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Autore: Adeia Di Elferas    31/08/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina, uscita dalla rocca, aveva cavalcato veloce e sicura fino al centro della sua riserva di caccia. Aveva messo al sicuro il suo stallone e poi si era appostata, prediligendo prede poco impegnative.

Mentre puntava con l'ultima freccia della sua faretra un'ingenua beccaccia, la Contessa si era trovata a ricordare le battute di caccia in grande stile che a volte faceva suo padre, nel pavese.

In quelle occasioni mobilitava intere mute di cani, decine di inseguitori e altrettanti cacciatori di supporto. Suo padre aveva un fiuto speciale, per la caccia. Sapeva scegliere i momenti migliori e i posti più vantaggiosi, finendo sempre per riempire i carretti del seguito con fior fior di trofei.

A volte si spingeva sulle colline più alte, nelle terre dei Dal Verme, andando a caccia di orsi. In quei casi, lei non lo accompagnava, perché il Duca aveva sempre paura che le potesse capitare qualcosa, una fatalità, un animale irruento che la ferisse, o anche solo un incidente con uno degli altri cacciatori.

“Non mi perdonerei mai, se ti capitasse qualcosa di male per colpa mia.” le parole di Galeazzo Maria Sforza ancora risuonavano nelle orecchie della Tigre come un sinistro monito.

Abbassando lentamente l'arco, la Leonessa guardò impotente la beccaccia volare via. Si era distratta e aveva fatto troppo rumore con la corda.

Con un sospiro, decise di abbandonare le armi, per quel pomeriggio, e tornò così verso il suo purosangue. Alla sella c'erano appesi lepri, uccellagione e perfino un paio di conigli particolarmente paffuti. Avrebbe preferito banchettare con un cosciotto di cervo, ma tanto valeva sfruttare ciò che il bosco le aveva offerto.

Fiutando l'aria che cominciava a sapere un po' d'autunno, la donna prese per le briglie il cavallo e lo condusse lentamente alla casina.

Stava ancora rimuginando su come suo padre fosse stato capace di farle male anche senza portarla con lui alla caccia all'orso, quando, per caso, si sfiorò il tascone dell'abito, sentendovi dentro ancora la lettera di Flavio.

Quel dettaglio, così banale, ebbe il potere di trascinarla di nuovo al presente, costringendola a pensare alle contingenze del momento.

Sistemò lo stallone nella rimessa, staccò una delle lepri dalla sella e poi entrò nella Casina. L'aria immobile e il senso di irrealtà che le dava tornare in quel piccolo rifugio la investirono con prepotenza. Diede uno sguardo veloce al letto, poi al tavolo e infine andò al camino. Si affaccendò fino ad accendere un fuocherello scoppiettante e poi, cominciando a valutare la posizione del suo Stato nello scacchiere politico italiano, si mise a scuoiare la bestiola.

Quando arrivò a mettere la carne sul fuoco, le idee nella sua testa avevano cominciato a filare come di dovere. Sapeva di avere poche possibilità e sapeva anche che Federico Flavio aveva fatto il possibile.

Tuttavia aveva bisogno di una visione più tecnica riguardo i francesi. Doveva mandare un ambasciatore diverso, a Milano, qualcuno che capisse molto di più i reali potenziali del nemico e che, comunque, fosse ritenuto innocuo.

L'unico nome che sembrava rispondere a entrambe le caratteristiche era quello di Michele Marulli.

Il bizantino, noto per la sua cultura e per le sue vicende sentimentali, non era ritenuto praticamente da nessuno un esperto d'arte bellica, ma Caterina, da quando l'aveva al suo soldo alla rocca, aveva avuto modo di capire quanto invece fosse acuto e attento, in quell'ambito. In più, ben pochi sapevano quanto loro due fossero legati a filo doppio dal ricordo di Giovanni, tanto meno quanto stessero intessendo trame per salvare, al momento debito, i figli di lei.

