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Autore: Adeia Di Elferas    12/08/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Piero non si aspettava una visita della sorella, perciò, quella sera, mentre controllava i camminamenti, quando vide Caterina palesarsi davanti alla rocca di Forlimpopoli si sentì invadere da due emozioni contrastanti.

Da un lato era euforico all'idea di poter passare qualche ora con lei, che, di fatto, era ciò che di più vicino a una famiglia d'origine potesse avere lì, mentre dall'altro temeva che il suo arrivo fosse legato a qualche cosa di grave.

Quasi volando al piano di sotto, il Landriani si affrettò a ordinare agli arganisti di calare il ponte e poi lasciò detto alle guardie: “Lasciatela entrare.”

La Sforza dovette tenere saldamente le redini del suo stallone, quando, con rumori quasi spettrali, nella buia sera, il ponte levatoio si abbassò lentamente per permetterle il passaggio. L'umidità che pareva permeare ogni cose le sembrava molto più fastidiosa e insistente che non a Forlì, benché fossero molto vicini.

Quando riuscì a varcare la soglia della fortificazione, la Leonessa trovò ad attenderla il fratello che, a braccia aperte, le sorrideva benevolo alla luce delle torce, troppo felice di vedere una faccia amica e familiare, per passare subito a chiedere conto di quella visita inattesa.

“Devo parlarti.” anticipò lei, smontando di sella e andando con sicurezza verso le stalle.

“Vuoi qualcosa da mangiare?” le chiese lui, accordando il passo a quello della sorella, e seguendola.

“Ho già messo qualcosa nello stomaco a casa.” spiegò lei, mentre si addentrava nel buio della rimessa per i cavalli: “Ma se farai portare qualcosa da bere, mi farà piacere.”

Mentre il Landriani annuiva e tornava un attimo sui suoi passi per cercare un servo a cui passare quell'ordine, Caterina intravide nella semioscurità lo stalliere che più di una volta aveva passato con lei la notte, quando si era trovata lì a Forlimpopoli. Il modo in cui la guardò e le sorrise lasciava capire quanto fosse lieto di vederla e quanto, impudicamente, sperasse di essere di nuovo chiamato ad adempire il compito di farle compagnia fino all'alba.

La Contessa, però, ricambiò quell'occhiata con una sorta di forzato distacco e, dandogli le redini, disse solo: “Dategli da mangiare e da bere. E sistematelo bene. Amo molto questo cavallo.”

Il giovane, senza lasciarsi smontare da quell'apparente gelo, chinò il capo, ossequioso e si affrettò ad asserire: “Certo mia signora. Potete sempre contare su di me. Per tutto.”

Un po' ammorbidita da tutta quella disponibilità, la donna concesse all'aspirante amante un cenno di approvazione e poi lasciò le stalle, sapendo già che suo fratello l'attendeva nella saletta dove si mettevano a parlare ogni volta in cui lei lo raggiungeva lì alla rocca.

“Questo hypocras è ottimo.” commentò piano la Tigre, mentre si lasciava versare un altro bicchiere da Piero.

Questi, abbastanza orgoglioso per la scelta che si era rivelata giusta, annuì e confermò: “Ne abbiamo poco, e lo tengo per i momenti importanti. E una tua visita per me è un momento molto importante.”

Caterina sollevò il calice verso di lui, in segno di approvazione e poi tornò al discorso di partenza, ben decisa a chiarire ogni punto del piano: “Naldi arriverà alla rocca con centottanta uomini. So che servirà a poco, ma sono soldati capaci e volenterosi. Sapranno rallentare la discesa dei francesi, o almeno lo spero.”

Il Landriani si incupì appena, gli occhi chiari che si perdevano nei riflessi ambrati del liquido che stava sorbendo sorso a sorso: “I francesi saranno guidati dal figlio del papa?”

“Per ora non abbiamo notizie ufficiali, ma lo ritengo probabile.” sbuffò la donna, picchiettando le dita contro il tavolo: “E se conosco Rodrigo Borja, sono pronta a scommettere che il mio Stato è il primo nella loro lista nera.”

