CAPITOLO DUE
La pace è finita. A quanto pare, senza preannunciare nulla, Enrico
Porfirogenito ha indetto una nuova crociata. Da quanto l’Impero si estende dal
Sud Italia fino all’estremo Nord, e dall’Al Andalus fino all’Oriente, nessuno a
parte i crociati si è mai realmente interessato alla sottomissione dei
territori al di là dell’Asia Minore.
Secoli fa, qualche pontefice spinse i primi disorganizzati
volontari a conquistare la Città Santa, mentre gli Imperatori si erano solo
limitati a riottenere il controllo sui territori latini orientali perduti,
quelli più prosperi e ricchi di porti commerciali, lasciando perdere la
desolazione della Siria. Io e i miei predecessori abbiamo tenuto ben salda
Gerusalemme e diversi altri Regni Crociati senza mai ricevere alcun aiuto
diretto da parte dell’Impero.
Nonostante siamo formalmente in territorio imperiale e
cristiano, abbiamo una nostra organizzazione, una nostra Regola e un nostro
Ordine; vestiamo la cappa bianca con la Croce rossa e preghiamo quanto i monaci
delle nostre terre natie. Parliamo il latino come tutti i sudditi di
Costantinopoli, la capitale del rinato Impero Romano Germanico, ma in realtà
ormai non siamo più abituati a ricevere ordini che siano emanati da altri oltre
al nostro Maestro e dal Capitolo Generale.
Enrico è giunto fin qui in silenzio, prevaricando il nostro
Ordine e le nostre Regole. Ha infranto la nostra pace, facendo giungere
dall’Occidente tantissimi soldati, e pare che molti altri si stiano dirigendo
dall’Asia Minore verso Edessa.
Ha portato così la confusione. E la confusione ci porta a
mancare le preghiere e ad abbandonare le nostre consolidate consuetudini.
I miei confratelli non la pensano come me, anzi, sono
euforici… si sentono protagonisti di un’impresa. Io invece ho tanta paura.
Mentre Gerusalemme è percorsa da questo improvviso fremito,
ne approfitto per recarmi dall’anziano Adalbert, al fine di confessarmi. Questa
volta conto di riuscirci, sperando di non essere interrotto.
Il vecchio infatti mi accoglie subito, anzi, sembra quasi che
mi stia aspettando; egli si erge diritto nel mezzo dell’ingresso della sua
umile chiesetta.
Quando mi nota mi invita subito a seguirlo.
“Sei qui per la consueta confessione, immagino, mio caro fratello”,
afferma il prete-guerriero, continuando a camminare verso l’angolino più buio
del sacro ambiente, dove confessa i peccatori.
“Proprio così, Padre”, confermo con grande rispetto. L’uomo
si ferma, poi si mette a sedere sulla sedia in mezz’ombra.
Io mi inginocchio al suo cospetto, sotto le ginocchia il duro
pavimento è già un assaggio di penitenza.
“Questo è un giorno in cui nessuno pensa ai propri peccati.
Tutto questo ti rende grande onore, Bruno”.
“E’ solo ciò che ho scelto. È la mia vita”, replico.
Faccio fatica a trattenere il nervosismo che mi assilla
dall’alba di questa mattina.
“Immagino che tu sia uno dei pochi in disaccordo con quello
che sta accadendo”, riflette il sacerdote.
“Lo sono. Mi sono addestrato per difendere i luoghi santi, le
reliquie e i pellegrini indifesi, e non per entrare nelle milizie personali di
un signore terreno”.
Non mi freno, non ho peli sulla lingua. La mia spada difende
Dio e i poveri, non prende le parti di chi vuole aumentare la sua influenza. Al
di là della Terra Santa, già sottomessa, non c’è nulla che possa importare a un
fedele devoto.
“Mio caro fratello, dispiace anche a me tutto quello che sta
accadendo. E’ preambolo di sventura”, sussurra.
“Poi, un principe si presenta qui all’improvviso, facendo
sbarcare tantissimi uomini e mettendosi d’accordo con i nostri vertici al solo
scopo di inserirci tra i suoi guerrieri. Tutto questo senza alcun avviso
pubblico, né il supporto del fratello Imperatore e del nostro Pontefice. Non
lascerò che il mio orgoglio venga così piegato”, torno ad affermare a voce
alta, e non me ne pento.
È solo quello che sento dentro di me. Eppure, Adalbert pare
contrariato dalle mie parole e si china verso di me, stringendomi in un
fraterno abbraccio.
L’odore d’incenso emanato dalla sua barba inebria per un
attimo le mie narici.
“Fratello Bruno, cerca di non gridare queste parole”, mi
sussurra all’orecchio, “se il principe intende indire una guerra contro gli
infedeli, è naturale che sia giunto fin qui con la massima discrezione,
cercando di non spargere la voce. Cogliere il nemico di sorpresa è una delle
più valide tattiche belliche”.