Controllando che la fiamma rosolasse, ma non bruciasse, la lepre, la Sforza abbozzò un sorriso, pensando che almeno quel punto era deciso. Appena fosse tornata a Ravaldino, avrebbe visto Ridolfi, come deciso, ma, subito dopo, avrebbe convocato Marulli.

Doveva spiegarli in modo dettagliato quello che aveva in mente e il reale proposito del viaggio a Milano. Basta tentativi di mediazione coi francesi, era solo tempo perso.

Restava, però, ancora da chiarire la posizione di Firenze. Adesso che si accingeva a scacciare Simone dalla sua corte, forse Lorenzo Medici ne avrebbe approfittato per leggere quella decisione come una mossa antifiorentina... Poco importava. La Signoria le aveva fatto delle promesse e adesso doveva mantenerle. Era inaccettabile, tanto per dirne una, che ancora la conferma della condotta di Ottaviano fosse pendente.

Saggiando la carne con la punta del pugnale, la Contessa promise a se stessa che se la Repubblica non le avesse dato risposte chiare circa il proprio appoggio a breve, sarebbe andata di persona a picchiare i pugni sulla scrivania del Gonfaloniere di Giustizia, a costo di farsi da sola e a piedi la strada da Forlì a Firenze e ritorno.

 

Lorenzo il Popolano guardava, come tutti gli altri, verso il palazzo della Signoria. Le undici di sera erano passate da circa un quarto d'ora e il silenzio che attanagliava la piazza era irreale.

Non gli piaceva trovarsi in mezzo a una simile folla e, a dirla tutto, lo infastidiva anche pensare che la popolazione avesse saputo in modo tanto tempestivo quello che stava succedendo tra le mura del palazzo.

Deglutì un paio di volte, osservando quelli che lo circondavano senza dire nulla. Aveva intravisto, poco prima, il ciuffo nero e ribelle dei capelli del Segretario di Stato, ma poi l'aveva perso nella calca. Aveva avuto una fugace visione di Jacopo Salviati, accompagnato da un paio di suoi amici, ma non aveva avuto voglia di fermarlo per provare a chiedere a lui il motivo della diffusione di quella notizia.

In teoria, ma solo in teoria, ben pochi dovevano sapere quello che Paolo Vitelli stesse passando in quei momenti e ancor meno avrebbero dovuto essere al corrente delle sue confessioni.

E invece tra la gente serpeggiavano commenti di tutti i tipi, appena sussurrati, come a non voler disturbare quell'aria immobile fremente d'attesa.

“Ha confessato tutto. Tutto.” diceva qualcuno, annuendo piano.

“Hanno trovato delle lettere di Cerbone, il suo segretario, destinate al Duca di Milano!” faceva presente un altro.

“Un traditore, ecco cos'è!” decretava un terzo, senza possibilità d'appello.

Il Medici sentiva lo stomaco bruciare. Quella sera non aveva fatto in tempo a cenare e il nervosismo lo stava rendendo molto sensibile a quei digiuni inattesi.

Si immaginò Paolo Vitelli, il grande condottiero, prostrato dopo una giornata intera di torture, lasciarsi andare quasi docilmente, nella Sala del Ballatoio, porgendo il collo al suo boia.

Sarebbe stata di certo più evocativa una condanna pubblica, ma non era il caso. Si temeva che il re di Francia, se non si fosse agito subito, avrebbe avuto il tempo e il modo di chiedere una grazia e non era una prospettiva accettabile. Lorenzo voleva e doveva sbarazzarsi di tutti quelli che si erano dimostrati fedeli o, se non altro, sostenitori, di suo cugino Piero.

Il potere era una cosa così labile e fugace che sarebbe bastato un soffio di vento per farlo sparire, figurarsi lasciar crescere e prosperare turbini della risma del Vitelli. L'unica pecca, in quell'operazione, stava nella fuga di Vitellozzo. Quello era un problema, serio, e andava risolto quanto prima.