Piero si disse d'accordo e poi, passandosi una mano tra i folti capelli biondi, chiese: “Vuoi che mio padre resti a Imola, anche dopo la sua destituzione?”

“Lo lascerò libero di andare dove preferisce.” rispose la Leonessa: “Non credi sarebbe una buona idea chiamarlo qui per qualche giorno? Avreste modo di rivedervi, di parlare un po'...”

Il giovane si fece improvvisamente teso, come se la prospettiva lo allettasse e lo atterrisse in egual misura: “Non vedo mio padre da anni, ormai.” le ricordò, come se quel fatto fosse qualcosa di insormontabile: “Da prima che morissero nostra madre e nostra sorella.”

Nel sentirsi dire ciò, la Contessa avvertì un piccolo pungolo di colpa insidiarle il cuore. Era stata lei a mettere Gian Piero come castellano a Imola e Piero a Forlimpopoli, rendendo loro di fatto impossibile vedersi e piangere assieme per due lutti tanto pesanti.

Tuttavia, quando parlò, lo fece con un tono tanto sbrigativo che perfino il fratello, abbastanza avvezzo ai suoi modi spicci, restò sconcertato: “Se per te è un problema, digli di starsene a Imola o di tornare a Milano.”

“Gli chiederò di passare qualche giorno qui da me.” ribatté il Landriani, spronato più da quella ruvidezza che da tutto il resto: “Ma poi gli dirò di andarsene. Non voglio che resti qui, perché qui sarebbe in pericolo.”

“A Milano ha ancora il suo palazzo, immagino...” soppesò Caterina, che non si era mai posta troppo il problema di dove sistemare Gian Piero, una volta che non fosse stato più castellano di Imola.

“Sì, e ha ancora qualche conoscenza, ma dubito che accetti di tornare a Milano, ora che è in mano francese.” soppesò Piero, bevendo un po' di hypocras e sospirando: “Vuole solo vivere tranquillo gli ultimi anni della sua vita.”

A quell'affermazione, sia il Landriani, sia la Sforza, si trovarono tacitamente a pensare la medesima cosa. Mentre i loro occhi si specchiavano gli uni negli altri, nelle loro menti passava, crudele e indefinito, il sentore che se per Gian Piero si stavano aprendo 'gli ultimi anni' della sua vita, per loro, quasi sicuramente, stavano cominciando 'gli ultimi mesi' se non addirittura 'le ultime settimane' della loro vita.

Senza un apparente motivo, mossi entrambi dalla medesima atavica paura, allungarono una mano sul tavolo, stringendo l'uno quella dell'altra, per darsi forza.

Deciso ad alleggerire la conversazione, Piero lasciò la presa e si affrettò a versare ancora da bere sia per lui, sia per la Tigre e, come se non fosse successo assolutamente nulla, domandò: “E come va, con gli uomini?”

Aveva imparato che quello era per la sorella al contempo un tasto dolente e una fonte inesauribile di confidenze. A lui faceva piacere vedere come si apriva, quando erano soli, e si prendeva anche l'annoso compito di darle qualche consiglio, laddove si sentiva in grado di farlo.

Quella volta Caterina non si fece problemi di alcun tipo e gli spiegò nel dettaglio la confusione che permeava la sua relazione con Giovanni da Casale. Più la donna parlava, più il castellano della rocca di Forlimpopoli si rendeva conto di quanto l'incertezza di quel rapporto le stesse complicando anche tutto il resto.

“Davvero non vuoi rinunciare a lui?” le chiese, quando la Contessa sembrò non aver altro da aggiungere.

“Almeno, averlo vicino, mi dà qualche regola.” fu la risposta zoppicante di lei.

“L'importante è che a Pirovano sia chiaro che cosa è lui per te.” concluse Piero, non del tutto convinto: “Non ingannarlo, e se a lui sta bene, allora tienitelo.”

“Lui è un ottimo soldato – si mise a dire la Sforza, come a giustificare la sua ostinazione – e un amante fisso mi permette di eliminare tanti problemi dalla mia quotidianità.”

