Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    10/08/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Le lettera destinata a Fortunati aspettava, già chiusa, su un angolo della scrivania, illuminata dalla luce un po' grigiastra del mattina di quel 25 settembre.

La Sforza aveva preferito dedicarsi alla corrispondenza a quell'ora, per lei abbastanza insolita, per togliersi il pensiero. Non sapeva di preciso come sarebbero andati gli impegni della giornata, e quindi doveva scansare come poteva tutto ciò che in quel momento le pareva secondario.

Al piovano di Cascina aveva parlato ancora anche della tutela di Giovannino, precisando che aveva dato ordine a Strozzi di dare quanto dovuto anche al notaio che si era occupato di tutta la questione, in modo da ingraziarselo, per quando possibile.

Aveva quindi dato ordine a Pirovano di andare alla cittadella per un'ispezione, mentre lei si era chiusa in camera, lasciando un momento da parte tutto il resto – perfino il suo figlio più piccolo, che pure la reclamava con insistenza – e si era messa alla scrivania.

Così, dopo la doverosa missiva per Francesco, Caterina era passata a una lettera di altro tono, destinata alla badessa delle Murate.

Sia tramite i messaggi di Fortunati, sia tramite la viva voce di Marulli, che si era messo in contatto con quelle suore per suo ordine, la Contessa stava cercando di mantenere vivo il rapporto, in modo tale da poter essere abbastanza certa della loro fedeltà, nel momento del bisogno.

Quella volta, la sua era una risposta a un generoso dono da parte del convento – in realtà una sorta di messaggio cifrato, con cui le monache fiorentine ribadivano la loro buona disposizione nei suoi confronti – ed era quindi un ottimo pretesto per sottolineare la sua gratitudine per quello che le religiose si stavano offrendo di fare per lei.

'Veneranda Mater.' scrisse, cercando al meglio le parole per rivolgersi alla badessa, che, pur essendo per lei una sconosciuta, le sembrava quasi l'unica amica possibile per lei, in un mondo fatto di uomini: 'Ho con summo piacere lecte le lectere vostre vedendo che non ve siate domenticata de me: et che ne le oratione vostre ne faciate di continuo qualche commemoratione: il che tanto me è grato quanto alcunaltra cosa havesse potuto intendere.'.

La Tigre rilesse un attimo ciò che aveva appena messo nero su bianco. Voleva essere un'affermazione di prassi, un ringraziamento gentile, ma formale, e invece si rese conto che per lei quelle parole erano realmente sentite.

Di rado aveva tempo e modo di soffermarsi a pensare a sé stessa, alla sorte della sua anima, alle colpe che l'avevano macchiata per sempre. Sapere che un gruppo di monache la ricordava nelle sue preghiere era di un conforto insperato.

Così decise di aggiungere anche, per far capire quanto davvero fosse commossa e felice per quell'impegno: 'Priegove siate contenta cum tutto quello sacro Collagio in tutte le oratione vostre fare de mi qualche ricordo acioche Idio fra tante agitazione del mondo ne habia a difensare et adrizare al camino più salutifero.'.

Con un sospiro pesante, la donna si abbandonò allo schienale della sedia. Guardò un momento verso la finestra. Non pioveva, ma quella notte non aveva smesso solo un istante. L'odore di umido che arrivava da fuori, malgrado i vetri chiusi, la impregnava come un incenso.

I casi di peste erano già diminuiti, e isolando i pochi malati rimasti, sperava di poter chiudere quell'epidemia con appena un centinaio di morti all'attivo. Erano quasi tutti anziani o indigenti e, anche se avrebbe preferito non pensarla così, si diceva che erano una perdita accettabile, e che l'importante era che l'esercito non fosse stato quasi intaccato dal morbo.

Intingendo ancora una volta la punta della penna nell'inchiostro, la Leonessa decise di ricordare anche il dono giunto appena quel giorno da Firenze: 'Le Pome Granate et altri fructi dell'orto vostro ne sonno state gratissime per multi respecti.'. Le scappò da sorridere al pensiero che gran parte di quello che era arrivato nel grosso cesto portato a dorso di mulo era già stato divorato da Sforzino a colazione.