Si sentì cigolare una delle finestre del palazzo e poi, mentre tutti quanti parevano trattenere il fiato all'unisono, sotto la luce impietosa di una torcia, venne esposta al pubblico la testa del comandante che aveva guidato l'esercito fiorentino fino a pochi giorni prima.

Tenuto per i capelli, il volto deformato dal ricordo delle torture subite prima di morire, il capo dell'uomo venne tenuto in vista ancora per parecchio, mentre i curiosi accorsi esplodevano finalmente in esclamazioni e motteggi di ogni tipo.

Lorenzo rimase ancora qualche istante con gli occhi tondi rivolti verso l'alto a poi, imbronciato come sempre, si allacciò le mani dietro la schiena e si lasciò alle spalle la confusione di quella strana notte, incamminandosi verso caso.

Anche Jacopo Salviati si trattenne poco. Aveva sperato fino all'ultimo che qualcosa cambiasse, che fosse intercorso qualche problema, che per qualche motivo il Vitelli fosse riuscito a ritardare l'esecuzione.

Mentre metteva lentamente un piede avanti all'altro, l'uomo cercava di non pensare a come avrebbe reagito sua moglie a quella notizia. Lucrezia si era illusa molto più di lui, o almeno così gli era parso, di vedere il condottiero cavarsela. Non voleva essere lui a portarle quella terribile notizia, anche se era da tutto il giorno che in Firenze correva il sospetto che Paolo Vitelli fosse stato già condannato in via definitiva.

Arrivò davanti al portone del palazzo quasi senza accorgersene. Era stato così assorto lungo tutta la via da non accorgersi nemmeno delle sottili gocce di pioggia che stavano cominciando a cadere.

Entrò in casa con il capo chino e gli occhi bassi, cercando le parole migliori per parlare con la Medici. Da quando era nata la piccola Maria, per Jacopo la moglie era di nuovo quella creatura sorprendente, ma bisognosa di protezione che tornava a essere per lui ogni volta in cui diventava madre. Era una sensazione solamente sua, il Salviati lo sapeva benissimo, perché Lucrezia era e restava sempre una donna coriacea e piena di risorse, tuttavia, in qualità di marito e innamorato, lui si sentiva in dovere di fare da cuscino tra lei e le cose brutte del mondo che la circondava.

Quando arrivò nel salone, passandosi distratto una mano tra i capelli che si erano inumiditi durante il tragitto, non si avvide subito della presenza della sua donna. La Medici l'aveva osservato in silenzio fin da quando l'aveva sentito arrivare e aveva già capito benissimo che il peggio era successo e che Lorenzo, per mano della Signoria, era riuscito a sbarazzarsi di una pedina per lui ormai inutile, se non addirittura dannosa.

“L'hanno giustiziato.” disse lei, senza un'inflessione interrogativa, come una semplice costatazione.

Jacopo sussultò, accorgendosi all'improvviso di lei e, dopo un solo attimo di esitazione, annuì.

“Come?” si informò Lucrezia, più per prendere tempo che non perché facesse qualche reale differenza.

“L'hanno decapitato e hanno esposto la sua testa alla folla.” spiegò lui, improvvisamente dimentico delle sue promesse di non turbare inutilmente la moglie.

La donna si morse il labbro e poi, quasi con tono sbrigativo, ribatté: “Non importa. Mio cugino l'ha avuta vinta stavolta, ma non sarà così per sempre.”

Il Salviati sollevò appena gli occhi verso di lei, trovandola con le mani strette l'una nell'altra e l'espressione cupa. Stava per dire qualcosa, per confortarla in qualche modo ed esprimerle il suo appoggio, ma Lucrezia stava già lasciando il salone.

“Ti aspetto in camera.” gli disse solo, e se ne andò.