Il Landriani avrebbe voluto precisare che quelle motivazioni, a suo modo di vedere, non era proprio il massimo, ma ebbe pietà della sorella, che lo fissava in ansia, come se una sua conferma potesse sollevarla da ogni dubbio.

“E allora fai bene a tenertelo vicino.” confermò il giovane, non trovando il cuore di esprimere a voce alta le sue mille perplessità.

In fondo, non poteva dirsi adatto a fare lezioni agli altri, data la sua situazione tutt'altro che rosea e ordinata. Aveva una donna, che però non era solo sua, e non aveva mai avuto il coraggio di chiederle di restare con lui e basta. Men che meno ora, che si apprestava a dirle addio per sempre, nella speranza che almeno lei riuscisse a salvarsi.

“È solo uno che mi porto a letto e che mi servirò in guerra. Niente di più.” tagliò corto Caterina, come se si sentisse in dovere di dare ulteriori spiegazioni.

Piero non ebbe più nulla da obiettare, e, anzi, visto che l'hypocras era finito e che si era fatto molto tardi, preferì cambiare discorso, proponendo: “Che dici, ci ritiriamo per riposarci, così domattina iniziamo la rassegna di buon'ora?”

“Sì.” concordò la Leonessa, alzandosi subito, una volta resasi conto che il suo calice era vuoto e che la notte era già molto inoltrata.

“Per quanto pensi di trattenerti?” chiese il fratello, standole accanto, mentre andavano alla porta.

“Fino a domani sera.” rispose la Contessa: “Al massimo fino al mattino dopo.”

Quella concessione finale fu un implicito molto chiaro, per il Landriani che, ben deciso a non giudicare la sorella in modo sbrigativo e severo, si accontentò di commentare: “Quello che decidi, per me va bene.”

Il castellano della rocca di Forlimpopoli accompagnò la Sforza fin davanti alla stanza che di norma le lasciava quando si fermava da lui. Un po' impacciato, fu sul punto di chiederle se volesse che le facesse arrivare in camera lo stalliere che a volte aveva reclamato, ma poi ci ripensò.

“Piero...” lo fermò però la Tigre, che aveva intuito il motivo del suo tentennamento: “Fallo salire.”

Il giovane fece un breve sorriso, non troppo spontaneo e poi commentò: “In fondo l'hai detto anche tu che quel milanese per te è solo un passatempo.”

“Non gli ho promesso di restargli fedele.” confermò lei, evitando lo sguardo del fratello che, per la prima volta, sembrava intento a emettere una sentenza riguardo la sua condotta.

“Hai ragione.” fece alla fine lui, riacquistando la consueta familiarità e soggiungendo, quasi con ironia: “Magari una notte con un altro ti aiuterà a schiarirti le idee.”

“Magari.” annuì lei, quasi sperando che il Landriani ci avesse visto più chiaro di lei.

Si salutarono in fretta e la Leonessa entrò in camera, preparandosi a ricevere quel ragazzo che aveva imparato a conoscere un po' e, soprattutto, ad apprezzare. Le piaceva il suo modo ruvido di accostarla, la semplicità con cui si esprimeva con lei e i ricordi che la sua posizione e l'odore della sua pelle sapevano evocarle.

Avrebbe voluto non desiderarlo, avrebbe davvero voluto sapere e sentire che Giovanni da Casale le bastava. Ma non era così, almeno per il momento. Le serviva qualche prova, qualcosa che la spingesse a pensare che il milanese fosse sufficiente.

E, in effetti, quando lo stalliere si presentò davanti a lei, felice come non mai che a un'ora ormai disperata fosse arrivata quella convocazione, Caterina si trovò a pensarla un po' come Piero. Non aveva ceduto a quella tentazione perché, come capitava di solito, non era riuscita a trattenersi, ma perché, in fondo, voleva capire se davvero Pirovano avesse per lei quel quid in più che altri non avevano.

Prendendo quella notte come la ricerca di una conferma, la Sforza ordinò al giovane che aveva davanti di serrare la porta e si dedicò a lui, avendo ben cura di non lasciarsi sfuggire nemmeno la più piccola sfumatura di quell'incontro.

 

Semiramide non faceva altro che chiedersi se quello che aveva sentito quel giorno fosse vero.

