da tutte quelle premure.

A quel punto, il medico non aggiunse più nulla e le augurò di trascorrere un buon pomeriggio.

La Tigre non se lo fece ripetere e, con passo svelto e la mente già altrove, la donna raggiunse le stalle.

“Sellate il mio stallone.” ordinò a uno degli stallieri, senza nemmeno guardarlo.

Mentre il giovane andava a prendere i finimenti per la bestia preferita della Contessa, questa si avvicinò al suo cavallo.

Era agitato. Le froge erano dilatate e gli occhi scuri la sfuggivano di continuo, cercando un punto oltre le sue spalle. Batteva di quando in quando lo zoccolo in terra e anche quando la sua padrona cercò di richiamare la sua attenzione accarezzandogli il muso, questi le dedicava appena qualche sguardo.

“Ve l'avevo detto che un castrone è più facile da tenere a bada...” disse piano lo stalliere, arrivandole alle spalle.

Solo in quel momento Caterina lo riconobbe come il ragazzo che, una volta, aveva portato nella sua tana. Si era quasi del tutto scordata, di quella notte passata insieme. L'unica cosa che ricordava in modo distinto era l'odore un po' selvatico della sua pelle, che le aveva riportato alla mente in modo così nitido il sentore che aveva Giacomo quando si erano conosciuti.

Avvertendo uno spiacevole calore alla base del collo, la Sforza ribatté: “E io ti ho detto che non lo farò toccare da nessuno. Ma come mai oggi è così agitato?”

Il giovane, iniziando a preparare lo stallone, fece un breve sorriso e, dedicando alla sua signora uno sguardo insinuante, spiegò: “Hanno portato da poco la nuova cavalla. Appena ne ha sentito l'odore, ha cominciato ad agitarsi.”

“Allora è un bene che io abbia deciso di uscire a cavalcare, così si schiarirà un po' le idee.” fece la Tigre, rivolgendosi poi direttamente alla sua bestia: “Ti piace, eh, quella cavalla?”

L'animale fece un mezzo nitrito, quasi ad annuire e poi si voltò di scatto verso lo stalliere, mostrando i denti ed emettendo un suono più acuto, quasi minaccioso.

“Dio solo sa come facciate a farlo ubbidire.” disse lo stalliere, scuotendo il capo, mentre tornava a vestire il cavallo dopo un momento di esitazione: “Nessuno riesce a trattare con lui. A mala pena si lascia bardare...”

Mentre lo stallone, quasi con malinconia, sgranava un'ultima volta gli occhi in direzione della nuova giumenta, la Contessa trattenne a stento una risata mesta: “Forse andiamo così d'accordo, io e lui, perché in fondo ci somigliamo.”

Il ragazzo faticò a capire subito il collegamento fatto dalla sua signora, ma, quando l'afferrò, non poté smentirla del tutto.

Lo stalliere ricordava ogni istante della notte che aveva passato con la Tigre. Ci ripensava di continuo e, quando gli capitava di vederla o di sentirne anche solo la voce, la memoria lo riportava a quei momenti in modo ancor più imperioso.

“Sì, avete ragione.” convenne alla fine, ricordandosi la voracità con cui l'aveva voluto e poi, quando al mattino dopo le era diventato più d'impaccio che di bisogno, la fretta con cui l'aveva scacciato.

In quell'ottica era davvero facile paragonarla al suo stallone, che si incapricciava di tutte le cavalle che arrivassero nella scuderia, per poi non guardarle più nemmeno per sbaglio, dopo essere riuscito ad avere da loro ciò che voleva.

Caterina non aveva voglia di perdere altro tempo in chiacchiere. Aveva tante cose a cui pensare e sentiva la necessità di starsene da sola. Così prese le briglie, diede un ultimo sguardo al giovane, dicendosi che, in fondo, non era niente male e forse meritava una seconda opportunità, e montò in sella.

Lasciò la stalla già di corsa, uscendo nel cortile come una freccia e passando dal portone e poi dal ponte levatoio a velocità sempre crescente. Chiunque l'avesse guardata in quel momento, altro non avrebbe potuto pensare di lei se non che aveva un diavolo in corpo, esattamente come lo stallone che cavalcava.

 

Gian Giacomo da Trivulzio stava controllando che il campo venisse preparato come si doveva. Non si aspettava che la presa di Alessandria fosse facile.

Fino a quel momento, gli era quasi parso di giocare. Tutti i paesi che avevano incontrato, da Voghera a Castelnuovo Scrivia, da Tortona a Stradella, erano cadute nelle sue mani senza quasi dargli battaglia.