L'uomo conosceva bene quel tono e sapeva che la Medici aveva bisogno di qualche minuto di solitudine. Così, con un sospiro pesante, lasciò il salone per andare nel suo studio e aspettare che passasse un lasso di tempo sufficiente a farle assorbire quel colpo.

Anche se nei suoi progetti c'era l'idea di lasciare alla moglie almeno un'oretta di solitudine, di fatto dopo una manciata di minuti l'uomo non resistette più e si alzò dalla sedia dietro la scrivania, diretto in camera da letto.

Trovò Lucrezia già coricata, sul fianco. Anche se si era accorta del suo arrivo, non disse nulla. Non si mosse nemmeno.

C'era accesa solo una candela e fuori la pioggia stava prendendo vigore. Per essere il primo ottobre, il clima era anche troppo mite. Negli ultimi anni gli inverni si erano dimostrati feroci già sul finire dell'estate, mentre quella volta sembrava quasi che almeno la natura volesse dare un attimo di tregua all'Italia.

Jacopo si spogliò con calma, cercando di non far rumore, e poi, quando in abiti da camera si sedette sul letto, sussurrò: “Stai bene?”

“C'era anche Lorenzo?” chiese di rimando la Medici.

Il marito aggrottò un po' la fronte e poi confermò: “Sì, l'ho visto.”

“Immagino che non stesse più nella pelle dalla gioia...” commentò lei, a denti stretti, il viso in parte affondato nel cuscino e le mani che stringevano il lenzuolo per scaricare la tensione: “Oggi si è liberato in un colpo di due uomini che parteggiavano per noi...”

Il Salviati non riusciva mai a condividere fino in fondo il pensiero spiccatamente politico della moglie, che voleva vedere ovunque delle mosse e delle contromosse per favorire questa o quella fazione medicea. In più, quella volta, sentiva nelle sue parole un astio motivato solo in parte.

“Lorenzo può aver fatto qualche pressione per far condannare subito Vitelli, ma...” cominciò a dire Jacopo, con cautela.

“Qualche pressione!” sbottò la Medici, restando coricata e dandogli le spalle, ma sollevando il volto dal guanciale: “Qualche pressione! Ha deciso lui!”

“Ma – riprese l'uomo, con tono dolce, ma deciso – non ha avuto ruolo nella morte di Ficino.”

“Questo lo so anche io.” borbottò la moglie, ritornando a premere il viso contro la stoffa morbida del cuscino: “Ma immagino che sia stato comunque felice di svegliarsi, stamattina, e scoprire che uno degli amici di mio padre era morto.”

Il Salviati strinse i denti. Avrebbe voluto ricordarle che l'odio che il Popolano provava per il ricordo del Magnifico era tutt'altro che immotivato e che, nella contesa tra i due rami della famiglia, le ragioni e i torti si distribuivano equamente tra le due parti.

Preferendo gettare acqua e non altra legna sul fuoco, Jacopo si stese e si sistemò alle spalle della moglie, abbracciandola in silenzio.

Lucrezia, che ancora ribolliva per la rabbia, la delusione e lo smarrimento, deglutì e, prendendo una delle mani del marito tra le sue, ripeté un concetto che aveva già espresso nel sapere della morte di Vitelli: “Lorenzo l'ha avuta vinta stavolta, ma non sarà così per sempre.”

L'uomo sospirò e, nel tentativo ultimo di farla calmare, si avvicinò ancora di più a lei, affondando il viso nei capelli, che quella sera aveva tenuto sciolti, e bisbigliò, appena udibile: “Sì, amore.”

 

Le undici di sera erano passate da un pezzo, quando Caterina arrivò alla rocca. Aveva indugiato più del previsto, una volta che si era fatto buio, e aveva perso la cognizione del tempo.