Adalbert scioglie l’abbraccio.
“E ti ricordo che purtroppo viviamo sulla Terra, e non tutto
è giusto. Tu hai un animo puro, beato alla Fede, quindi investi le tue forze
nel tuo progetto. Ricorda però che hai anche dei superiori, ed entrando
nell’Ordine hai giurato di obbedire”, prosegue.
“Quindi…”, borbotto, un po’ perplesso.
“Quindi se si dovrà combattere, combatteremo tutti. Se i
nostri confratelli di rango superiore decideranno che ciò è cosa buona e giusta
per l’Ordine stesso, allora obbediremo”. Le sue parole risuonano come
profetiche.
“Se il Capitolo ha accolto e scortato il principe, presto
sarà ufficiale la collaborazione, se non lo è già…”, replico, ma per un’ultima
volta il sacerdote mi zittisce.
“Entro sera lo sarà, probabilmente, e sarà come Dio vuole! E
tu sei qui per una confessione, ricorda, e non peccare continuando a parlare di
altro. Queste sono decisioni che non ci sfiorano, noi poveri servi della Croce seguiamo
solo ciò che viene deciso. Tutto qui. Procediamo, quindi! Nel nome del Padre,
del Figlio e dello Spirito Santo…”.
So di aver messo in imbarazzo l’anziano con tutti quei miei
dubbi, e preferisco quindi lasciare che accolga la mia confessione e mi
infligga molte preghiere in più da recitare. In fondo ha ragione lui, non
dovrei nemmeno pensare di poter mettere in dubbio le decisioni dei nostri
superiori e dell’Ordine. E se guerra dev’essere, che guerra sia, se questo è il
volere di Dio.
Quando torno all’aria aperta, dopo aver pregato assieme al
vecchio e averlo ringraziato per le sagge parole che mi ha rivolto, confortandomi
un po’, mi lascio solo avvolgere dal frastuono di una Gerusalemme sul piede di
guerra.
Due giorni dopo l’arrivo del Porfirogenito, siamo già tutti
in marcia verso Sud. Il Maestro ha sancito che giorno e notte ode le grida di
dolore dei nostri fratelli cristiani in Egitto, che invocano il nostro aiuto.
Gli Ayyubidi devono essere finalmente puniti per tutti i
crimini che hanno commesso.
L’altra branca dell’esercito, rimasto a Edessa, calerà invece
verso la Mesopotamia. La nostra duplice manovra servirà per attaccare
all’improvviso e su più fronti un nemico per ora molto più numeroso, però non
adeguatamente preparato.
Il lungo periodo di pace ha reso stabili i confini e probabilmente
gli infedeli non si aspettano alcuna mossa improvvisa.
Noi, i Cavalieri di Gerusalemme, abbiamo la fortuna di poter
combattere direttamente sotto gli ordini di Enrico, il giovane e spavaldo
principe sicuro della vittoria della Croce. Egli ci guida in prima linea e
veglia sulla nostra difficoltosa marcia.
Il principe è un giovane dai capelli scuri, tarchiato e dalla
carnagione abbronzata, è un greco in tutto e per tutto. E’ comunque davvero
molto risoluto, sembra che sia stato forgiato in mille e più battaglie, un vero
veterano, ma tutti sappiamo che è la prima guerra alla quale partecipa. Forse
non ha nemmeno mai annusato l’odore del sangue.
All’epoca dell’ultima guerra balcanica, quando moltissimi
uomini di ogni ceto ed età erano stati arruolati per conquistare il Regno dei
Bulgari e sottomettere per sempre gli ultimi Ungari rimasti erranti, doveva
essere ancora in fasce. Io stesso ero un bambino piccolo, e ben so che dopo
quel breve ma sanguinoso conflitto non ci sono state altre campagne militari
degne di rilievo.
L’Impero Romano Germanico ha già raggiunto un’estensione imponente
e anche l’odierno e giovane Imperatore pare non avere il desiderio di spingersi
più a Est, dove ancora i Variaghi possiedono un vasto e florido Regno indipendente
basato sui commerci con la Scandinavia e altre terre ignote. Ma ora noi siamo
in piena crociata, quindi dobbiamo essere pronti al peggio.
Il mio inseparabile amico Michele marcia a mio fianco, e
nonostante il clima ostile siamo come rocce, nulla ci scalfisce.
“Secondo te, come sono questi infedeli?”, mi chiede, ed io
sorriso amaramente. Bella domanda.
Nella Terra Santa ancora ci sono numerosi predoni
appartenenti ai popoli al di là del confine, ma sanno confondersi tra i Franchi
vestendosi come noi, e utilizzano armi occidentali. Non ho idea di come si
comportino in battaglia questi individui.
“Non lo so, probabilmente sono molto simili a noi”, rispondo
con razionalità.