Perfino Casteggio non era stato un problema. Il Trivulzio si era convinto che la sua signora, Ippolita Sforza, avrebbe fatto valere il suo nome, sferrando chissà qualche colpo difensivo, e invece aveva potuto schierare solo un pugno di fanti, qualche vecchio pezzo d'artiglieria e una cavalleria tanto sguarnita quanto scoordinata. Suo marito Alessandro Bentivoglio, poi, non era nemmeno corso in suo aiuto.

Insomma, per il momento l'unico vero grande nemico di Gian Giacomo non erano gli italiani, ma i francesi.

Se gli altri comandanti, tra cui Don Giuliano di Ligny e l'Aubigny lo criticavano di continuo, quasi deridendolo per la sua eccessiva rigidità coi soldati – rigidità che veniva derisa dai soldati stessi, che andavano avanti per la loro strada come nulla fosse – al Trivulzio non importava. Voleva essere alla guida di un esercito forte, ma ordinato. E invece non c'era giorno che non dovesse mettere in consegna degli uomini, o, ancor peggio, punirli corporalmente. E questi provvedimenti altro non facevano se non aumentare l'insofferenza nei suoi confronti e la riottosità a seguire le regole.

“Se avessimo ai nostri ordini dei soldati italiani – disse a Troilo, che lo seguiva a stretta distanza tra i padiglioni – avremmo già preso Milano da una settimana!”

Il Rossi annuì in silenzio. Per quello che ne sapeva, anche in Italia c'erano truppe scalmanate, ma doveva ammettere che i francesi erano il peggio che potesse esistere. Suo padre Giovanni gli aveva raccontato tante cose, della guerra e lui stesso, ormai trentasettenne, aveva visto abbastanza degli uomini e del loro modo di combattersi da sapere di cosa fosse capace l'essere umano. Malgrado ciò, i francesi continuavano a stupirlo.

“Non hanno rispetto nemmeno delle chiese, o dei conventi...” borbottò ancora tra sé Gian Giacomo, prendendo una via traversa, per andare dagli altri comandanti, che l'aspettavano al tavolo per decidere come muoversi: “Per loro una donna o una capra, sono tanto uguali. Bruciare una casa, una chiesa o un cumulo di sterpi, anche. Non è la guerra che voglio.”

“Non possiamo sceglierci i soldati da comandare, però.” chiuse il discorso Troilo che, già da qualche giorno, si era preso la briga di fare da silenziatore dell'amico, temendo che parlasse troppo in presenza di orecchie sbagliate.

Anche se re Luigi pareva deciso a lasciargli fino alla fine del conflitto il potere, in un campo di militari alla fine si creava sempre un mondo parallelo con regole proprie e, se si fosse fatto odiare davvero, alla fine il Trivulzio avrebbe fatto una brutta fine.

Non dissero più nulla e, quando arrivarono finalmente in presenza degli altri comandanti, Gian Giacomo saputò tutti nel modo più cordiale che conosceva e poi, dopo uno sguardo d'intesa con l'emiliano, che si stava lisciando la barba rossiccia con una mano, disse: “Ecco il mio piano. Ora attaccheremo immediatamente con l'artiglieria, senza dar loro modo di prepararsi. Ci crederanno ancora impegnati nel sistemare l'accampamento, e invece attaccheremo.”

Ci fu un lungo momento di silenzio, tra i comandanti e francesi e poi fu l'Aubigny a parlare, con il suo tono strascicato, puntando i piccoli occhi di ghiaccio prima in quelli del Trivulzio e poi in quelli chiari e dal taglio lungo del de Rossi: “Se riuscirete a convincere gli uomini, per noi non c'è problema.”

Mentre i francesi ridevano e cominciavano a chiacchierare tra loro proprio come se Troilo e Gian Giacomo non fossero lì, quest'ultimo fece con il primo: “E noi troveremo il modo di convincerli.”

“Ovvero?” domandò il Rossi, accigliandosi un po'.

L'altro, più anziano e molto più disilluso, fece un lungo e dolente sospiro e disse: “Gli prometteremo che se la città cadrà, potranno fare bottino.”

Gli occhi svegli di Troilo lampeggiarono per un istante, ma in breve comprese che l'amico aveva ragione e che quello era l'unico modo, così commentò, a denti stretti: “Spero che questa guerra finisca presto.”

“Io sono vecchio, ma tu che sei molto più giovane di me, dovrai farci l'abitudine. La guerra non è più un affare per uomini d'onore, ma per gentaglia. O ti adatti, o ti spazzano via.” sentenziò il Trivulzio, dandogli un colpetto sulla spalla: “E ora andiamo, diamo l'ordine prima che sia mezzogiorno.”