Lasciata la casina a malincuore, era montata in sella al suo stallone nero, controllando di avere ancora tutte le prede di quel giorno ben assicurate ai loro lacci, e poi si era diretta verso casa, senza dar troppo spesso di sprone alla sua bestia.

Una volta a Ravaldino, non sentendosi ancora pronta a fronteggiare Simone Ridolfi, era passata dalle cucine, per lasciare le lepri, i conigli e le beccacce alla servitù e poi era salita fino nella camera di Giovannino.

La balia le aveva riferito, con un sussurro appena udibile, che il bambino si era addormentato con fatica e facendo molti capricci, tanto che avevano dovuto mandare a cercare Bianca per provare a calmarlo.

Mentre la serva ancora indugiava sulla difficoltà eccessiva che riscontrava ogni volta nel placare il piccolo, la Sforza si era messa a guardare il figlio in silenzio, studiandone con calma i lineamenti, alla luce fioca del lume acceso accanto al letto.

Gli occhi allungati erano chiusi e solo di quando in quando una piccola smorfia animava il suo viso. Probabilmente stava avendo qualche incubo. I ricciolini castani gli incorniciavano la fronte, e, forse, lasciati crescere gli avrebbero donato un'aria quasi serafica, ma Caterina aveva deciso fin da subito di tenerglieli sempre abbastanza corti, com'era stato l'uso di suo padre.

A quella considerazione silenziosa, la Tigre aveva dovuto smettere di osservare il piccolo, per evitare troppi parallelismi. Era una trappola in cui era già caduta con Bernardino e la sua somiglianza con Giacomo. Non voleva che anche l'amore incondizionato che provava per il suo ultimo figlio venisse rovinato dai suoi fantasmi.

Quando lo guardava, voleva solo vedere il frutto dell'amore con il Medici, non il ricordo sbiadito di un uomo che aveva amato e che aveva perso troppo presto e in modo crudele.

Dopo essersi raccomandata con la balia di non lasciare il bambino da solo nemmeno per un istante, né di spegnere la candela che diffondeva la sua luce soffusa in tutto l'ambiente – dato che Giovannino dimostrava sempre di più di temere le tenebre e la solitudine – la Sforza era tornata in corridoio e, suo malgrado, si era infine convinta a raggiungere lo studiolo del castellano.

Stava per bussare, avendo trovato la porta chiusa, quando sentì delle voci arrivare dall'interno. Era convinta che ci fosse solo il fiorentino ad attenderla e invece le fu subito chiaro che anche Cesare Feo era lì.

“Vi ho detto di aver pazienza.” stava dicendo il castellano, con voce stanca: “E no, non lo so il motivo preciso per cui vi vuole vedere, quindi calmatevi e basta.”

“Io sono calmo.” ribatté Ridolfi, con tono tutt'altro che conciliante: “Ma...”

“Ma?” chiese Caterina, aprendo la porta e cogliendo entrambi gli uomini di sorpresa.

Cesare, che per tutto il tempo era rimasto nello studiolo per cercare di arginare il fiorentino, che gli era parso fin da subito molto alterato, la salutò chinando un momento il capo e chiese, rapido, prima che si accendesse lo scontro tra Simone e la sua signora: “Devo restare?”

“Potete andare.” lo congedò all'istante la donna, avvertendo l'insofferenza nel suo sguardo e pensando che sarebbe riuscita benissimo a gestire il suo ex Governatore anche da sola.

Il castellano ringraziò con un cenno e poi, dedicando un'occhiataccia a Ridolfi, disse: “Vi auguro un buon proseguimento.”

Richiusa la porta alle spalle del Feo, la Leonessa fronteggiò di nuovo il cugino di Giovanni, che quella sera le sembrava più temibile del solito, con il suo fisico massiccio, i capelli leonini e la sua notevole statura: “Stavate dicendo..?”