Anche se tutta Firenze sembrava pensare solo alla presa di Corfù da parte del Turco e dei suoi maneggi con la frangia cristiana per trovare un'intesa, l'Appiani non riusciva a smettere di ragionare su ben altro.

Anche se i suoi concittadini sembravano già quasi dimentichi della guerra di Pisa e di tutto ciò che ne seguiva, la donna, quando aveva saputo che suo fratello Jacopo era stato mandato di corsa al campo del Vitelli, aveva subito drizzato le orecchie.

Era davanti alla tomba di suo cognato Giovanni, in San Lorenzo, e si stava sforzando di pregare per la sua anima e invocare la protezione della Madonna per suo figlio, ma anche mentre si sforzava di far ciò, la sua mente andava sempre e solo a sbattere contro quell'idea fissa, riproponendole con insistenza crescente la solita domanda: perché Jacopo, Governatore d'Armi e delle Armate della Repubblica Firenze, era stato spedito così di fretta a Vicopisano?

Con un sospiro tremulo, Semiramide si sistemò un po' il velo sulla testa, fece una genuflessione rapida e mormorò ancora una breve preghiera. Aveva passato l'intera mattina in chiesa. Non era una prassi, per lei, ma quella mattina il ricordo di suo figlio Averardo l'aveva strappata dal letto, impedendole di riposare e così aveva cercato conforto sulla sua tomba, finendo, poi, per recarsi anche su quella del povero Giovanni.

Si fece il segno della croce, passò un momento davanti all'altare, dedicando un'altra reverenza al crocifisso, e poi attraversò la navata centrale e raggiunse l'uscita.

Il sole del mezzogiorno batteva su Firenze senza l'intensità dell'estate che stava finendo, ma comunque con insistenza. L'Appiani si copriva di quando in quando gli occhi, mentre risaliva la strada che l'avrebbe riportata al palazzo Medici. Non riusciva a considerarlo appieno casa sua, specie negli ultimi mesi, ma i suoi muri imponenti e il suo aspetto austero ed elegante le trasmettevano comunque un certo senso di sicurezza.

Appena varcata la soglia, lasciò detto a una delle sue serve che sarebbe scesa per pranzo nel giro di un'ora, e chiese anche se suo marito sarebbe tornato a mangiare.

“Aveva una riunione al palazzo della Signoria – rispose la domestica, abbassando la testa, con rispetto e con il vago timore di mettere la sua signora di cattivo umore – quindi non sappiamo se tornerà.”

“Peggio per lui, se non torna.” commentò a denti stretti Semiramide, continuando a camminare svelta.

Era ancora chiusa in camera sua, quando sentì qualcuno bussare alla porta. Pensando fosse la sua serva che la chiamava per il pranzo, disse di entrare pure, ma il silenzio che seguì quel permesso la mise subito in allarme.

Si voltò di scatto e quando vide suo marito a poca distanza da lei, quasi si spaventò. Era ormai abituata a vederlo con le occhiaie, il volto scavato e un'espressione perennemente insoddisfatta stampata in viso, ma quella mattina gli sembrava anche più cupo del solito.

“Che vuoi?” gli chiese, alzandosi dallo scrittoio.

Lorenzo masticò un momento l'aria e poi le disse, atono: “Sai che tuo fratello è partito per Vicopisano.”

Non era una domanda. Solo un'affermazione, che aveva quasi il tono dell'accusa. Quando il Popolano faceva così, l'Appiani non sapeva come prenderlo.

“Sai perché sta andando là?” le domandò, le mani dalle dita tozze che andavano ad allacciarsi dietro la schiena, dandogli un aspetto troppo marziale, per uno come lui.

“No.” confessò Semiramide, che avrebbe invece voluto poter dirgli di sì solo per vedere che faccia avrebbe fatto.

“Lui si congiungerà con Ranuccio da Marciano.” rivelò il Medici, mal celando una certa soddisfazione per quello che, evidentemente, per lui era un grande traguardo: “Ce n'è voluto, ma alla fine ho convinto quel bamboccio di Gioacchino Guasconi a decidere per l'ordine d'arresto per Vitelli.”