Avrebbe voluto fermarlo, ma le era parso un gesto gentile, nei suoi confronti, e il modo in cui il ragazzino l'aveva guardata, tra l'incredulo e l'euforico le aveva dato ragione. In un momento di magra come quello, qualche frutto che loro non coltivavano nei terreni di pertinenza della rocca era una cosa preziosa, e Sforzino, che aveva così poche gioie nelle sue lunghe giornate di studio, meritava qualche piccolo premio di quel tipo.

Con ancora un sorriso disteso sulle labbra, la Sforza concluse: 'Golderemle per amore vostro, ringraziandove de ziò, et offerendome a voi di continuo. Benevalete.'

Aveva appena apposto la sua firma, quando qualcuno bussò alla porta. Chiese chi fosse e non si sorprese troppo nel sentire la voce del castellano che le annunciava l'arrivo di Dionigi Naldi.

Poiché la sua signora non l'aveva invitato a entrare, Cesare Feo aveva parlato da dietro la porta, senza aprirla, e la Contessa in un certo senso ne approfittò per non doverlo seguire subito.

“Finisco di prepararmi e lo incontro. Lasciateci lo studiolo.” gli disse, restandosene seduta alla scrivania, le mani in grembo.

L'uomo disse che avrebbe fatto così e si allontanò, il suono dei suoi passi che si faceva via via sempre più ovattato e lontano.

La Leonessa si mise le mani in grembo, e, come incapace di muoversi, riuscì solo a guardare gli oggetti sparsi per la stanza. A parte le sue cose e i suoi abiti, c'erano diversi effetti personali di Giovanni Medici, che lei non aveva mai voluto mettere da parte. Si trattava per lo più di libri.

Lorenzo il Popolano, dopo un primo momento in cui aveva richiesto con insistenza la restituzione di tutti quegli oggetti – precisando, per altro, il loro valore economico, più che affettivo – pareva aver perso ogni interesse nel riavere quei ricordi del fratello.

Da un lato Caterina era felice di non avere più almeno quell'assillo, dall'altro, però, non riusciva a non pensare che quelle poche cose erano una ben magra consolazione, pensando all'ingente eredità di Giovanni che, ancora, era nelle mani del Popolano rimasto. Ne era il custode e la Sforza era abbastanza convinta che non si sarebbe azzardato a dilapidare tutto, ma si trattava comunque di una situazione paradossale, specie in un momento in cui lei avrebbe avuto un disperato bisogno di liquidi.

Liquidi che sarebbero serviti sia per sostenere le spese militari imminenti sia, anzi, soprattutto, per assicurare un futuro ai suoi figli, Giovannino in particolare.

'Giovanni era un uomo ricco – continuava a rimuginare tra sé – è inammissibile che suo figlio non abbia diritto a godere dei suoi soldi.'

Mentre pensava ciò, i suoi occhi verdi si posarono sulla copia del Decameron che era arrivata lì a Forlì proprio assieme al Medici. Il ricordo delle lunghe ore passate stesi a letto, stretti l'una all'altro a leggere e rileggere quelle novelle scavò ancor di più una voragine di solitudine nel petto della Tigre.

Le sembravano passati secoli, da quei momenti di pace. Le risate che certe vicende narrate da Boccaccio avevano acceso in lei e in Giovanni, le lacrime che avevano suscitato in loro, l'attenzione o l'ironia complice... Erano tutte cose che appartenevano a un passato lontano e che non sarebbero tornate mai più.

Con un sospiro tremulo, la donna si alzò, con passo incerto arrivò fino all'inginocchiatoio accanto al letto e in un gesto atto a ricordarle quale fosse il suo presente, posò una mano sul giaccotto che Pirovano aveva lasciato appeso lì la sera prima.