“Stavo dicendo che mi avete fatto aspettare più di due ore.” fece l'uomo, incrociando le braccia sul largo petto: “Io ero qui alle ventitré, come mi avete chiesto. Ho chiuso un occhio sulla scelta dell'ora, perché ormai mi sono abituato a qualsiasi stranezza, stando alla vostra corte, ma mi ha dato molto fastidio aspettare così a lungo.”

“Avevo da fare.” cercò di zittirlo la Contessa, chiedendosi, nel sentirlo parlare così liberamente, se Simone avesse o meno ricevuto il suo ordine di lasciare il suo ruolo di Governatore.

“Andare per bordelli?” chiese, mosso più dalla rabbia che non dal cervello, Ridolfi.

“No, quello è un genere di occupazione che lascio a voi.” rispose a tono la Tigre, trattenendo le mani, ma non la lingua: “Se voglio un uomo, non ho bisogno di pagarlo.”

Il fiorentino strinse il morso, gli occhi scuri che inseguivano quelli verdi e inafferrabili di lei e infine esplose: “Mi avete sollevato dal mio incarico! Stavo già facendo i bagagli! Si può sapere che diamine volete ancora da me?!”

“Non volete nemmeno sapere perché ho deciso di non tenervi qui come Governatore?” chiese Caterina, tentando di mostrarsi calma, quando, invece, avrebbe solo voluto saltare al collo di Ridolfi e torcerglielo.

“Mi fate tanto stupido da non averlo capito da me?” chiese lui, sollevando un sopracciglio: “Voltate le spalle a Firenze, ecco cosa fate.”

“Caso mai è Firenze che le sta voltando a me.” mise in chiaro la Leonessa, trovando come la distanza tra loro in quel momento fosse troppo poca.

Anche se era sicura di sé e sentiva il pugnale contro la propria gamba, riconosceva la superiorità fisica del fiorentino. Era molto più grosso e più forte di lei. Inoltre, sembrava così acceso di collera da risultare del tutto imprevedibile.

“E comunque – soggiunse, sperando a qual modo di riportare il discorso su un piano molto meno accidentato – non è per questioni politiche che ho deciso di mandarvi via. Non mi siete stato di alcun aiuto, con la peste. Avete demandato troppo e spesso avete svolto i vostri incarichi con superficialità. E inoltre...”

Stava per aggiungere un dettaglio di cui non aveva mai parlato con nessuno, ma che le bruciava più di tutto il resto. Era già pentita di aver cominciato a vuotare il sacco e Ridolfi sembrava averlo capito.

Infatti, per pura voglia di contrastarla e portarla al punto di rottura, fu proprio lui a incoraggiarla, chiedendo: “E inoltre cosa? Che altro ho fatto di sbagliato, per la vostra signoria?”

“E inoltre io credevo di trovare in voi un sostegno, nella questione di Giovannino.” confessò Caterina, abbassando lo sguardo e sentendo le guance imporporarsi: “Siete fiorentino, voi conoscete i Medici, conoscete bene Lorenzo... Avreste potuto consigliarmi, aiutarmi a...”

“A ottenere i soldi di Giovanni.” completò lui la frase: “E permettervi così di sperperarli in armi e soldati.”

La durezza con cui l'ex Governatore aveva parlato fece risollevare subito lo sguardo della Tigre, che, attonita, gli chiese: “State insinuando che io volessi avere giustizia solo per i soldi? Solo per poterli spendere per me?”

“Io so solo che Lorenzo mi aveva mandato qui con un preciso compito da portare a termine – disse con astio il fiorentino, facendo mezzo passo avanti, abbastanza da far sentire alla Contessa il suo alito un po' vinoso e il calore del suo corpo – ovvero distogliere Giovanni dall'insana idea che voi foste la donna della sua vita. Sono stato solo uno sciocco a ricredermi, arrivato qui. Dovevo prendere mio cugino e riportarlo a Firenze, e forse sarebbe ancora viv...”