D’altronde, per ora siamo ancora in territorio amico. Non
vale la pena fasciarsi la testa, ormai siamo stati obbligati a questa follia.
Camminiamo per giorni e giorni, sembra un vero e proprio
calvario. Il paesaggio è sempre tutto uguale e ogni tanto ci sentiamo
osservati, forse il nemico presto verrà a conoscenza delle nostre mosse. Ma
probabilmente sarà già troppo tardi, poiché le nostre truppe sono già presso
Gaza, nostra ultima roccaforte meridionale.
Non ci viene concesso nemmeno di entrare in città, poiché
alcuni dei guerrieri provenienti dalla Germania si sono ammalati di strane
febbri e si teme una pestilenza.
A noi si unisce un intero reparto di catafratti, la cavalleria
pesante d’eredità greca che ha donato alla cristianità e all’Impero notevoli
vittorie, soprattutto nei Balcani.
Adesso, mentre l’implacabile marcia forzata prosegue verso
Sud, iniziamo ad avere paura. L’euforia iniziale è svanita anche presso i miei
confratelli; anche se siamo gli unici a essere abituati a tali sacrifici, la
fatica inizia a farsi sentire.
Tutta l’accozzaglia proveniente dalle altre regioni
dell’Impero è ormai ridotta a retrovia, lenta e impacciata.
Ad accompagnarci c’è il Maresciallo, a cui facciamo tutti
affidamento, ma egli non si sbilancia e non ci ordina altro che continuare a
marciare. Presto siamo solo una massa umana taciturna, ma il silenzio del
deserto viene interrotto dal rumore ritmico del ferro che portiamo addosso.
L’acqua scarseggia e le nostre stesse borracce iniziano a
vuotarsi.
Enrico resta sempre davanti a tutti, ma non si mostra più
baldante e gioioso. La nostra guerra sta per concludersi ancora prima di
iniziare.
Entriamo quindi nelle terre degli infedeli senza nemmeno
accorgercene, immersi nella vastità desertica che separa Gaza dalla remota
penisola arabica e dall’Egitto. Le nostre notti diventano rapide e disturbate
per paura di un attacco nemico, i giorni sempre più caldi e sfiancanti.
Seguiamo le rotte delle carovane che a lungo hanno fatto la
spola tra i Regni Crociati e i vari califfati meridionali, ma non notiamo
nessuna traccia di vita umana. Inizio a credere che forse il nemico si stia
prendendo gioco di noi.
Beviamo e mangiamo sempre più raramente, la nostra situazione
peggiora e le giornate scorrono tutte uguali, non sappiamo nemmeno da quante
settimane siamo in marcia. Per fortuna non dobbiamo pensare molto.
Inoltre, almeno il deserto ci ha risparmiato le tempeste di
sabbia e i suoi patimenti più estremi. La penisola del Sinai si rivela un vero
ostacolo, ma non insormontabile.
Dopo settimane di fatiche e di privazioni, giungiamo infine
in una fertile e ristretta fascia di pianura circostante un grande corso di
acqua, dove ci rifocilliamo a dovere. Ma ancora non possiamo riposare. Dove c’è
necessità, attraversiamo le acque su fragili zattere improvvisate e costruite
sul momento con i tronchi delle temerarie palme che resistono anche a questo
clima.
Ormai siamo macchine da guerra, non più uomini. Non parliamo
più, né preghiamo se non tra i denti e di sera, prima di addormentarci.
Qualche giorno dopo, finalmente giungiamo in quello che viene
subito identificato come il delta del Nilo. Siamo nel cuore dell’Egitto, ed è
là, nella fertile piana, che ci attende il primo grande esercito nemico. Già
dispiegato, pare sia in attesa da settimane.
Io faccio fatica a camminare, sono stanco e ho la vista
offuscata, ma come tanti altri miei compagni non ho nessuna difficoltà a
focalizzare la massa umana che, non appena ci nota, inizia a muoversi verso di
noi. E questi nemici urlano parole incomprensibili e minacciose, decise e colme
di rabbia.
Non c’è tempo da perdere; le nostre fila si organizzano in
fretta e dagli ordini impartiti sappiamo bene che noi crociati saremo i primi
ad affrontare l’orda degli infedeli.
Sfilo la mia spada dal fodero e mi metto in attesa.
L’impatto è devastante; molti di noi vengono spinti
all’indietro e il fatto che siamo coperti di ferro non ci aiuta. I primi si
sbilanciano, alcuni cadono e vengono uccisi, ma noi li rimpiazziamo subito.
Mi ritrovo così ad affrontare per la prima volta una schiera
armata di infedeli.
Mulino la spada e cerco di fare del mio meglio, ma si nota
subito che loro sono in vantaggio. Sono più forti, più rapidi, più agguerriti,
più numerosi e preparati.