Però, anche nel fare così, la sua mente la mise davanti a pensieri cupi. Anche se il suo amante sapeva regalarle lunghe parentesi di relativa calma, nell'arco della giornata, la Contessa sapeva che quella condizione sarebbe presto cambiata. Il problema era che ancora non aveva capito come.

Giovanni le aveva promesso di nuovo il suo amore e il suo appoggio, si era impegnato a restare fino alla fine, a qualunque condizione, rinnegando tutto il resto, accettando tutto quanto. Per lei quello era stato un sollievo enorme e, benché un po' rovinato dal senso di colpa dovuto al fatto di non poter ricambiare completamente i sentimenti del milanese, le aveva dato una certa sicurezza.

Però, inutile far finta che non fosse così, tra lei e Pirovano era mancato un chiarimento fondamentale, su un aspetto estremamente pratico della loro relazione.

Ormai non c'erano più scuse valide che tenessero Giovanni da Casale lontano dal suo nuovo alloggio alla cittadella e Caterina sapeva per esperienza che nulla come la presenza fisica e la condivisione della quotidianità permetteva a un comandante di esercitare un forte ascendente sulle truppe.

Quindi la logica le avrebbe detto di imporgli immediatamente di prendere stanza al Paradiso e di non muoversi da lì. Però l'idea di non poterlo più avere per sé ogni qualvolta volesse l'atterriva.

Avrebbero dovuto discuterne con calma, valutando ogni possibile scenario, ma non avevano ancora trovato il modo, o meglio, la voglia di farlo. E, d'altronde, la soluzione era tutt'altro che scontata.

Era necessario che Pirovano vivesse e dormisse alla cittadella, ma lei non poteva certo correre da lui ogni notte, rendendosi ridicola e mostrandosi come una povera donna in balia del proprio desiderio. Di contro, non poteva nemmeno pretendere che lui passasse tutte le notti lontano dalla sua nuova sistemazione, pena renderlo poco credibile e poco stimato dai soldati che avrebbero dovuto obbedirgli.

Immersa in quel dedalo che non aveva nemmeno una soluzione di suo gradimento, la Tigre sentì qualche timida goccia di pioggia riprendere a battere contro il vetro e tanto le bastò per ridestarsi e tornare presente a se stessa.

Doveva ricordarsi che, prima di tutto il resto, era la responsabile di uno Stato che, per quanto piccolo, era complesso e di difficile gestione. Tutto ciò che non riguardava direttamente gli affari di Stato doveva essere accantonato, in giornate delicate come quella.

Perciò, dopo essersi data una rapida scorta allo specchio, prese le lettere per Fortunati e per le Murate e si diresse spedita verso lo studiolo. Doveva incontrare Naldi e prendere accordi molto precisi con lui. Imola sarebbe stata l'ultimo baluardo difensivo, quindi era necessario studiare un piano che permettesse a Forlì di prendere tempo per organizzare l'ultimo disperato contrattacco.

“Mia signora.” la salutò il trentaquattrenne Dionigi, quando la vide entrare nello studiolo, tremenda e bellissima come la ricordava.

“Sedetevi.” ordinò la Sforza, che aveva appena due anni più di lui, indicandogli la seggiola davanti alla scrivania e sistemandosi in poltrona: “Perché è una questione lunga.”

 

Rodrigo Borja non credeva vero di essere finalmente arrivato nella sua stanza, nel silenzio del castello di famiglia.

Aveva momentaneamente congedato tutti, in attesa che la figlia arrivasse al suo cospetto, per poterle parlare in tranquillità, dopo tanto tempo, senza testimoni sgraditi.

Mentre l'aspettava – sapeva che l'avrebbe fatto attendere un po', perché quando l'aveva lasciata stava ancora sbrigando i compiti della perfetta padrona di casa con i quattro Cardinali che lui si era portato appresso da Roma – il papa si mise a scrutare fuori dalla finestra.

Per essere il 25 settembre, il cielo era anche troppo terso e la temperatura troppo alta. Nepi si stagliava davanti a lui come un insieme di sassolini scuri che si scaldavano sotto quel sole quasi fuori stagione.