Il modo sprezzante in cui l'uomo aveva parlato del Gonfaloniere di Giustizia e quella notizia che giungeva abbastanza inattesa alle orecchie dell'Appiani, le fecero esclamare: “Arresto! Ma Paolo Vitelli è sempre stato un tuo sostenitore!”

“Paolo Vitelli non vuole la guerra contro Napoli, come non voleva quella contro Milano, tanto meno quella contro la Romagna.” spiegò Lorenzo, la voce che si alzava, impaziente: “Come posso far sì che re Luigi ci prenda in considerazione come alleati appetibili, se quel maledetto rema contro questo conflitto?”

Semiramide tacque. Finalmente capiva dove suo marito stesse andando a parare. Ancora la Sforza, sempre lei. L'ossessione di distruggerla, di farla soffrire e di spazzarla via. Poco importava se per farlo si doveva vendere Firenze al miglior offerente.

“Secondo me è un errore.” si lasciò scappare lei.

“Non sta a te dirlo.” ribatté subito lui, secco.

“E allora perché sei venuto a parlarmene?” chiese la donna, rimettendosi seduta e tornando a cercare nel suo portagioie una collana da abbinare all'abito che si era scelta per quel giorno.

“Perché tu sei mia moglie e devi appoggiarmi.” rispose lui, con una vena di esasperazione che più di tutto il resto fece cedere un po' la granitica opposizione dell'Appiani.

Era la prima volta da non ricordava quanto che il suo Lorenzo esprimeva, anche se malamente, il desiderio di sentirla di nuovo dalla sua parte.

Lo guardò per un lungo istante e gli chiese: “Hai bisogno di me?”

Il Medici si morse le labbra. Non voleva dirla in quei termini, ma il senso di profondissima solitudine di quei giorni gli pesava come un macigno. Era arrivato a uno dei punti più delicati del suo progetto e non se la sentiva di affrontarlo senza un appoggio sicuro come quello della sua sposa.

“Mi devi appoggiare e basta.” disse, non riuscendo a domare meglio le proprie parole.

Semiramide ci pensò per un lungo istante e poi sussurrò: “Stanotte verrai nella mia stanza?”

“Ci sono già, nella tua stanza.” ribatté lui, impassibile.

“Hai capito che intendo.” si irrigidì lei, chiedendosi se il suo uomo fosse in vena di scherzi o se, semplicemente, ritenesse il loro amore un argomento così distante dalla realtà in cui vivevano da non aver davvero capito la sua richiesta.

“Sì, ho capito che intendi.” fece lui, appena udibile e poi aggiunse: “Se vuoi, stanotte verrò nella tua stanza.”

“Ma non come se fossi un condannato a morte.” precisò lei, cercando i suoi occhi castani, tondi e imbronciati, e riuscendo a incrociarli per appena qualche istante, il tempo sufficiente per capire che, nel profondo, un briciolo di desiderio era rimasto anche in lui.

Il Popolano annuì, burbero, e poi annunciò, mentre già si allontanava: “Non mangio a casa, per pranzo. Devo vedere dei membri della Signoria, per discutere il da farsi... Non aspettarmi nemmeno a cena.”

“Ti aspetterò sveglia, però.” gli ricordò lei.

Lorenzo si esibì in un mezzo sbuffo imbarazzato e se ne andò senza contrattare ulteriormente quegli strani termini d'accordo.

Semiramide passò tutto il resto della giornata animata da una subdola ansia. Non sapeva cosa aspettarsi, quella notte. Era troppo tempo che non divideva il letto con suo marito e aveva la sensazione netta che lui fosse cambiato. Temeva di restare delusa, o, ancor peggio, si restare scottata da qualcosa, dal suo atteggiamento, magari, dalla sua freddezza, o, anche se non voleva prendere in considerazione l'eventualità, dalla sua riottosità.

Quando finalmente scese la sera e poi arrivò la notte, l'Appiani si mise ad aspettarlo seduta sul letto. Aveva indossato una vestaglia leggera, aveva sciolto i capelli e si era cosparsa il corpo con un olio profumato che sapeva il marito gradiva particolarmente.