Vengo affiancato subito dal mio amico greco, mentre le nostre
formazioni sembrano sciogliersi, per poi mischiarsi a formare una rissa
confusa.
Non riscontro difficoltà eccessive nel limitare la tecnica di
combattimento avversaria, anche se loro sono molto più rapidi di noi nei
movimenti. Vestiti in modo semplice, con soli abiti leggeri che svolazzano a
ogni alito di vento, i nemici godono di una libertà quasi assoluta, anche se
sono più vulnerabili di noi. Non mi impegno in combattimenti seri, cerco la
difensiva e tanti altri del mio stesso schieramento sono nella mia stessa
situazione.
Forse non ce l’aspettavamo neanche più, di trovarci a faccia
a faccia con questi mitici infedeli, finora sempre rimasti nascosti nel cuore
dei loro ostili territori.
Giungiamo presto a un punto in cui capiamo che stiamo per
battere in ritirata. Allora una voce si alza perentoria nel bel mezzo del grido
rabbioso della gente che muore; è Enrico, il Porfirogenito che alza verso il
cielo una lunga asta, e su di essa è incastonato il mitico frammento della Croce,
che i sovrani greci vantano di tenere con loro da tempi immemori, fin da
Costantino il Grande. Egli ci ricorda così la nostra missione.
Riprendo a combattere con maggior impegno, ora mi è chiaro
che non sono in Egitto solo per volere di un potere terreno, ma anche per
portare la Croce nelle terre dove tanti poveretti sono alla sua ricerca. Gente
che ne ha bisogno per andare avanti, per sopravvivere alle atrocità a cui viene
sottoposta dagli infingardi conquistatori blasfemi.
Per la prima volta, affondo la mia spada nelle viscere di un
Moro. È stato facile riuscire a violare la sua scarsa difesa e lasciare che il
ferro squarci le sue carni.
Mi è capitato di ferire molti predoni, ma non ne ho mai
uccisi. Invece quest’uomo crolla davanti a me, la mia lama tra le sue costole e
le braccia allargate. È un uomo che non ha viso, poiché come la maggior parte
degli aggressori è ricoperto da veli che lasciano intravedere giusto i bulbi
oculari.
E la mia vittima li ha sgranati, quegli occhi neri come la
pece e arrossati da venuzze che diventano violacee…
L’attacco di un altro nemico distoglie la mia attenzione da quella
del cadavere ormai disteso al suolo. Lo calpesto involontariamente, mentre la
scimitarra si cala su di me come fosse un’accetta e mi costringe a chinarmi un
po’, per parare il colpo.
La lama insanguinata della mia spada emette uno stridio
sinistro nell’impatto, un rumore che si propaga nonostante il clangore della
battaglia in corso. Eppure, resiste alla potenza dell’urto.
Anche la lama della scimitarra è imbrattata di sangue,
presagio sinistro per qualcuno dei miei compagni.
Il contatto tra i ferri si scioglie e torniamo a confrontarci
mentre tutti attorno a noi duellano caoticamente, ma in modo abbastanza
equilibrato.
Mentre torniamo a saggiarci, il suono di un corno manda in
frantumi la parità ritrovata, segnale che i poderosi catafratti sono riusciti a
raggiungerci e sono pronti a darci man forte.
La cavalleria spazza via i nemici in un battito di ciglia, i
fianchi travolti dai prodigiosi cavalli corazzati e dai guerrieri che li
cavalcano, molto più Cavalieri di noi crociati.
Io e i miei confratelli ci disimpegniamo in fretta e furia,
lasciando gli avversari in balìa della cavalleria.
La ritirata degli infedeli quindi giunge rapida, ma nessuno
riesce a inseguire quelle leggiadre figure così rapide da scomparire senza
lasciare traccia, come se non ci fossero mai state. Noi purtroppo non abbiamo le
forze nemmeno per provare a inseguirli.
Crolliamo sfiniti sotto il peso del ferro, del caldo e della
fatica.
“Avanti, prodi guerrieri! Oggi abbiamo vinto, dobbiamo
onorare a dovere la vittoria”, ci incita il Maresciallo, girovagando sul suo
cavallo.
Attorno a noi, ci sono più morti vestiti di ferro che di
fresco tessuto di lino. Non è stata una così grande vittoria.
Io e Michele ci ricongiungiamo presso uno dei tanti rigagnoli
che formano il vasto delta del Nilo. Beviamo l’acqua sporca senza nemmeno
prenderci la briga di farla bollire, meritandoci gli insulti del Maresciallo e
dei vari comandanti occidentali, ma che importa in fondo? Abbiamo una sete così
devastante che ci conduce alla pazzia.
I vertici reclamano l’ordine, ma noi siamo bagnati dal nostro
stesso sudore e abbiamo una necessità urgente di rimpiazzare i liquidi perduti.