Non vi trovava nulla di particolare, eppure quell'accozzaglia di case gli dava una sensazione di pace. Era come se scappare dalle viette serpiginose e dai palazzi aguzzi di Roma gli stesse permettendo di tornare a respirare.

Come a sottolineare quella sensazione, si mollò un po' il colletto dell'abito con indice e medio e si lasciò andare a un profondo sospiro. Era stato necessario recarsi lì per benedire la città. Ormai era tornata in suo possesso da un tempo ragionevole e quel gesto andava fatto.

In più aveva potuto approfittarne per rivedere sua figlia e cercare, con cautela, di convincerla a tornare con lui in Vaticano.

C'erano grandi novità di cui voleva parlarle e, anche se era stato lui stesso a mandarla nelle sue nuove terre, dandole perfino degli incarichi di responsabilità, si era reso conto che la sua assenza era troppo per lui, e quindi la voleva di nuovo accanto a sé. Anche a costo di riprendersi a corte anche quel ragazzino di Alfonso d'Aragona.

“Padre.” la voce di Lucrecia fu come un balsamo istantaneo, per il Borja.

L'uomo si voltò repentinamente e quando si specchiò negli occhi della figlia, si sentì avvampare per commozione e le sue labbra si stirarono, sotto all'imponente naso, in un sorriso un po' triste.

“Bambina mia! Quanto mi sei mancata!” le disse, mentre i suoi occhi rapaci scendevano sul suo corpo, soffermandosi più del dovuto sul ventre gonfio, che gridava al mondo il suo stato d'avanzata gravidanza, andando a spegnere via via il sorriso accesosi poco prima: “Come stai?”

“Bene.” rispose la giovane, mettendosi involontariamente sulla difensiva, una mano sul pancione e gli occhi bassi.

“Tuo marito..?” chiese allora il papa, la voce appena incrinata.

“L'avete visto anche voi. Sta bene, anche se desidera chiarire tutto quanto con voi.” disse piano Lucrecia, sperando di aver scelto bene le parole.

Rodrigo gonfiò un po' il petto e poi, usando un tono molto più impersonale di prima, borbottò: “Oh, sì, certo, certo... Per quello ci sarà tempo.”

“Come mai volevate parlarmi?” domandò la Borja, prendendo alla sprovvista il padre, che non si sarebbe aspettato da lei una simile intraprendenza.

Più la guardava, più la vedeva diversa. Difficile capirne il motivo, però. Era stato ricoprire, seppur per poco, un ruolo di potere, per darle quella patina di alterigia? O forse era semplicemente diventata più adulta, finendo così per assomigliargli un po' di più? Oppure... Quanta parte aveva in quel cambiamento la vicinanza dell'Aragona?

Cercando di non lasciare spazio a quei pensieri, il Santo Padre si schiarì la gola con un colpetto di tosse e spiegò: “Voglio che tu torni a Roma.”

“Si tratta di un ordine o solo di un vostro desiderio?” la domanda scivolò fuori dalle labbra di Lucrecia prima che lei riuscisse a frenarsi.

Le palpebre pesanti del padre si sollevarono del tutto, denunciando tutta la sua sorpresa. Più la sentiva parlare, più gli sembrava che sua figlia fosse stata sostituita con una giovane donna che, sì le somigliava molto, ma che comunque non era più lei.

“Vuoi sapere se è un ordine.” le disse.

“Sì.” insistette lei, sentendosi preda di un coraggio che fino a quel momento l'aveva sfiorata solo di rado, in presenza del papa.

“Lo sarà, se tu non vorrai esaudire questo mio desiderio.” precisò allora lui, facendosi un po' più freddo.

La Borja allora non disse altro, chinando un po' il capo, le mani sempre protettive sul ventre, e fece per andarsene, ma il pontefice la fermò. Non aveva ancora detto tutto quello che aveva da dire e, in più, era rimasto così spiazzato dalla distanza che sua figlia aveva messo tra loro, da voler trovare in qualche modo una strada per riavvicinarsi.