L'uomo non riuscì a terminare l'ultima parola, perché la lama del pugnale della Sforza era arrivata, fulminea e gelida, a baciare la pelle del suo collo.

Ne sentiva la lieve pressione e, per un solo istante, ebbe la lucidità di considerare la bravura della donna che aveva davanti, che era stata capace di estrarre tanto rapidamente quell'arma, per poi fermarla con precisione proprio un pelo prima di schiacciarla troppo contro la sua gola.

“Conoscete la mia indole e i miei modi – avvisò Caterina, aumentando la pressione quel tanto che bastava per far apparire qualche leggerissimo rivolo di sangue sul collo dell'uomo – quindi vi consiglio di non fare più certi commenti o certe insinuazioni in mia presenza. In più, sappiate che se vi scoprirò a fare la spia con i miei nemici riguardo un qualsiasi aspetto della difesa del mio Stato o della mia vita, vi troverò e vi ammazzerò con le mie stesse mani. Sapete che posso farlo.”

Simone deglutì, riuscendo solo a peggiorare la situazione. Avvertiva il calore ferrigno del sangue colare lento fino alle lattughine bianche del suo camicione e sapeva che in quella manciata di secondi si sarebbe davvero giocato la vita.

“Uccidetemi adesso, così state più sicura, no?” si sforzò di sorridere: “Se si prende una decisione, meglio metterla in pratica subito.”

“Siete sposato con mia cognata.” fece presente la Leonessa: “Non voglio che resti vedeva per la seconda volta. Non così presto, almeno.”

Ridolfi fece un breve sospiro e poi, gli occhi che finalmente riuscivano a specchiarsi in quelli della donna, trovandovi solo un abisso di oscurità, promise: “Non farò la spia. A questo punto, voglio solo vivere lontano da tutto questo schifo.”

Come convinta all'improvviso della sua buonafede, la Contessa lasciò di scatto la presa, liberando Simone dal freddo contatto con la lama del coltello.

“Lascerete la città prima che venga giorno.” concluse la Sforza, ripulendo, senza alcun riguardo, il pugnale sporco di sangue nella sottana del proprio abito: “E non vi farete mai più ritorno, pena la morte.”

“Non potrò entrare nemmeno a Imola?” domandò lui, cominciando a ragionare su cosa fare della propria vita, ora che era abbastanza certo di averla salvata.

“Potrete stare nei possedimenti di vostra moglie, o lasciare le mie terre. Ma non azzardatevi mai più a presentarvi qui, altrimenti la vostra testa finirà su una picca, sulla Torre del Popolo.” la voce della Tigre si era fatta piatta, atona, come se stesse ripetendo informazioni di prammatica, e non minacce tanto circostanziate.

L'ex Governatore inspirò a fondo. Sentì l'odore del proprio sangue e si rese conto di quanto quegli avvertimenti fossero da tenere in conto. Fece un inchino rigido e poi, andando alla porta, non resistette a dire per l'ultima volta la sua.

“Giovanni vi amava troppo.” sussurrò, con una chiara intonazione accusatoria.

“E stimava troppo voi.” fu la controbattuta della Leonessa che, senza più voltarsi a guardarlo, lasciò Simone libero di andarsene.

Si prese qualche momento e poi, con passo svelto, andò nella sua camera. Giovanni da Casale era ancora sveglio e l'aspettava.

Non diede mostra di essere sollevato di riabbracciarla, ma dall'espressione del suoi occhi Caterina capì che aveva temuto di non vederla tornare, quella notte.

“È tardi.” lo rimproverò lei, staccandosi dalla sua stretta: “Avresti dovuto dormire, a quest'ora. Tu non reggi bene la mancanza di riposo e a me servi in piena forma per...”

“Che hai fatto?” chiese lui, vedendo solo in quel momento le macchie rosse sul vestito: “Ma è sangue?”

“Non è nulla...” tagliò corto lei: “Ero a caccia, lo sai. A caccia capita di sporcarsi.”