Nessuno può comprendere la profondità del nostro strazio fisico.
Una volta dissetati, ci abbracciamo con forza.
“E’ stata una battaglia del cazzo”, afferma Michele,
contrito. Come dargli torto.
“Andrà meglio la prossima volta… l’importante resta vincere,
in fondo”, trovo la forza di aggiungere, la lingua resa impastata dalla
disidratazione.
All’improvviso, alcuni nostri compagni gridano.
Ci volgiamo a osservare cosa sta accadendo, e vediamo subito
uno dei nostri mentre viene trascinato in acqua da un grosso coccodrillo. È
stato afferrato alla spalla, quando da chino ha cercato di bere proprio come
abbiamo fatto anche noi. Inutile l’opposizione di alcuni prodi che cercano di
trafiggere le sue dure squame con un paio di lance dalle punte smussate a causa
del conflitto recente.
Questo ci ricorda che siamo in un territorio così ostile che
pure gli animali si ribellano alla nostra presenza. E questo triste evento può
capitare a ciascuno di noi.
Al cospetto della tragedia, e forse con il timore che ciò
possa riaccadere, i nostri superiori ci ordinano all’unisono di rimetterci in
marcia. Andremo verso la costa, nell’attesa che la flotta di Costantinopoli porti
altri rinforzi alla guerra appena iniziata.
Il paesaggio limitrofo al corso del Nilo è differente
rispetto a quello a cui ci siamo abituati.
La piana è fertile e lussureggiante, dobbiamo sempre stare
attenti poiché tra gli insidiosi e alti papiri potrebbero nascondersi
pericolose e improvvise minacce. Anche se c’è molto verde, il caldo però non si
attenua.
La nostra marcia è tutto sommato tranquilla, capita che
qualche predone o beduino ci tenda qualche imboscata, ma sono situazioni che
provocano poche perdite e che vengono sedate in fretta. Non sono l’unico a
pensare che i nemici siano tutt’altro che sconfitti, chissà quindi dove stanno
organizzando la loro nuova offensiva.
Ci sentiamo tutti meglio quando viene divulgata la voce che
Damietta dista solo due giorni di marcia da noi, quindi un importante punto di
sbarco lungo la costa potrebbe favorirci di nuovo e permetterci sostanziosi
rifornimenti di uomini e cibo.
Quando però l’euforia pare averci indotto al punto di
abbassare la guardia, forse credendo che sarebbe stato tutto più facile del
previsto, ecco che giungono i guai.
Restiamo con il fiato sospeso mentre un rombo improvviso ci
avvolge con la medesima sinuosità di un eco. Sono loro, la possente cavalleria
saracena che si sta muovendo verso di noi.
Il nostro esercito si compatta, non capiamo bene da che parte
sta giungendo il nemico e l’alta e fitta vegetazione non aiuta la nostra vista.
I catafratti si dispiegano tutti nelle retrovie, e per qualche attimo speriamo
che tocchi a loro la bega. E invece iniziano a spuntare uomini armati ovunque,
da ogni lato, agitano le loro armi da taglio dalle diverse fogge e fatture.
Molti infedeli sono in groppa dei loro cavalli bassi e
leggiadri, altri addirittura sui cammelli. Altri, ancora, a piedi. Una
moltitudine così numerosa che ci manda in confusione.
Sbucano ovunque e si muovono senza difficoltà in quel
territorio che conoscono molto bene. All’improvviso, nessuno urla più ordini né
appare il frammento della Croce, a sovrastare la nostra battaglia. È come se
fossimo soli.
Cerco il mio amico greco, forse nella speranza di una qualche
sorta di sostegno, ma non lo vedo da nessuna parte.
Mi circondano tanti confratelli, ma è come se per me fossero
volti ignoti.
Ancora una volta mi ritrovo a combattere contro un nemico
vestito leggero e molto più agile di me. Mi limito a rispondere ai suoi affondi
e a tentare qualche fendente, ma l’elmo ostacola la mia vista, già annebbiata
dal sudore, e presto mi accorgo che la mia vita potrebbe finire qui.
Per questo cerco di resistere con un ultimo impeto
d’orgoglio, combattendo con tutte le ultime forze che mi restano. Ho il fiatone
e so che non ce la posso fare a resistere a oltranza.
I nemici che mi circondano alla fine diventano due, tre,
quattro, mentre sembra che il nostro esercito si stia sciogliendo come neve al
sole. A terra le cappe con la Croce impressa sono molte, e ferro e armature
fanno inciampare e rendono difficoltoso anche il solo restare in piedi.
Avverto le grida dei catafratti, forse stanno cercando
un’ultima resistenza.
Poi, il corno suona la sua melodia più lugubre e profonda:
quella che sancisce la ritirata. Non mi metto a pensare, mi limito a spostarmi
all’indietro e a pregare.