“Tuo fratello Cesare è a Milano.” le rivelò, notando in lei un brivido, difficile dire se di gioia o paura: “Questa mattina presto ho fatto partire un messaggio per lui. È l'ordine di organizzarsi, prendere la parte di esercito che re Luigi ha deciso di lasciare al suo comando, e marciare in direzione della Romagna.”

Lucrecia taceva, ma qualcosa in lei faceva capire quanto quella notizia l'agitasse. Quello che il papa poteva vedere era l'irrequietezza dei suoi occhi, le sue labbra tirate e le dita che premevano appena un po' di più sul pancione. Ciò che gli restava celato era il battito folle del cuore di lei, la sua schiena che si imperlava di sudore e una stretta allo stomaco che le stava dando la nausea.

“Tra pochi minuti firmerò una bolla ufficiale in cui si dichiarano decaduti dal feudo i signori di Pesaro – a sentir citare la città del suo primo marito, la ragazza si sentì attraversare da una scossa molto strana, che la percorse dalla testa ai piedi, e non era dovuta al fatto in sé, ma al tono compiaciuto con cui suo padre aveva detto 'Pesaro' – Urbino, Rimini, Faenza, Camerino, Imola e Forlì.”

Alla figlia non sfuggì nemmeno il compiacimento che aveva permeato il nome delle ultime due città. Tuttavia, volendo recitare, come spesso faceva, la parte della nobildonna poco addentro alle questioni politiche e per nulla interessata a quelle belliche, fece solo una riverenza, senza commentare.

“Affinché anche tu lo sappia – precisò a quel punto il papa, che si sentiva così in collera con Lucrecia, senza che lui stesso ne capisse il reale motivo – voglio che Cesare cominci annientando quella maledetta Sforza. Tutti devono capire che una donna non può nulla contro gli uomini. Il suo atteggiamento arrogante e dispotico va contro i dettami di Santa Madre Chiesa. Quando la sua testa sarà su una picca, le altre città della Romagna cadranno come mosche ai piedi di tuo fratello.”

La Borja avrebbe voluto chiedere se anche Napoli fosse in pericolo. Lei e Alfonso ne avevano parlato tanto, anche quella notte, ma le mancò il coraggio di farlo. Quell'ultima invettiva le era parsa in parte rivolta anche a lei e alle libertà che, secondo suo padre, si stava prendendo.

Così chiese solo: “Dovevate dirmi altro?”

Rodrigo parve sbollire tutto d'un colpo, mentre rispondeva: “Niente.” poi, giocherellando con uno dei grossi anelli che portava, provò, quasi con timidezza: “Tornerai con me a Roma?”

“Prima voglio parlarne con mio marito.” sussurrò lei, piegando un po' le ginocchia e andando verso la porta, ben decisa a interrompere lì il loro incontro.

Rimasto solo, il pontefice si lasciò andare a una serie di improperi volgari e di bestemmie. Perché Dio era così perfido con lui? Perché da un lato gli offriva l'occasione di forgiare il suo impero, e dall'altro cercava di strappargli una figlia, trasformando la sua dolce e malleabile bambina in una donna fredda e riottosa?

Con uno sbuffo, Rodrigo picchiettò sul crocifisso che portava al collo e borbottò, quasi a minacciare il Cristo d'oro: “Prima o poi faremo i conti, tu e io...”

 

Alla fine la Sforza e Naldi avevano deciso che centottanta uomini fosse il numero corretto di soldati da portare alla rocca di Imola come rinforzo. Dionigi aveva addirittura proposto undici suoi parenti, spiegando che loro sarebbero stati lo zoccolo più duro di irriducibili, se si fosse arrivati alla lotta all'ultimo sangue.