L'attesa si era fatta così lunga che alla fine la donna, quasi credendosi sconfitta, si era messa a leggere per macinare meglio le ore. Solo quando stava per perdere ogni speranza, abbandonandosi allo sconforto, Lorenzo era arrivato.

Ancora con gli abiti di quella lunghissima giornata, si era scusato, dicendo che all'osteria aveva incontrato il Segretario di Stato e altri notabili di Firenze e che ne aveva dovuto approfittare per provare a tirarli dalla sua parte, per quanto riguardava la guerra.

Per quanto non condividesse il contenuto di quel resoconto – trovando, anzi, ripugnante l'immagine di suo marito che arringava le folle in un'osteria puzzolente e piana di ubriachi e donne di malaffare, cercando di convincere tutti della validità di una guerra che avrebbe portato solo guai – la donna apprezzò immensamente il fatto che il Medici fosse, in qualche modo, tornato a parlarle.

Lo accolse tra le sue braccia dopo che lui stesso si era tolto i vestiti di dosso, e gli lasciò ogni libertà, limitandosi a guidarlo nei momenti di incertezza, rivendendo nelle sue esitazioni gli stessi timori che l'avevano animato anni prima, quando si erano sposati.

Alla fine, però, per quanto fosse intimamente fiera di essere riuscita a riavere suo marito, Semiramide avvertiva un freddo intenso farsi spazio nella sua anima.

Lorenzo si era steso accanto a lei, una mano che ne cercava ancora il fianco, e si era addormentato subito, stremato da una giornata fitta di impegni, culminata con uno sforzo emotivo, oltre che fisico.

L'Appiani, invece, rimase supina e sveglia, rimuginando su quello che aveva appena fatto e su come il suo corpo e la sua mente vi stavano reagendo. Si era trovata molto più distaccata di quanto avrebbe creduto e, fin da subito, si era chiesta se fosse corretto scambiare quel genere di attenzioni con il suo appoggio incondizionato a una guerra che non condivideva.

Voltò appena il viso verso il Popolano. In quel momento, benché il suo corpo fosse molto più magro e patito di quando si erano conosciuti la prima volta, rivide in lui il ragazzo che aveva imparato ad amare e stimare, e il dolore per la consapevolezza di avere ormai un altro uomo accanto crebbe indicibilmente.

Non riuscendo più a sopportare la vicinanza del marito, Semiramide si alzò in silenzio, sgusciando abilmente via dalle sue braccia. Si infilò la vestaglia da notte e, con lentezza, lanciandogli ogni tanto ancora qualche sguardo rapace, arrivò alla porta e uscì.

Scelse una delle stanze per gli ospiti e si infilò sotto il lenzuolo. Il cuore le batteva all'impazzata e non riusciva a capire se avesse fatto bene ad andarsene oppure no. Da un lato avrebbe voluto dormire accanto al Medici e risvegliarsi assieme a lui, come per anni avevano fatto ogni mattina, ma dall'altro non sopportava più quella recita. Era tutto diverso, era tutto cambiato. Si era presa qualche ora d'amore, si era goduta l'illusione di poterlo riavere come un tempo, ma cercare di replicare qualcosa che ormai era morto e sepolto sarebbe stato solo un atto di crudeltà verso se stessa. Era meglio così.

Si disse che gli avrebbe chiesto di nuovo di dividere il letto con lei, ma che, la prossima volta, sarebbe stata lei ad andare nella sua camera, così avrebbe avuto la scusa di andarsene quando voleva.

Si rigirò un paio di volte, affondando il viso nel cuscino che profumava di pulito. Si sentiva ancora addosso l'odore di Lorenzo, la pelle di lui contro la sua, il suo respiro caldo sul collo. Non poteva dire che le fosse dispiaciuto.

Era quasi pentita di tutto quello che aveva fatto, ma solo fino a un certo punto. Non l'aveva mai amato in modo tanto distaccato come quella notte, ma, ripensando a tutto quanto, si rese conto che quella era l'unica via percorribile e, in tutta onestà, non le era dispiaciuta per niente.

 
 
   
 
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