I Mori a questo punto hanno notato che tutti i nostri si
stanno ritirando e capiscono che possono attaccarci senza alcuna paura.
La battaglia diventa così un catastrofico disordine, dove noi
crociati e occidentali cerchiamo di svignarcela e gli infedeli ci assillano con
prepotenza. Le uniche urla che si odono, ora, a parte quelle dei feriti, sono
proprio le loro.
Dobbiamo ritirarci ma non sappiamo cosa fare, cerco infatti
qualche figura di riferimento ma noto solo qualche altro mio confratello sparso
qua e là, soverchiato dagli aggressori.
In preda al panico, mi tolgo l’elmo e cerco di assicurarlo al
cinturone, ma non ci riesco e finisce a terra, perduto per sempre. Sono in guai
grossi, poiché sto compiendo tutte le azioni che mi hanno sempre vietato fin
dai tempi dell’addestramento. Mai separarsi dai componenti del proprio
armamentario, durante una battaglia.
Ma io non ci vedo più nulla e la mia testa pare esplodere.
Con il capo libero ho una visuale maggiore, anche se sono
molto più esposto.
Ho paura e continuo a muovermi a caso, di fretta e cercando
di evitare ogni scontro. Un paio di infedeli mi sbarrano la strada, per mia
fortuna sembrano ragazzini e riesco ad avere la meglio sul più basso, mentre
l’altro è indeciso come me. Conta solo sull’agilità e sull’euforia del momento.
Io combatto quasi a caso, affondo con la spada e non lo perdo
d’occhio fintanto che non riesco a mozzargli la mano destra. Quasi per
miracolo. Si vede che le mie preghiere hanno fatto effetto.
Riprendo la mia corsa, questa volta verso il limitare del
campo di battaglia, che finalmente pare vicino. La boscaglia che ha protetto
gli assalitori ora potrà essere d’aiuto a noi sconfitti.
Riesco a raggiungerla e mi ci getto a capofitto, limitandomi
a correre.
Il cuore mi esplode nel petto, ma non ci bado nemmeno.
Sono così tanto terrorizzato da non riuscire più a fermarmi,
fintanto che non crollo sfinito all’ombra di un’alta palma da dattero,
circondata da fitti papiri.
Mi rannicchio contro il tronco e resto con il fiato sospeso,
consapevole di non avere più le forze necessarie per correre o per difendermi.
Se qualche infedele mi ha seguito, avrà una vittoria facile su di me.
Per fortuna, il silenzio mi avvolge.
Temo anche le creature selvagge di questa località esotica,
quindi resto molto vigile. È già un caso che sono ancora tutto intero. Continuo
a non sapere cosa fare, sono solo e isolato, nonché distante dal luogo dello
scontro armato, ed ho perso l’orientamento.
Resto così fermo e immobile per tutto il resto della
giornata, finché il buio non mi avvolge completamente e il caldo del giorno si
tramuta in un fresco così intenso da farmi tremare in continuazione.
Con l’arrivo del nuovo giorno, so che devo andarmene. Non
posso restare qui in eterno.
Mi muovo tra i papiri con circospezione, ma la mia
attrezzatura bellica fa rumore. Allora compio l’ultimo atto scellerato, spinto
dalla disperazione estrema: mi tolgo tutto il ferro che ho addosso, e lo
abbandono. Resto vestito con la mia cappa crociata, ai piedi le calze e ai
fianchi il cinturone con la spada nel fodero, nient’altro. Non posso più
permettermi di attirare anche solo accidentalmente l’attenzione di qualcuno.
Cerco liquidi, perché ho un bisogno folle e impellente di
bere. La presenza di papiri così imponenti è segno che non sono molto distante
da un corso d’acqua.
Quando la terra inizia a diventare umida sotto i miei piedi,
capisco che l’agognata meta è veramente vicina.
Mi muovo con ulteriore circospezione, e mi ritrovo in una
sorta di oasi, dove un ampio acquitrino si estende a vista d’occhio. Accecato,
quasi mi getto a capofitto, ma sono costretto a bloccarmi all’improvviso poiché
odo delle voci vicine.
È così che noto un gruppo di uomini che vestono la cappa,
proprio come me. Alcuni miei confratelli.
Abbandono di corsa il mio nascondiglio e corro loro incontro,
euforico e contento di averli ritrovati. A guidarli c’è il Maresciallo,
appiedato e stanco. Quando mi vede, batte due volte le mani.
“Un altro di noi si è salvato, grazie a Dio”, mormora, e
mentre mi getto a bere, un paio di mani gentili mi cingono le spalle. Si tratta
della stretta inconfondibile di Michele, il mio fedele amico. Attende che
finisca di bere prima di rivolgermi la parola.
“Dio è stato dalla tua parte anche questa volta, vecchio mio.
Ti avevo già dato per morto”, mi dice, felice di avermi ritrovato. Gli dono un
sorriso, il primo dopo mesi di triste fatica.