 

Senza che Caterina se ne fosse davvero accorta, era arrivata la mattina del 27 agosto. Faceva caldo e non c'era molto, nel cielo pallido e abbacinante di quel giorno, che ricordasse la giornata limpida che aveva visto le ultime ore di vita di Giacomo Feo, quattro anni addietro.

Fin dal risveglio, rendendosi conto di che giorno fosse, la Sforza si era trovata di umore peggiore del solito, e, invano, aveva cercato di combattere la propria malinconia e la rabbia di fondo che, per le cose più infinitesimali, continuava a riaffiorare.

Era bastata una parola storta del Capitano Rossetti per farle alzare la voce nella sala dei banchetti a colazione, era stato sufficiente inciampare per sbaglio in un gradino delle scale per bestemmiare come un turco e poi, quando aveva cercato un attimo di pace nella sala delle letture, un posto in cui Giacomo non era andato quasi mai, sentire qualcuno entrare, distraendola dai suoi pensieri, l'aveva subito fatta scattare con una serie di improperi che si spensero solo quando si accorse che a essere entrata era sua figlia Bianca.

“Perdonatemi, me ne vado subito... Sono solo venuta un istante a prendere un libro che mi serve a lezione...” si scusò la ragazza e, quasi correndo a uno degli scaffali, prese con decisione un volume di storiografia latina.

“Fai con calma.” fece la madre, già pentita del proprio scatto.

Tranquillizzata dal tono abbastanza pacifico della Tigre, la Riario se la prese più comoda, cercando anche il secondo tomo che le serviva. Caterina, nel frattempo, la osservava in silenzio. Non poteva scordare, per quanto ci provasse, che anche sua figlia sapeva, o, almeno, aveva intuito cosa sarebbe successo a Giacomo. Ed era stata zitta.

All'epoca era una bambina appena, eppure la Sforza era sicura che aveva taciuto apposta. In fondo, nemmeno a lei dispiaceva l'idea di liberarsi dell'ingombrante Barone Feo.

Bianca sentiva gli occhi della Contessa sulla propria schiena. Sapeva benissimo che ricorrenza portava con sé quel giorno d'agosto e anche lei, esattamente come la madre, non riusciva a pensare ad altro da che si era svegliata.

Anche se fin da subito la Leonessa aveva detto chiaramente di non volerla considerare responsabile, la giovane si sentiva in colpa, eccome. E sapeva che era troppo tardi per rimediare ai suoi errori.

“Bianca, ascolta, ma...” iniziò a dire Caterina, con il nodo allo stomaco che le stringeva l'anima, ma che aveva fatto salire la voce alle sue labbra.

La Riario si voltò di scatto, un libro al petto e l'altro appena afferrato dallo scaffale, ma già mentre si girava, la madre si era zittita, perché sulla porta si era profilato il castellano.

Anche Cesare Feo, quel giorno, pareva non saper pensare ad altro che al nipote, strappato alla vita in modo violento, appena fuori da Forlì, ma ciò non andava a disturbare la sua proverbiale efficienza.

Portava con sé un pacchetto e un borsone, corredati da una lettera: “Mia signora, non volevo disturbare, ma sono arrivate queste cose da Leonardo Strozzi. Il messo aspetta di sapere se la merce è di vostro gusto o meno, prima di ripartire, nel caso ci sia del reso.”

La Sforza annuì, poi controllò quanto le era stato portato. Le scarselle, che attendeva per altro da parecchio, erano troppo rigide e sapeva che si sarebbero guastate in fretta. Quindi quelle andavano restituite e cambiate con altre di migliore qualità. Poi passò al pacco. Conteneva i confetti.

Richiudendolo, la Contessa porse il pacchetto a Bianca, e le disse: “Questi li ho presi per Sforzino.”

La ragazza prese quanto le veniva porto, ma sembrava non capire. Era felice che la madre avesse avuto un pensiero gentile per il fratello, ma non vedeva perché dovesse dare a lei la confezione di confetti.

“Portaglieli, per favore.” precisò allora la Tigre, notando come la figlia paresse non aver compreso.

Il castellano, presenza discreta, osservava la scena senza dire nulla, anche se avrebbe voluto intervenire. Essendo lo zio di Giacomo e il prozio di Bernardino, si sentiva a tratti molto più un familiare che non un mero collaboratore della sua signora e quindi, in momento come quello, avrebbe tanto voluto essere autorizzato a dare consigli personali.