Pirovano non volle approfondire, ma quel sangue gli pareva troppo fresco, per risalire alla battuta che la sua amante si era concessa quel pomeriggio.

“Vieni a letto?” le chiese, dopo un momento di silenzio.

Caterina lo guardò. Indossava solo le brachette da notte ed era evidente che la desiderasse. Gli posò una mano sul ventre, apprezzando, come sempre, il contatto con la sua pelle calda e i suoi muscoli definiti. La tentazione di restare e rimandare tutto al mattino era forte.

“No, devo vedere ancora Marulli.” fece, ritirando la mano e scuotendo il capo.

“Adesso?” chiese Giovanni, sollevando le sopracciglia: “Per dirgli cosa?”

“Devo mandarlo a Milano.” spiegò lei, laconica.

“A far cosa?” Pirovano, stremato dalla lunga attesa e assonnato, si stava scoprendo molto irritato dalla tendenza della sua donna a parlare per incisi: “Se vuoi mandarlo a parlare con il re di Francia, la trovo una cosa inutile, dato che c'è già Flavio e mi pare che stia facendo tutto il possibile.”

Caterina non aveva alcuna voglia di perdere tempo a spiegare le sue mosse al milanese, ma siccome l'uomo sembrava più deciso del solito ad avere risposte, prima di lasciarla andare, si risolse a dire: “Perché Flavio non capisce niente di armi e soldati. Voglio mandare a Milano qualcuno che possa tornare e spiegarmi di preciso contro cosa stiamo andando a sbattere.”

Nel sentire ciò, Giovanni non ebbe più nulla da ribattere, se non: “E Marulli devi vederlo proprio adesso? Non puoi parlargli domattina?”

“La vuoi smettere?” sbottò a quel punto la Leonessa, scansando la mano dell'amante, che era corsa alla sua spalla nel chiaro intento di trattenerla: “Non sta a te dirmi cosa posso o non posso fare! Se vuoi farlo, allora significa che non hai ancora capito nulla, né di me né di quello che c'è tra noi!”

Ammutolito dall'aggressività con cui la Contessa gli aveva appena gridato contro, Pirovano si ritirò in buon ordine: “Perdonami.” le disse, non rinunciando a un velato attacco sul finale: “A volte mi scordo che tu sei il mio comandante e io un semplice soldato.”

La Sforza era troppo stanca e nervosa per perdere altro tempo a discutere con il suo amante, perciò, impassibile, tornò alla porta e decretò: “Non aspettarmi sveglio. Se avrò voglia, ti sveglierò io quando tornerò.”

Pirovano deglutì, senza annuire né protestare. La guardò uscire e poi si sedette sul letto. Passò almeno mezz'ora completamente insonne, poi, cedendo più alla debolezza del corpo che non della mente, si assopì.

A risvegliarlo, quando ormai le prime luci del 2 ottobre filtravano dalla finestra, furono le mani della sua Tigre, che lo cercavano con prepotenza, se non, addirittura, con rabbia. Ancora un po' intontito per la notte passata parzialmente in bianco, Giovanni si rigirò nel letto, fino a fronteggiare l'amante.

Si lasciò fare tutto quello che lei voleva e poi, quando infine la fama della fiera parve essersi placata, le chiese: “Hai parlato con Marulli? Siete d'accordo..?”

“Partirà domani.” confermò lei e poi, con un lungo bacio, lo rimise a tacere.

Pirovano a quel punto spense di nuovo la mente, assaporando le labbra voraci della Leonessa, che dalle labbra scendevano al collo e poi cominciavano a saggiarlo senza lasciargli tregua. Affondando una mano tra i lunghi capelli bianchi di lei, il milanese si trovò a pensare ancora una volta che la sua amante aveva mille difetti, ma non l'avrebbe cambiata con nessun'altra donna al mondo.

 
 
   
 
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