“Sono coriaceo, lo sai”, affermo.
Controllo chi mi circonda, e mi accorgo con chiarezza che
siamo pochissimi. Una cinquantina, forse qualcosa in più. Molti sono feriti,
altri hanno una brutta cera.
Mi volgo verso Michele.
“Siamo tutti qui?”, gli chiedo, ed egli scrolla le spalle.
“Chissà. Dopo che il corno ha sancito la ritirata, molti si
sono arresi, altri sono stati massacrati. I catafratti sopravvissuti si sono
radunati assieme ai soldati tedeschi attorno al principe, poi i nostri gruppi
sono stati separati. Non so se sono vivi o se sono morti”, mi spiega. Ha
evidente voglia di parlare, dopo il dramma della scorsa giornata.
“Noi speriamo che chi non è presente si sia salvato, e che
presto Dio ce lo riporti come ha fatto con te”, interviene il Maresciallo, che
è vicino a noi e ci stava ascoltando. Non so come replicare, meglio tacere.
L’uomo mi pare per la prima volta molto umano, minuto e
tozzo, non un’autorità distante. Le rughe che solcano il suo viso scoperto
dall’elmo mostrano tutta la gravità dei suoi anni e dei recenti sforzi
esagerati.
“Sono tutti morti”, afferma un confratello disperato, “tutti
morti, e non torneremo più indietro da questo inferno…”. Le sue parole
sconfortanti ci levano ogni speranza.
E adesso, che si fa? Il nostro superiore ci osserva, poi
allarga le braccia.
“Andiamo via, prima che ci scoprano. Proveremo a tornare a
Gerusalemme”.
Non torneremo mai indietro, è questa la verità.
Di muoverci verso Est non se ne parla proprio, il delta sta
venendo invaso da infedeli armati e anche i nostri spostamenti sono
difficoltosi e molto limitati.
Proviamo quindi a seguire il corso del Nilo, ma sappiamo che
prima o poi ci troveranno. Resta la speranza di ritrovare ciò che resta
dell’armata del principe.
Nessun altro dei nostri si ricongiunge al nostro gruppo. I
giorni scorrono lenti, abbiamo paura e siamo taciturni. Ci limitiamo a lottare
per il cibo e per l’acqua.
Capiamo che siamo braccati quando ci accorgiamo di essere
osservati, probabilmente qualche civile ci ha notato e riferirà presto agli
altri Mori. Iniziamo quindi a muoverci alla rinfusa e in fretta, provando anche
ad allontanarci dall’acqua, ma quando avvertiamo il rumore prodotto dagli
zoccoli dei cavalli nemici, capiamo che è tutto finito.
Il Maresciallo si volge indietro, come tutti noi, e osserva
gli infedeli in avvicinamento. Accorgendosi che li stiamo guardando, gli uomini
lanciano grida rauche e spaventose, colme di potenza e di orgoglio.
Il nostro superiore è categorico sul da fare: non tenta una
fuga, non dice nulla, non ordina più. Si mette davanti a noi e toglie la spada
dal fodero.
“Arrendetevi, fratelli. Non ha più senso combattere. Dio ci
vuole vivi”, afferma, poi appoggia a terra la sua arma e attende che i numerosi
Mori ci circondino.
Noi tutti, stanchi e provati, compiamo il suo stesso gesto.
Siamo schiavi, ora. Non ci hanno uccisi, ma ci hanno legati
ai polsi e ci trattengono dietro le loro cavalcature.
Ci costringono così a umiliarci.
La sete e la fame tornano ad annebbiare la mia mente, ormai
non fa più differenza questa sconfitta completa.
Ci fanno marciare per mezza giornata, poi verso sera torniamo
a raggiungere l’immenso corso del Nilo. Ed è in uno spiazzo appositamente
ripulito dalla vegetazione che possiamo notare lo scempio finale, ovvero decine
e decine di cadaveri ammucchiati e ormai ricoperti dalle mosche e dal fetore
della putrefazione. I corpi sono nudi, tranne uno che è stato crocefisso a
testa in giù. Nessuno di noi ha difficoltà nel riconoscere che si tratta del
principe Enrico.
Ecco quindi dove hanno raggiunto gli ultimi superstiti e dove
li hanno sopraffatti e sterminati.
Ci slegano dai loro cavalli e ci conducono al cospetto di
coloro che erano catafratti e guerrieri dell’Impero. Ci costringono a inginocchiarci
tra risa e grida di scherno, ed io obbedisco.
La maggior parte di noi però unisce le mani all’altezza del
cuore e inizia a pregare a voce alta. Noto che anche Michele e il Maresciallo
si sono inginocchiati, ma quasi nessuno ci segue.
Sapendo che la fine è prossima, vogliono morire con dignità.