Sapeva, però, che se l'avesse fatto forse Caterina non ne sarebbe stata contenta e, anzi, avrebbe reagito allontanandosi più di quanto già non facesse di norma.

Per fortuna anche Bianca aveva avuto lo stesso pensiero di Cesare e, infatti, provando a riconsegnare il pacco alla madre, chiese: “Perché non glieli portate voi?” ma siccome la donna stava già prendendo fiato, in un chiaro segno di insofferenza, la ragazza soggiunse: “Per lui sarebbe importante...”

“Ti prego.” ribatté un po' mesta la Leonessa: “Portaglieli tu.”

Bianca, nello specchiarsi nelle iridi verdi della milanese, si rese conto che quello non era un ordine o un modo per scrollarsi di dosso un impegno che l'annoiava. Sua madre la stava davvero pregando di consegnare quel regalo al suo posto perché non sapeva come fare. Quel giorno, complice l'anniversario della morte del Barone Feo, la Contessa era in uno stato di instabilità emotiva molto evidente e forse, pensò la Riario, avrebbe rischiato qualche passo falso con Sforzino, se l'avesse avvicinato.

Poiché la giovane aveva visto coi propri occhi gli effetti deleteri che la Tigre poteva avere sulla prole, quando non era dell'umore giusto, alla fine accettò e, lasciando un momento i libri da parte, strinse il pacchetto con entrambe le mani e disse: “Gli dirò che glieli mandate voi, che volevate farglieli avere subito, ma che gli affari di Stato vi hanno impedito di portarglieli.”

“Sei una donna molto saggia.” commentò con un debole sorriso Caterina.

Una volta che la Riario si fu allontanata, la Sforza chiese al castellano: “Il messo di Strozzi sta ancora aspettando, vero?”

“Sì.” confermò Cesare, tornando a farsi serio, come ogni volta in cui si sentiva compreso nel suo ruolo ufficiale.

“Queste bisacce non vanno bene.” fece, un po' frettolosa, la donna: “Vado in camera mia per scrivere la lettera di accompagnamento, ma intanto ridate queste al messo.”

Mentre il Feo raccoglieva il borsone contenente le scarselle che non avevano soddisfatto la sua signora, lei lasciò la sala delle letture, la missiva dello Strozzi stretta in mano, e si andò a chiudere in camera.

Lesse con attenzione le parole del suo incaricato e scoprì con un misto inesplicabile di soddisfazione e avvilimento che i gioielli che gli aveva chiesto di impegnare a Venezia potevano fruttarle anche più del previsto.

'Havemo recevuto le vostre lectere cum quelle directive a Vinetia: useremole secondo il bisogno et provideremo del suplemento da quà.' scrisse, intingendo poi la punta della penna un paio di volte, prima di continuare: 'Le Scarselle remandiamo: sonno tropo dure per il corio li è dentro: le voressimo solum fodrate de tela gracile et cosi ne farite fare due che siano polite.'.

Poi si spese in qualche frase ancora di ordine pratico, riguardanti alcuni affari in sospeso, e infine firmò. Con la lettera ancora aperta davanti a sé, in attesa che l'inchiostro asciugasse per bene, la donna fece un lento respiro.

Le bastava restare con le mani in mano anche solo una manciata di secondi, per tornare con la mente a cose successe quattro anni addietro. E, anche se si teneva impegnata, non riusciva comunque a concentrarsi davvero su nulla, come il fantasma del suo Giacomo la tirasse continuamente per una manica, per ricordarle che era lì con lei.

Come in cerca di sollievo, la Leonessa sollevò lo sguardo, passando in rassegna gli oggetti che riempivano la sua camera. Lì, inutile dirlo, era Giovanni a essere ancora presente. I suoi libri, alcuni fogli autografi, i suoi vestiti... Tutto ricordava lui.

Fu un lampo, una sorta di improvvisa epifania. La Contessa se n'era del tutto scordata, ma in quel momento sembrava incapace di pensare ad altro: l'anno prima, in quegli stessi giorni, anzi, in quello stesso giorno, si era dimenticata dell'anniversario della morte del suo secondo marito. Era un periodo in cui Giovanni stava male, troppo male, senza che nessuno di loro due lo sapesse, il fiorentino aveva ancora venti giorni mal contati di vita davanti a sé. La Sforza era stata così concentrata su di lui, da dimenticarsi perfino del grande amore della sua vita.

Un anno aveva fatto celebrare per lui decine e decine di messe, e l'anno dopo, concentrata sui dolori del Medici, se n'era addirittura scordata...

Caterina, la mente stretta tra due morse – il ricordo del suo Giacomo e quello di Giovanni – fece un respiro profondo e poi chiuse la lettera destinata a Strozzi.