Caterina non aveva avuto nulla da ridire, anzi, era stata felice di vedere il comandante non tentennare nemmeno un istante, quando gli era stata promessa una fine da grande guerriero. Perché, di fatto, accettare la carica di castellano di Imola in quel momento equivaleva ad accettare una morte in battaglia, per mano dei francesi.

“Li respingeremo finché potremo.” aveva promesso Naldi, scuro in volto, una linea dura che si disegnava sulla sua fronte: “E ritarderemo il più possibile il loro arrivo qui, così da darvi modo di far quel che si deve. Sono pronto a morire cento volte, piuttosto che cedere quella rocca senza onore.”

La Leonessa, che aveva in progetto, in effetti, numerose e delicatissime mosse, nei giorni che avrebbero preceduto l'arrivo dei francesi a Forlì, l'aveva ringraziato di cuore e aveva precisato che l'avrebbe fatto partire per Imola nel giro di pochi giorni.

“Prima – aveva spiegato – devo incontrare mio fratello Piero a Forlimpopoli e far avere la comunicazione ufficiale a Gian Piero.”

Dionigi non aveva avuto nulla da ridire, ma proprio mentre stavano per separarsi, la Contessa ebbe un moto di incertezza.

Rischiando con quella pretesa di perdere non solo l'aiuto di un ottimo uomo d'armi, ma anche il rispetto di qualcuno che aveva appena giurato di combattere per lei fino alla morte, aggiunse: “Per dimostrazione della vostra buona fede, voglio che vostra moglie e le vostre due figlie.”

Caterina ricordava di aver conosciuto Dianora Valgimigli e le due bambina proprio lì alla rocca, e poteva ancora sentire tanto Naldi, quanto la sua consorte ringraziarla in modo sperticato per come si era adoperata per far liberare il condottiero dalle carceri di Urbino giusto quell'inverno.

Dionigi, nel sentire quella richiesta era sbiancato. Era stato subito evidente che non sapesse cosa fare. Rifiutare e impuntarsi, forse, sarebbe equivalso a sottoscrivere la propria condanna. Accettare, invece, significava dire addio per sempre alla sua famiglia, ma dare comunque alla moglie e alle figlie un'esile speranza di salvarsi.

“Non consideratele in ostaggio.” aveva precisato Caterina, anticipando qualsiasi parola del soldato, per evitargli un errore: “Saranno la nostra garanzia. Mia e vostra. Mia, perché se contravverrete ai miei ordini, saprò come punirvi. E vostra, perché se farete quello che vi ordino, potrete stare sicuro che farò di tutto per metterle in salvo, quando sarà il momento.”

A quel punto l'uomo non aveva avuto altro da aggiungere. Aveva ricacciato in fondo all'anima ogni rimostranza e aveva accettato tutto, dichiarandosi ancor più felice, a quel punto, di avere ancora qualche giorno per poter dire addio alla sua donna e alle sue bambine e spiegare loro che quella era l'unica strada per loro percorribile.

La Leonessa era stata quasi mossa a pietà, nel vedere gli occhi cupi del comandante, ma si disse che aveva fatto bene a chiedergli tanto in cambio. Di certo un uomo come lui sarebbe stato molto più attento a tradirla. La conosceva e sapeva che sarebbe stata davvero capace di rifarsi su tre innocenti.

E così, arrivata la sera, dopo aver scansato per l'ennesima volta il momento di chiarire gli aspetti più pratici di quella che sarebbe diventata la relazione con Pirovano, Caterina aveva detto al suo amante che doveva andare con urgenza a Forlimpopoli e, spegnendo le sue rimostranze con un bacio, era andata alle stalle, aveva preso il suo purosangue, ed era partita.

Giovanni da Casale l'aveva salutata con riluttanza, facendo finta, però, che gli importasse relativamente. Era rimasto in stanza fino all'ultimo e poi, quando era abbastanza sicuro che ormai la sua amante fosse pronta, era andato sui camminamenti e aveva fatto in tempo a vederla mentre si allontanava, in direzione di Forlimpopoli.