Gli infedeli non si fanno troppi scrupoli e iniziano a scagliare frecce
ravvicinate a chiunque non si chini. Chiudo gli occhi, mentre quasi tutti i
miei compagni periscono in fretta.
Li riapro quando non sento più il sibilo costante degli
archi.
Evito di guardare i crani spappolati e i petti trafitti, con
l’odore ferrigno del sangue fresco che si mischia a quello della carne marcia.
Siamo rimasti una decina, abbiamo paura e tremiamo da capo a
piedi. Ci costringono ad alzare lo sguardo e ci danno un colpo di frusta
ciascuno, trattandoci peggio delle bestie, prima di mostrarci la Sacra Reliquia
che Enrico Porfirogenito aveva portato con sé da Costantinopoli, appositamente
per quella sua crociata improvvisata: il frammento della Croce.
Il legno è scuro, quasi fossilizzato, mentre i Mori lo
mostrano. Poi, a turno, ci sputano sopra.
La rabbia del Maresciallo esplode e l’uomo grida, cerca di
divincolarsi, ma una scimitarra lo decapita. Dal suo collo spruzza via il
sangue, mentre il corpo si divincola ancora un po’, prima di smettere di
dimenarsi.
I barbari sputano anche sulla sua testa.
Ridendo e schiamazzando, porgono il frammento anche a noi, e
capiamo dai loro gesti beffardi che dobbiamo compiere quel loro stesso e orripilante
gesto, se vogliamo continuare a vivere ancora un po’. Nessuno si fa avanti.
Allora, in ordine, lo mettono sotto al naso del primo
prigioniero, ma egli sputa in faccia al Moro che gliela porge. Viene
immediatamente decapitato.
Poi, si passa al secondo, e al terzo. Nessuno sputa.
Michele, a mio fianco, prega a voce sommessa. Continua a
pregare fin quando la sua testa ruzzola a terra, e ancora pare che le sue
labbra continuino a snocciolare un Padre Nostro.
Ora sono l’ultimo, l’ultimo sopravvissuto alla mattanza.
L’ultimo prigioniero da decapitare.
Il frammento della Croce mi viene posto con insolenza, ed io
socchiudo gli occhi. Penso alla mia vita, se davvero tutto merita di finire in
quel modo. Dio mi vuole vivo, diceva il Maresciallo. Non voglio finire come i
miei compagni, con la testa che ruzzola sulla terra molle e il sangue che
schizza ovunque. Presto i coccodrilli sbraneranno le loro membra.
No, io voglio tornare a casa, sogno la vita, la libertà. Io
voglio tornare indietro, non voglio morire qui. Io ho scelto di servire Dio, ma
non ho voluto questa sorta di crociata tanto agognata dal potere terreno.
Mi ritrovo a piangere, quando la mano di un infedele mi
afferra i capelli e mi scuote con forza, per costringermi a fare la mia scelta.
“Pietà di me”, mi ritrovo ad affermare, poi sputo. La mia
bava appiccicaticcia insozza la reliquia. Per salvare la mia vita, ho ripudiato
Dio. Io, che ero il prolungamento del Suo braccio, un misero frammento di Lui.
Non faccio in tempo a razionalizzare la cosa, poiché mentre i
Mori ridono e sembrano soddisfatti, uno di loro si fa avanti e si inchina a mio
fianco, prima di sciogliersi il ridotto turbante che porta sul capo. La seta
scende rapida lungo il collo e mostra un volto bianco, latteo come il mio. Capisco
immediatamente che si tratta di un occidentale.
“Non devi dispiacerti, amico. Anzi, sei stato coraggioso”, mi
dice in latino, sorridendomi. Io ancora piango, ma smetto al cospetto delle sue
parole.
“Non… non… dirlo…”, balbetto, scosso e traumatizzato.
“Anche a me, tempo fa, è toccata questa sorte. Sono stato
catturato dai pirati berberi, che poi mi hanno venduto a un egiziano che mi ha
reso un servo fedele di Allah. Allah è il vero e sacro nome di Dio”, afferma
con risolutezza, poi si rialza e mi lascia solo.
“Da oggi inizia la tua nuova vita”, torna a dirmi mentre si
allontana, poi la sua figura si mischia a quella degli altri infedeli, e non la
scorgo più.
Manco riesco a scinderla dalle altre, in tutto quel vorticare
di immagini, scene, colori… ciò che mi frulla per la mente. Questo è il mio
calvario, e chissà quanto soffrirò, ora che ho tradito anche Dio. Il mio Dio,
il suo Unico Figlio così infinitamente buono.
Torno a piangere, disperato. Spero che ci ripensino e che mi
uccidano, ho paura di ciò che accadrà adesso. Meglio l’inferno a tutto questo.
Mi lascio crollare al suolo, riponendo le speranze in una
morte che, però, non giunge a liberare il mio animo traditore.