Si alzò dalla scrivania e uscì per andare a cercare il castellano. Gli consegnò la missiva e gli ricordò di riconsegnare le scarselle al messo mandato da Leonardo. Poi, per tenersi occupata, nel disperato tentativo di arrivare indenne almeno a sera, decise di andare a controllare i lavori al Paradiso.

Sotto il sole sordo del mezzogiorno, la cittadella sembrava una piccola perla di pietra. Ormai era pressoché ultimata e, non appena fosse tornato Pirovano, Caterina gli avrebbe dato ufficialmente il comando di quella fortificazioni, in modo che potesse già rodare un certo numero di soldati che sarebbero rimasti preposti alla sua difesa, quando fosse giunto il momento.

Spersa nei suoi pensieri, scansando abbastanza apertamente tutti quelli che provavano ad avvicinarsi, la donna era andata al portone. Già la prima volta che se l'era trovata davanti aveva provato un insieme contrastante di emozioni, ma adesso, forse perché resa vulnerabile dai ricordi, vedere la vipera viscontea nel mezzo, con ai lati le palle medicee a destra e la rosa d'oro dei Riario a sinistra, aveva il potere di smuoverla nel profondo.

Quei tre semplici stemmi intagliati nel legno avevano un significato estremamente particolare, per lei, e,trovarseli tutti e tre assieme a quel modo, la metteva come non mai davanti alla confusione organizzata che era stata la sua vita fino a quel momento.

Stava sospirando, in silenzio, lo sguardo fisso allo stemma che il suo breve matrimonio con Giovanni le aveva permesso di sfoggiare con tanto orgoglio, quando sentì arrivarle alle spalle qualcuno che, senza indugio, attirò la sua attenzione, dicendo: “Mia signora.”

Riconoscendo la voce di Luffo Numai, la Tigre non poté non voltarsi e chiedere: “Mi cercavate?”

L'uomo schiuse le labbra e poi, dopo aver lanciato a sua volta un'occhiata agli stemmi sul portone della cittadella che tutti chiamavano, per estensione, il Paradiso, spiegò: “Stavo andando alla rocca, per mettervi a parte di qualche notizia appena arrivata, ma non c'è fretta.”

“Sono qui, parlate.” lo invitò lei, un po' tesa, messa in allarme dal tono del Consigliere.

“Ecco... Sembra che tutti i paesi limitrofi ad Alessandria siano caduti, che i francesi stiano per accerchiare Alessandria...” fece lui, cauto: “E anche Casteggio ha lasciato passare Gian Giacomo da Trivulzio ed è stata saccheggiata.”

Caterina strinse un momento i denti: “E mia nipote Ippolita?”

“Pare abbia resistito finché ha potuto, ma ora sembra che sia riuscita a raggiungere il marito al campo milanese.” disse Numai, senza mostrare eccessiva certezza.

La Sforza si accigliò un momento e poi, con un respiro pesante, commentò: “Povera Ippolita... Se non erro ha l'età di mia figlia.”

“Credo di sì, mia signora.” convenne Luffo, un po' sorpreso nel vedere la sua signora prendere in modo così calmo una notizia che, a suo modo di vedere, era abbastanza catastrofica.

Caduta Alessandria, sarebbe rimasta solo Pavia a riparare Milano e tutti sapevano quanto poco il Moro avesse curato le difese pavesi...

“Io...” soffiò la Leonessa, dopo un momento di silenzio, tornando a guardare il portone della cittadella: “Io... Oggi pomeriggio ho da fare. Credo che tornerò verso sera. Potete dirlo voi al castellano?”

Numai annuì e, più per senso di responsabilità che per altro, chiese: “Se avessimo bisogno di cercarvi, dove..?”

La Sforza scosse il capo con forza: “Mi spiace, non posso dirvelo, perché non so nemmeno io dove andrò.”

Il Consigliere capì solo in quel momento quanto la Contessa apparisse confusa. Non si era reso conto di quanto i suoi occhi fossero distanti, o di come le sue mani fossero scosse da un leggerissimo tremore.

Così, più spaventato che altro, disse solo: “State attenta.”

La donna lo ringraziò con un cenno del capo, poi, come rincorsa dall'ombra nera che albergava nella sua anima, tornò a passo svelto a Ravaldino e poi, senza indugio, prese il suo stallone nero, senza nemmeno perdere tempo a farlo sellare e uscì dalla città.

Prima che potesse decidere dove andare, portò in automatico il suo cavallo fino ai prati di Cassirano.

 
 
   
 
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