L'aveva osservata in silenzio, i capelli bianchi smossi dal venticello della sera, indomita sotto l'acquerugiola che aveva seguito la pioggia di quel giorno. Il suo stallone nero correva come un pazzo, indomabile come sempre, ma nelle mani della sua padrona malleabile come una fiamma viva addomesticata da un fabbro.

Quando fu troppo lontana per riuscire a distinguerla bene, il milanese abbassò lo sguardo, fece un respiro profondo e incrociò le braccia sul petto.

“State bene?” gli chiese il Capitano Mongardini, arrivandogli alle spalle.

Pirovano lo guardò di sottinsu, con malcelata ostilità. Non gli piaceva quel soldato. I suoi denti piccoli e bianchissimi erano inquietanti, secondo lui. Inoltre aveva sentito cose sul suo conto che avrebbero fatto impallidire il più amorale e feroce degli assassini. E il fatto che Caterina l'apprezzasse tanto non deponeva affatto a suo favore, secondo Giovanni.

“Sto benissimo.” gli disse, freddo.

L'altro sollevò le mani, sulla difensiva e, abbozzando un sorriso perlaceo, si schermì: “Mi sembravate un po' scosso, non volevo essere invadente.” malgrado questa affermazione, però, si premurò di soggiungere: “Non è facile, eh, tenere i suoi ritmi...”

Il milanese aveva colto benissimo l'allusione, e proprio per questo si indispettì come non mai, preferendo ribattere: “Non capisco di cosa stiate parlando.” lasciando poi subito i camminamenti.

Quando arrivò giù, non seppe dire se fosse la sua mente a giocargli un brutto scherzo o se le risate che gli sembrava di sentir arrivare dalle merlature fossero vere. Quale che fosse la realtà, voleva solo cercare di stemperare l'ansia che sentiva crescere dentro di sé in un modo costruttivo.

Non voleva pensare a cosa Caterina avrebbe fatto mentre erano distanti, né a chi avrebbe incontrato, e tanto meno a cosa avrebbe pensato di lui, sempre che a lui pensasse, quando erano separati.

Con passo deciso andò alla sala delle armi e scelse con cura una delle spade più pesanti nell'armario personale della Tigre. Solo lui, Galeazzo e il maestro d'armi avevano accesso a quel piccolo arsenale.

Roteò la grossa spada a due mani un paio di volte, nella semioscurità della sala della armi e poi, come se si accingesse a recitare una serie di lunghe e precise preghiere, prese fiato un paio di volte e si mise a ripetere gli esercizi che, negli anni, aveva fatto miliardi di volte.

Erano movimenti secchi, a lui così familiari da non dover nemmeno ragionare, prima di farli. Si trattava di un modo come un altro per tenersi impegnato, stancarsi, e staccare la mente da tutto quello che lo assillava.

Glielo aveva detto la stessa Caterina, proprio la notte prima, in dormiveglia, mentre si aggrappava a lui in quel modo subdolo che lo convinceva ogni volta che, sotto sotto, anche lei provasse qualcosa di profondo per lui: “Mi servi pronto a tutto, devi addestrarti di continuo. Mi serve un uomo che sappia tirar di spada come Ares, non solo un amante abile come Eros.”

Pirovano, che di miti e divinità sapeva quel poco che la cultura più popolare gli aveva insegnato da ragazzo, aveva comunque colto il punto di quell'affermazione e quindi voleva a tutti i costi dare alla Leonessa ciò che la Leonessa voleva.

Sentendo il camicione che si incollava alla schiena e al petto per via del sudore, Giovanni continuò imperterrito nel suo solitario addestramento e, per qualche ora, riuscì a scordare tutto il resto, vedendo davanti a sé solo gli occhi verdi e imperscrutabili della sua donna, il suo corpo caldo e generoso e le sue mani, perfette e lisce come seta, pregustando il momento in cui avrebbe potuto riaverla per sé, consolato dalla consapevolezza che lui sarebbe stato, se non il più importante, almeno l'ultimo dei suoi amanti favoriti.

 
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas